Biopolitica. Il nuovo paradigma
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ambientalismo, biopolitica (I)
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La voce della reazione (III)
Sovrumanismo
e
"terzo uomo"
La
biopolitica pone comunque la civilizzazione contemporanea in via di
diventare globale di fronte a sfide "inumane". Rifiutarsi
di affrontarle delegando le relative responsabilità al
meccanismo impersonale del mercato, o tentare di negarle attraverso
tipici meccanismi di rimozione, proibizionismo e repressione, conduce
come vedremo ad una prospettiva propriamente disumana. A tale
prospettiva possono unicamente essere opposte scelte consapevolmente
tragiche e sovrumaniste, il salto di qualità di un nuovo
inizio tramite cui prendere in mano il proprio destino "per
mille anni", anzi, per intere ere.
Il
nodo rappresentato in questo senso dalla rivoluzione biopolitica, e
non solo, è stato anticipato da alcune riflessioni dell'inizio
del Novecento, poi prolungate da autori come Arnold
Gehlen o Giorgio
Locchi (),
che descrivono i tratti di un'"antropologia operativa" di tipi umani, cui corrispondono diversi modelli culturali,
propri sia di diverse fasi epocali che di popolazioni storicamente
compresenti ancora in questo secolo ().
In
tale visione, troviamo innanzitutto il "primo uomo", quello
dell'ominazione, dell'avvento del linguaggio, delle società di
caccia e raccolta, della magia sciamanica che gli consente di
identificarsi con modelli tratti dall'ambiente in cui è
immerso per supplire alle sue deficienze istintuali e mettere a
frutto la sua plasticità etologica. Tali aspetti sopravvivono
socialmente nei mutamenti successivi, e continuano ad essere
direttamente incarnati sino ad oggi, ad esempio negli aborigeni
australiani, o nelle popolazioni indigene "non-negroidi"
dell'Africa equatoriale e australe (pigmei, khoisan).
Dopo
centinaia di migliaia di anni, sempre secondo questa analisi, sarebbe
emerso per la prima volta, in qualche epoca successiva alla fine
dell'ultima glaciazione e in un'ulteriore grandiosa tappa del
progetto di autodomesticazione che descrive l'avventura della nostra
specie, il "secondo uomo". Tale secondo uomo è
l'uomo della rivoluzione
neolitica, dell'agricoltura (con connessa vita stanziale e prima
grande esplosione demografica), della "città", della
politica, della religione, della divisione del lavoro, di quella che
viene chiamata "tecnologia pirica", delle grandi culture
spengleriane. Nell'epoca del secondo uomo, ormai l'"ambiente
naturale" è diventato un ambiente culturale.
Infatti, non solo l'ambiente naturale è ormai influenzato e
plasmato dalla presenza umana, ma il fattore propriamente umano si
intreccia inestricabilmente con il puro dato biologico in una azione
combinata tanto sui singoli individui che sulle pressioni selettive
che ne plasmano le linee genetiche.
Parallelamente,
come nota Gehlen,
«lo svicolamento delle cose
di importanza vitale di questo mondo dall'irrazionalità di ciò
che si offre immediatamente e la liberazione dalla infinita ricerca e
procacciamento del cibo devono aver prodotto l'acquisizione di una
nuova sicurezza esistenziale ed aver dischiuso orizzonti spirituali
del tutto nuovi» ().
Scriveva
già Spengler:
«Il ritmo della storia si accelera drammaticamente. Prima, i
millenni contavano appena, ora ogni secolo ha importanza. Cosa è
avvenuto? Se ci si addentra più a fondo in questo nuovo mondo
di forme dell'attività umana, si vedono ben presto nessi molto
confusi e complicati. Tutte queste tecniche si presuppongono
reciprocamente. L'allevamento di animali domestici esige la
coltivazione di foraggi; la seminagione e il raccolto di piante
alimentari richiedono la presenza di animali da tiro e da soma, che a
sua volta rende necessaria la costruzione di ripari e recinti; ogni
genere di edifici esige la fabbricazione e il trasporto di materiali
da costruzione, il traffico stradale, l'animale da soma e la nave.
Cosa vi è in tutto ciò di spiritualmente trasformatore? Rispondo: la
sistematica azione collettiva. [...]
I nuovi procedimenti richiedono un tempo lungo, in certi casi anche
anni – si pensi alla larghezza dell'intervallo fra l'abbattimento
degli alberi e la partenza della nave costruita con essi – e
richiede pure larghi spazi. I nuovi procedimenti si scompongono in
serie di singoli atti esattamente ordinati e in gruppi di azioni
svolte le une accanto alle altre. Ma questi procedimenti collettivi
presuppongono, come mezzo indispensabile, il linguaggio » ().
D'altronde,
come già detto, il "primo uomo", sia a livello
individuale che sociale, sopravvive integralmente nel secondo, che
non rappresenta di per sé uno "stadio gerarchico"
rispetto all'altro. Anzi, le classi dominanti delle società
del secondo uomo rispecchiano sovente stili di vita "arcaici",
riprodotti o mantenuti artificialmente in una forma più
o meno idealizzata, esattamente grazie all'eccesso di risorse
liberate dal mutamento del modo di vivere del resto della
popolazione: il parco del re non è costituito da campi
coltivati fittamente punteggiati da case coloniche, ma da riserve
di caccia e giardini, sostanzialmente disabitati ().
