Biopolitica. Il nuovo paradigma


- Vai alla Home Page
- Vai alla pagina con l'indice per accedere al testo completo online, (testo principale in un'unica pagina, singoli capitoli ed appendice)
- Vai al capitolo precedente: Bioetica, ambientalismo, biopolitica (I)
- Vai al prossimo capitolo:  La voce della reazione (III)


Sovrumanismo e "terzo uomo"

La biopolitica pone comunque la civilizzazione contemporanea in via di diventare globale di fronte a sfide "inumane". Rifiutarsi di affrontarle delegando le relative responsabilità al meccanismo impersonale del mercato, o tentare di negarle attraverso tipici meccanismi di rimozione, proibizionismo e repressione, conduce come vedremo ad una prospettiva propriamente disumana. A tale prospettiva possono unicamente essere opposte scelte consapevolmente tragiche e sovrumaniste, il salto di qualità di un nuovo inizio tramite cui prendere in mano il proprio destino "per mille anni", anzi, per intere ere.

Il nodo rappresentato in questo senso dalla rivoluzione biopolitica, e non solo, è stato anticipato da alcune riflessioni dell'inizio del Novecento, poi prolungate da autori come Arnold Gehlen o Giorgio Locchi (30), che descrivono i tratti di un'"antropologia operativa" di tipi umani, cui corrispondono diversi modelli culturali, propri sia di diverse fasi epocali che di popolazioni storicamente compresenti ancora in questo secolo (31).

In tale visione, troviamo innanzitutto il "primo uomo", quello dell'ominazione, dell'avvento del linguaggio, delle società di caccia e raccolta, della magia sciamanica che gli consente di identificarsi con modelli tratti dall'ambiente in cui è immerso per supplire alle sue deficienze istintuali e mettere a frutto la sua plasticità etologica. Tali aspetti sopravvivono socialmente nei mutamenti successivi, e continuano ad essere direttamente incarnati sino ad oggi, ad esempio negli aborigeni australiani, o nelle popolazioni indigene "non-negroidi" dell'Africa equatoriale e australe (pigmei, khoisan).

Dopo centinaia di migliaia di anni, sempre secondo questa analisi, sarebbe emerso per la prima volta, in qualche epoca successiva alla fine dell'ultima glaciazione e in un'ulteriore grandiosa tappa del progetto di autodomesticazione che descrive l'avventura della nostra specie, il "secondo uomo". Tale secondo uomo è l'uomo della rivoluzione neolitica, dell'agricoltura (con connessa vita stanziale e prima grande esplosione demografica), della "città", della politica, della religione, della divisione del lavoro, di quella che viene chiamata "tecnologia pirica", delle grandi culture spengleriane. Nell'epoca del secondo uomo, ormai l'"ambiente naturale" è diventato un ambiente culturale. Infatti, non solo l'ambiente naturale è ormai influenzato e plasmato dalla presenza umana, ma il fattore propriamente umano si intreccia inestricabilmente con il puro dato biologico in una azione combinata tanto sui singoli individui che sulle pressioni selettive che ne plasmano le linee genetiche.

Parallelamente, come nota Gehlen, «lo svicolamento delle cose di importanza vitale di questo mondo dall'irrazionalità di ciò che si offre immediatamente e la liberazione dalla infinita ricerca e procacciamento del cibo devono aver prodotto l'acquisizione di una nuova sicurezza esistenziale ed aver dischiuso orizzonti spirituali del tutto nuovi» (32).

Scriveva già Spengler: «Il ritmo della storia si accelera drammaticamente. Prima, i millenni contavano appena, ora ogni secolo ha importanza. Cosa è avvenuto? Se ci si addentra più a fondo in questo nuovo mondo di forme dell'attività umana, si vedono ben presto nessi molto confusi e complicati. Tutte queste tecniche si presuppongono reciprocamente. L'allevamento di animali domestici esige la coltivazione di foraggi; la seminagione e il raccolto di piante alimentari richiedono la presenza di animali da tiro e da soma, che a sua volta rende necessaria la costruzione di ripari e recinti; ogni genere di edifici esige la fabbricazione e il trasporto di materiali da costruzione, il traffico stradale, l'animale da soma e la nave. Cosa vi è in tutto ciò di spiritualmente trasformatore? Rispondo: la sistematica azione collettiva. [...] I nuovi procedimenti richiedono un tempo lungo, in certi casi anche anni – si pensi alla larghezza dell'intervallo fra l'abbattimento degli alberi e la partenza della nave costruita con essi – e richiede pure larghi spazi. I nuovi procedimenti si scompongono in serie di singoli atti esattamente ordinati e in gruppi di azioni svolte le une accanto alle altre. Ma questi procedimenti collettivi presuppongono, come mezzo indispensabile, il linguaggio » (33).

D'altronde, come già detto, il "primo uomo", sia a livello individuale che sociale, sopravvive integralmente nel secondo, che non rappresenta di per sé uno "stadio gerarchico" rispetto all'altro. Anzi, le classi dominanti delle società del secondo uomo rispecchiano sovente stili di vita "arcaici", riprodotti o mantenuti artificialmente in una forma più o meno idealizzata, esattamente grazie all'eccesso di risorse liberate dal mutamento del modo di vivere del resto della popolazione: il parco del re non è costituito da campi coltivati fittamente punteggiati da case coloniche, ma da riserve di caccia e giardini, sostanzialmente disabitati (34). La signoria sul mondo del secondo uomo non è infatti di chi ad esempio "inventa" l'agricoltura (35), ma di chi sa dominare ed integrare culturalmente i nuovi modi di vita in una sintesi superiore (36).

«L'impresa diretta verbalmente», nota Spengler, «è connessa ad un'enorme perdita di "libertà", dell'antica libertà dell'animale da preda, tanto per i dirigenti quanto per i diretti. Gli uni e gli altri diventano, spiritualmente e moralmente, corpo e anima, membri di una più grande unità. Ciò chiamiamo organizzazione. E' la fissazione della vita attiva in forme stabili, è la condizione propria ad imprese di qualsiasi genere. Con l'azione collettiva si fa il passo decisivo dall'esistenza organica all'esistenza organizzata, dalla vita in gruppi naturali alla vita in gruppi artificiali, dall'orda e dal branco al popolo, razza, ceto e Stato» (37).

Scrive Giorgio Locchi: «Avendo appreso [con il "primo uomo"] ciò che fa "muovere" se stesso, l'uomo cerca di "far muovere" gli animali e le piante secondo i suoi desideri e i suoi bisogni. Per ciò che concerne gli animali sociali, si è proposto di assumere nei loro riguardi un ruolo direttivo, sostituendosi al capobranco. Nello stesso modo, colui che ha attinto ad un livello di coscienza superiore, grazie ad una comprensione corretta della '"relazione magica" si pone in quanto aristocrazia nei confronti della società, ed afferma la propria sovranità. La religione costituisce in seguito il sistema ideologico che permetterà di "legare insieme'" la società, e di sottomettere la massa ad una data influenza. [...] Parallelamente alla "domesticazione del mondo vivente" da parte dell'uomo, preso nel suo insieme, si opera la "domesticazione" della massa da parte dell'élite, dell'uomo magico da parte dell'uomo religioso. [...] Questo "passaggio" nel quale consiste la rivoluzione neolitica, e che rappresenta il periodo oggi in via di conclusione (38), riveste un'importanza fondamentale. Non è troppo difficile riconoscervi ciò che la Bibbia chiama "espulsione dal paradiso terrestre", Karl Marx "la fine della società comunista primitiva", Sigmund Freud "l'uccisione del padre" e Lévi-Strauss infine "la separazione tra Natura e Cultura"» (39).

Infatti, il modo in cui il "secondo uomo" reagisce alla storicità che gli si apre, e ciò che ne è emerso, ha portato taluno a individuare altre suddivisioni, e precisamente:
- le culture "soggetto della storia", coincidenti in sostanza con quelle generate dalla rivoluzione indoeuropea (40), che si fanno pienamente carico della dimensione storica esprimendosi mediante il progetto eroico e tragico di forme e destini collettivi deliberatamente e consapevolmente assunti;
- le culture "in preda alla storia" (ad esempio, le grandi culture estremo-orientali, egizie, mesopotamiche, precolombiane, etc.); è difficile d'altronde districare la matassa dei contatti, scambi ed influenze che tali culture hanno subito con le prime, tanto che alcuni autori hanno ipotizzato un ruolo di "innesco" in via generale di influenze e gruppi indoeuropei, per imitazione, competizione o rielaborazione (41);
- le culture "fredde", ovvero le culture post-neolitiche che rifiutano la dimensione storica replicando se stesse in un contesto culturale assunto una volta per tutte (caso della maggior parte delle culture sub-sahariane e amazzoniche), culture che finiranno per diventare "oggetto della storia", in particolare della storia altrui, quando con questa verranno a contatto.

Queste distinzioni sono del resto riprese in termini identici da correnti importanti della cultura dominante, ben rappresentate da Lévi-Strauss [alias] e da tutta la corrente antropologica che vanta appunto i meriti delle "culture fredde", nonché da larghi settori dell'ecologismo politico, e che si salda in ciò con la nostalgia per l'immutabile del tradizionalismo "di destra".

Ricorda ancora Locchi: «Lévi-Strauss ci presenta le società "fredde", che sono spesso definite società primitive, come un esempio luminoso – o almeno da guardare con nostalgia – di fedeltà alla tradizione, alla permanenza e all'"Essere" (42). Riprendendo la descrizione fornitaci da Theodor G. H. Strehlow dei costumi quotidiani degli Aranda settentrionali, fa sua questa conclusione: "L'indigeno Aranda rispetta ciecamente la tradizione, resta fedele alle armi primitive che usavano i suoi lontani antenati, e l'idea di migliorarle non gli passa neppure per la testa". Ma questa seducente omelia gioca sulle apparenze più superficiali: sottende una definizione del tutto fallace della tradizione. Con una certa abilità, Lévi-Strauss confonde qui la lettera e lo spirito, l'atto e il fatto, il gesto e il suo effetto. Continuando ad utilizzare le loro "armi primitive" gli Aranda tradiscono, più che non rispettino, i loro "lontani antenati". Infatti ripetono là dove i loro antenati avevano improvvisato o inventato; segnano il passo là dove i loro antenati avanzavano; cercano rifugio in un mondo reso certo, mentre i loro antenati, sfidando l'ignoto, aprivano le porte di un mondo nuovo. Gli Aranda "fedeli alla tradizione'" non sono che i residui fossili della storia dei loro antenati (43). [...] Le "società fredde" ben meritano il nome di rami culturali pietrificati, che non evolvono più se non in base ad "avvenimenti" esterni e casuali, sotto la pressione di fattori che sono a loro estranei. Esse sono dunque alla mercé di ogni variazione dell'ambiente non prevista dal loro "programma". In breve, esse non possono sussistere in quanto tali che a condizione di non incontrare più la storia da cui sono uscite. È per questo che il contatto con la società occidentale risulta fatale alle "società fredde". Perché l'uomo bianco, persino oggi, rappresenta ancora la storia». La storia di cui per altro l'Occidente vorrebbe imporre la fine, a livello planetario (44).

In questo quadro, infatti, un ruolo del tutto particolare è rappresentato dalla nascita in Medio Oriente di una tendenza storica – rappresentata miticamente dalla scissione di Abramo e dalla fondazione di Israele, e prolungata dalle altre religioni monoteiste in rapporti certo molto complessi con le rispettive culture-ospiti – che pur restando immersa nella storia ne rifiuta moralmente il portato (la "torre di Babele") e trova la sua ragione d'essere nella promessa di una sua fine escatologica, e di una "demistificazione" costante delle sue opere, in particolare attraverso un rovesciamento del divino, che passa da strumento e proiezione dell'orgoglio e creatività umana, nel processo in cui il "secondo uomo" si impadronisce di se stesso e del mondo, a condanna e relativizzazione "trascendente" di tutto ciò (45).

Tale tendenza è evidentemente quella che nella sua forma secolarizzata e più radicale celebra oggi un'egemonia globale, nella veste del Sistema mondialista e meccanicista della fine appunto della storia (46).

Alla sua affermazione fa d'altronde riscontro il recente aprirsi di una prospettiva del tutto opposta: quella del passaggio incombente dalla "coscienza storica" all'autocoscienza di un "terzo uomo". Un passaggio cioè dall'azione meramente trasformatrice sul proprio ambiente culturale e naturale alla responsabilità dell'autodeterminazione diretta di un contesto ambientale, e di un'identità anche biologica, che ormai non possono che essere integralmente artificiali – esattamente come un parco è altrettanto artificiale di un palazzo e, proprio come un palazzo, può oggi venire in esistenza e mantenersi soltanto a condizione che una volontà umana e politica lo preveda.

Scrive Maria Teresa Pansera: «[Gehlen] paragona questo profondo mutamento con la transizione con la transizione vissuta dall'umanità nel passaggio dalla civiltà nomade alla civiltà stanziale dell'agricoltura. Tutto ciò non può essere accaduto senza passare attraverso sentimenti di crisi e insicurezza provati da coloro che si sono trovati a fare parte di una "cultura in declino". Il periodo storico in cui stiamo vivendo gli appare [analogamente] come un'"epoca di transizione" e non come un'era destinata ormai a scomparire» (47).

Il fatto che l'"Interregnum", lo Zwischenreich in cui ci troviamo trascenda del tutto la sfera della crisi politica e culturale europea è sottolineato anche da un autore lontano dall'antropologia culturale come Jünger: «Ci troviamo [oggi] ad una svolta tra due epoche, la cui importanza corrisponde pressappoco a quella del passaggio dall'età della pietra all'età dei metalli» (48).

Un punto chiave di tale passaggio sono naturalmente le questioni che abbiamo raggruppato sotto il termine di "biopolitica", e che del resto la riflessione postmoderna e sovrumanista anticipa in Europa ormai da oltre un secolo, nel quadro di una prospettiva più generale.

Infatti, nel momento in cui la natura stessa si trasforma tendenzialmente in un puro prodotto culturale, e contemporaneamente "Dio è morto", una risposta primordiale e faustiana – che riprenda, e al tempo stesso trascenda, l'atteggiamento indoeuropeo rispetto ai problemi posti dal passaggio al "secondo uomo" – rappresenta l'unica scelta (forse) capace di condurci ad esiti più umani (anzi, "più-che-umani", propriamente: sovrumani), e non meno umani, disumani, nella svolta che ci si prospetta (49).

Disumani appaiono infatti, inevitabilmente, gli esiti di un rifiuto della sfida politica, estetica, esistenziale cui siamo esposti, a favore di meccanismi impersonali quali il "mercato", una "natura" ormai del tutto immaginaria, o il proibizionismo velleitario di chi, in particolare nell'estrema destra e nell'estrema sinistra, vorrebbe continuare a nascondere la testa nella sabbia.

Come nota Gehlen «la rivoluzione industriale che oggi volge al termine segna infatti la fine delle cosiddette "culture superiori", affermatesi dal 3500 a.C. fino oltre il 1800 d.C. e promuove la nascita di un nuovo tipo di cultura, oggi ancora non ben delineato. Seguendo questa linea di pensiero, si potrebbe addirittura arrivare a pensare che l'"era civile" come periodo storico sia vicino a spirare, se intendiamo la parola civiltà nel senso che ci viene illustrato dalla storia delle culture superiori dell'umanità sino ad oggi» (50).

Ciò è da subito inteso nei termini di una rottura anche a livello propriamente biologico, per quanto poco significato possa avere per la nostra specie la distinzione tra "biologico" e "culturale": Predica già Zarathustra: «Ogni essere sinora ha creato qualcosa sopra se stesso: e voi volete essere il riflusso di questo gran flusso e ritornare alla bestia, anziché superare l'uomo? Che cosa mai è la scimmia per l'uomo? Una derisione, una penosa vergogna. Questo deve essere l'uomo per il Superuomo: una risata, una penosa vergogna. Finora avete percorso la via che va dal verme all'uomo, e molto è in voi ancora verme» (51).

La cosa è d'altronde particolarmente evidente con riguardo alla questione ecologica, che può essere affrontata unicamente attraverso una capacità di progettualità politica che implica a sua volta un maggiore, e non un minore, grado di tecnologia, e di dominio dell'uomo su se stesso e sul suo ambiente (52). Se l'Ipotesi di Gaia (53), cara all'"ecologia del profondo", è davvero utile per descrivere la realtà dell'ecosistema terrestre, è solo il nipote di Gaia/Gea, Zeus, il dio "elettrico" della folgore, che può oggi amministrarne l'eredità.

Scrive Heidegger: «Nietzsche è il primo a riconoscere il momento storico in cui l'uomo si prepara ad assumere il dominio di tutta la Terra. Nietzsche è il primo pensatore che, in vista di una storia mondiale per la prima volta emergente, pone la domanda decisiva e pensa tutte le sue più profonde implicazioni. La domanda è: l'uomo, in quanto uomo nella sua natura sinora, pronto ad assumere la signoria del pianeta? Se no, cosa deve succedere all'uomo perché egli sia capace di sottomettere la terra e rivendicare così un antico legato? Non deve l'uomo, così com'è ora, essere portato oltre se stesso per adempiere a questo compito? [...] Di una cosa, comunque, dovremo presto renderci conto: questo pensiero che mira alla figura di un maestro che insegnerà il Superuomo concerne noi, concerne l'Europa, concerne tutta la Terra. Non solo oggi, ma ancor più domani. E lo fa sia che lo accettiamo sia che ci opponiamo ad esso, lo ignoriamo o lo imitiamo con accenti falsi» (54).

Ma la cosa si riflette in ogni questione attinente al nostro futuro, e in particolare quelle attinenti alla conoscenza e manipolazione diretta, da parte dell'uomo, di se stesso e delle altre specie viventi, e di riflesso dell'insieme del paesaggio del pianeta.


Stefano Vaj

- Vai al capitolo precedente: Bioetica, ambientalismo, biopolitica (I)
- Vai al prossimo capitolo:  La voce della reazione (III)


(30) Vedi sull'argomento Giorgio Locchi, "La lettura del mito. Lévi-Strauss, il divenire storico e le società umane", in l'Uomo libero n. 18.
(31) Tali concezioni sono state riprese, sviluppate ed illustrate più estesamente in Stefano Vaj, "La tecnica, l'uomo, il futuro", in l'Uomo libero n. 20, cui rimandiamo per le implicazioni più propriamente filosofiche di questa prospettiva.
(32)Arnold Gehlen, Le origini dell'uomo e la tarda cultura, Il Saggiatore, Milano 1994, pag. 62 (versione originale: Urmensch und Spätkultur, Klostermann 2005).
(33) Oswald Spengler, Ascesa e declino della civiltà delle macchine, op. cit., pag. 75. Il rapporto tra tecnica e linguaggio è del resto iconicamente rappresentato dal mito della torre di Babele, il cui significato viene esemplarmente rovesciato in chiave sovrumanista da Fritz Lang nel film Metropolis [DVD] (Germania 1926, sceneggiato dalla moglie Thea von Harbou).
(34) Così, quando Lang nel film Metropolis già citato deve presentarci la classe dirigente del futuro, ce la mostra per la prima volta in un giardino, tra boschetti e sorgenti, e non nella avveniristica città sotterranea che è riservata alle masse.
(35) L'invenzione dell'agricoltura dei cereali, e della cottura che rende possibile la digestione dei suoi prodotti tipici, sembra rintracciabile in centri multipli di espansione demica ancora oggi identificabili attraverso i gradienti genetici, e corrispondenti alle zone da cui si sono rispettivamente irraggiate le colture del grano (Medio Oriente, in particolare Mesopotamia, e valle del Nilo), del riso (Cina meridionale), del mais (America centrale). Cfr. Luigi Luca Cavalli-Sforza, Geni, popoli e lingue, Adelphi, Milano 1996.
(36) Questo, come illustra Locchi in "La lettura del mito", art. cit., è il vero significato del tema ricorrente in tutte le mitologie indoeuropee della "guerra di fondazione" (Asi contro Vani, Latini contro Sabini, etc.), risolta dalla magia superiore dei primi, che sottomettono ed accolgono la classe produttiva nel sistema della tripartizione funzionale ben illustrato nelle opere di Georges Dumézil.
(37)Oswald Spengler, Ascesa e declino della civiltà delle macchine, op. cit., pag. 87 (ult. ed. italiana con il titolo L'uomo e la macchina, versione originale: Der Mensch und die Technik. Beitrag zu einer Philosophie des Leben).
(38) Locchi tende ad identificare il passaggio al "terzo uomo" con quella che definisce «la domesticazione della materia-energia» che subentrerebbe alla «domesticazione del vivente». Ciò corrisponde indubbiamente all'influenza del "fisicalismo" ancora imperante all'inizio degli anni settanta, epoca in cui vengono pubblicate per la prima volta le riflessioni qui citate.
Gehlen usa un linguaggio simile: «Anzitutto abbiamo la precisa impressione che il passaggio alla civiltà industriale, il dominio dell'inorganico, e persino della sua potenza nucleare, aprano un nuovo capitolo nella storia dell'umanità. Siamo inseriti in questo processo da appena duecento anni e già questa "svolta culturale" ha un significato paragonabile solamente a quello della svolta del neolitico. Ciò vuol dire: nessun settore della cultura, nessuna fibra dell'uomo sarà risparmiata da questa trasformazione, che può essere destinata a durare ancora secoli, per cui è impossibile prevedere cosa sarà bruciato da questa fiamma, cosa si fonderà e cosa si dimostrerà capace di resistere ad essa» (Le origini dell'uomo e la tarda cultura, op. cit., pag. 278, versione originale Urmensch und Spätkultur). C'è da chiedersi d'altronde se non si tratti unicamente di una questione di linguaggio, dato che la "biopolitica" attuale implica la presa in carico e la manipolazione diretta, "fisica", dell'ambiente, della chimica organica delle linee genetiche, etc. La "civiltà delle macchine", l'energia nucleare, i microscopi, le grandi opere idrauliche, la moderna tecnologia dei materiali o i calcolatori basati su circuiti elettronici, rappresentano indubbiamente un aspetto (e un presupposto) di tale rivoluzione ma non ne esauriscono certamente l'impatto, che è appunto molto più globale e che in primo luogo investe l'uomo stesso. È stato d'altronde notato come la stessa automobile possa essere considerata una "protesi" dell'uomo che la guida, e come diventino oggi progressivamente superate le distinzioni rigide tra l'organismo, specie umano, e il suo ambiente, o tra l'artigiano e i suoi strumenti.
(39) Giorgio Locchi, "La lettura del mito", art. cit.
(40) Per un sommario ancora abbastanza aggiornato di quello che sappiamo sulla rivoluzione indoeuropea, vedi Stefano Vaj, "Le radici dell'Europa", in l'Uomo libero n. 9. Vedi anche, più estesamente, Jean Haudry, Les Indo-européens, PUF, Parigi 1992, oggi disponibile in una versione italiana aggiorrnata ed ampliata, con il titolo Gli Indoeuropei, Edizioni di Ar, Padova 2001, trad. di Fabrizio Sandrelli. La ricerca al riguardo del resto continua, in particolare attraverso l'incrocio dei dati forniti dalla storia delle religioni con la linguistica, la genetica, la glottocronologia, la paleontologia e l'archeologia, e puntuali restano gli echi divulgativi a livello mediatico: vedi ad esempio Adriana Giannini, "Una lunga genealogia. Una recente ricerca sposta al 9000 a.C. l'origine delle lingue indoeuropee", in Le Scienze, Gennaio 2004, n. 425, pag. 24.
(41)Le influenza indoarie sulla cultura cinese, e, in parte tramite quest'ultima, su quella giapponese sono ben note, così come la complessa trama di contatti tra le civiltà egizia e mesopotamiche da un lato e le varie invasioni che dall'Europa centrale sono a più riprese giunte a lambire il medio oriente. Più "fantastoriche" sono le ipotesi quanto a possibili ruoli di questo tipo rispetto agli imperi precolombiani (cfr. d'altronde il mito azteco del dio bianco Quetzalcoatl [alias] che tanto ruolo ha giocato nel successo di Cortès). Tali ipotesi hanno d'altronde condotto un Jacques de Mahieu, pur in mancanza di dati verificabili con certezza, a intitolare negli anni settanta un libro Drakkars sur l'Amazone. Les Vikings et l'Amérique précolombienne (Editions Copernic, Parigi 1977, trad, spagnola Drakkares en el Amazonas, Hachette, Buenos Aires 1978). Molto più scientifiche, ed abbastanza sconvolgenti rispetto alle opinioni correnti, sono le ipotesi rispetto alle influenze pressoché planetarie di una cultura indoeuropea "iperborea" amplissimamente documentate da Felice Vinci in Omero nel Baltico [alias], Palombi Editore, Roma 1995 e 2003, che nella seconda edizione sono accreditate tra l'altro da una presentazione di Rosa Calzecchi Onesti.
(42)Come nota altrove Guillaume Faye, la vera alternativa non è d'altronde tra le civiltà dell'Essere e la civiltà dell'Avere, dialettica che resta tutta interna alla prospettiva contemporanea, ma tra queste e la rivendicazione di una cultura del Divenire, che da parte sua rappresenta una specifica "riattivazione" dello spirito e dell'eredità indoeuropea.
(43) L'esempio classico invece delle società "in preda alla storia", che Locchi chiama anche società tiepide, è il Giappone, la cui storia è tragicamente segnata da influenze esterne che la cultura giapponese contemporaneamente accoglie, rifiuta e trasfigura originalmente, dalla penetrazione del buddismo nell'epoca classica sino alla restaurazione Meiji dopo la fine dello shogunato.
(44)Per una notissima e recente ripresa (in positivo) del concetto, esattamente nel senso qui adottato, vedi il testo Francis Fukuyama, The End of History and the Last Man, Free Press, San Francisco 1992 (trad. italiana di Delfo. Ceni, La fine della storia e l'ultimo uomo, Rizzoli, ult. ed. Milano 1996).
(45) Vedi, per due analisi contemporanee dell'origine religiosa di tale rifiuto, rispettivamente in positivo e in negativo, ma significativamente convergenti nelle conclusioni,: Bernard-Henri Lévy [alias], Le Testament de Dieu, Denoël, Parigi 1983 (trad. italiana, Il testamento di Dio, SugarCo, Milano 1979), e Alain de Benoist, Comment peut-on être païen?, Copernic, Parigi 1981 (trad. italiana, Come si può essere pagani, Basaia, Roma 1984).
(46) Cfr. Francis Fukuyama, The End of History and the Last Man, op. cit., e Guillaume Faye, Le sistème à tuer les peuple, Copernic, Parigi 1982 (trad. italiana di Stefano Vaj, Il sistema per uccidere i popoli [versione Web], Edizioni dell'Uomo libero, Milano 1983; seconda edizione, Edizioni Barbarossa, Milano 2002). Interessanti i comuni riferimenti e terminologie nietzschani (es. l'alternativa tra l'"ultimo uomo" e il superuomo) dei due autori, pur schierati su posizioni diametralmente opposte.
(47) Maria Teresa Pansera, L'uomo e i sentieri della tecnica: Heidegger, Gehlen, Marcuse, op. cit., pag. 26.
(48) Nell'intervista a Jacques Le Rider in Le Monde-Dimanche, 19/08/1982, citato in Alain de Benoist, L'operaio tra gli Dei e i Titani, op. cit., pag. 99 [versione Web].
(49) «Noi ci troviamo oggi al vertice, là dove comincia l'ultimo atto. E' l'ora delle decisioni supreme. La tragedia è giunta alla fine» (Oswald Spengler, Ascesa e declino della civiltà delle macchine, op. cit., pag. 110, ult. ed. italiana con il titolo L'uomo e la macchina, versione originale: Der Mensch und die Technik. Beitrag zu einer Philosophie des Leben).
(50) Arnold Gehlen, Die Seele im technischen Zeitalter, Rohwolt, Amburgo 1957, trad. it., L'uomo nell'era della tecnica. Problemi socio-psicologici della società industriale, SugarCo, Milano 1984, pag. 146.
(51) Friedrich Nietzsche [alias, alias], Così parlò Zarathustra, I, 3. [versione originale del capitolo].
(52) Cfr. quando già scritto in Stefano Vaj, "L'uomo e l'ambiente", l'Uomo libero n. 7.
(53)Vedi James Lovelock, Gaia. Nuove idee sull'ecologia (versione originale: Gaia: New Look at Life on Earth) e Le nuove età di Gaia, (versione originale: The Ages of Gaia: A Biography of Our Living Earth) Bollati Boringhieri, Bologna 1981 e 1991. Secondo tale ordine di idee, l'ecosistema stesso e il pianete, ambiente fisico-chimico compreso, sarebbe assimilabile, almeno sotto alcuni profili, ad un organismo vivente, così che i temi darwiniani dell'adattamento all'ambiente e della lotta per la sopravvivenza andrebbero quanto meno integrati con le metafore "cooperative" e "cibernetiche" utilizzate per descrivere i rapporti tra le cellule, le proteine e gli ormoni all'interno del nostro corpo.
(54) Martin Heidegger, Who is Nietzsche's Zarathustra?, Harper & Row Publishers Inc., New York 1967.