La signoria sul mondo del secondo uomo non è infatti di chi ad
esempio "inventa" l'agricoltura (),
ma di chi sa dominare ed integrare culturalmente i nuovi modi di vita
in una sintesi superiore ().
«L'impresa
diretta verbalmente»,
nota Spengler,
«è connessa ad
un'enorme perdita di "libertà", dell'antica libertà
dell'animale da preda, tanto per i dirigenti quanto per i diretti. Gli uni e gli altri diventano, spiritualmente e moralmente, corpo
e anima, membri di una più grande unità. Ciò
chiamiamo organizzazione. E' la
fissazione della vita attiva in forme stabili, è la
condizione propria ad imprese di qualsiasi genere. Con l'azione
collettiva si fa il passo decisivo dall'esistenza organica all'esistenza organizzata,
dalla vita in gruppi naturali alla vita in gruppi artificiali,
dall'orda e dal branco al popolo, razza, ceto e Stato» ().
Scrive Giorgio Locchi:
«Avendo appreso [con il "primo uomo"] ciò che
fa "muovere" se stesso, l'uomo cerca di "far muovere"
gli animali e le piante secondo i suoi desideri e i suoi bisogni. Per
ciò che concerne gli animali sociali, si è proposto di
assumere nei loro riguardi un ruolo direttivo, sostituendosi al
capobranco. Nello stesso modo, colui che ha attinto ad un livello di coscienza superiore, grazie ad una comprensione
corretta della '"relazione magica" si pone in quanto
aristocrazia nei confronti della società, ed afferma la
propria sovranità. La religione costituisce in seguito
il sistema ideologico che permetterà di "legare insieme'"
la società, e di sottomettere la massa ad una data influenza.
[...] Parallelamente alla "domesticazione del mondo vivente"
da parte dell'uomo, preso nel suo insieme, si opera la
"domesticazione" della massa da parte dell'élite, dell'uomo magico da parte dell'uomo religioso. [...] Questo "passaggio"
nel quale consiste la rivoluzione neolitica, e che rappresenta il
periodo oggi in via di conclusione (),
riveste un'importanza fondamentale. Non è troppo difficile
riconoscervi ciò che la Bibbia chiama "espulsione dal
paradiso terrestre", Karl Marx "la fine della società
comunista primitiva", Sigmund Freud "l'uccisione del padre"
e Lévi-Strauss infine "la separazione tra Natura e
Cultura"» ().
Infatti,
il modo in cui il "secondo uomo" reagisce alla storicità
che gli si apre, e ciò che ne è emerso, ha portato
taluno a individuare altre suddivisioni, e precisamente:
-
le culture "soggetto della storia", coincidenti in sostanza
con quelle generate dalla rivoluzione indoeuropea (),
che si fanno pienamente carico della dimensione storica esprimendosi
mediante il progetto eroico e tragico di forme e destini collettivi
deliberatamente e consapevolmente assunti;
-
le culture "in preda alla storia" (ad esempio, le grandi
culture estremo-orientali, egizie, mesopotamiche, precolombiane,
etc.); è difficile d'altronde districare la matassa dei
contatti, scambi ed influenze che tali culture hanno subito con le
prime, tanto che alcuni autori hanno ipotizzato un ruolo di "innesco"
in via generale di influenze e gruppi indoeuropei, per imitazione,
competizione o rielaborazione ();
-
le culture "fredde", ovvero le culture post-neolitiche che
rifiutano la dimensione storica replicando se stesse in un contesto
culturale assunto una volta per tutte (caso della maggior parte delle
culture sub-sahariane e amazzoniche), culture che finiranno per
diventare "oggetto della storia", in particolare della
storia altrui, quando con questa verranno a contatto.
Queste
distinzioni sono del resto riprese in termini identici da correnti
importanti della cultura dominante, ben rappresentate da Lévi-Strauss [alias]
e da tutta la corrente antropologica che vanta appunto i meriti delle
"culture fredde", nonché da larghi settori
dell'ecologismo politico, e che si salda in ciò con la
nostalgia per l'immutabile del tradizionalismo "di destra".
Ricorda
ancora Locchi:
«Lévi-Strauss ci presenta le società "fredde",
che sono spesso definite società primitive, come un esempio
luminoso – o almeno da guardare con nostalgia – di fedeltà
alla tradizione, alla permanenza e all'"Essere" ().
Riprendendo la descrizione fornitaci da Theodor
G. H. Strehlow dei costumi quotidiani degli Aranda settentrionali, fa sua questa conclusione: "L'indigeno Aranda
rispetta ciecamente la tradizione, resta fedele alle armi primitive
che usavano i suoi lontani antenati, e l'idea di migliorarle non gli
passa neppure per la testa". Ma questa seducente omelia gioca
sulle apparenze più superficiali: sottende una definizione del
tutto fallace della tradizione. Con una certa abilità,
Lévi-Strauss confonde qui la lettera e lo spirito, l'atto e
il fatto, il gesto e il suo effetto. Continuando ad utilizzare le
loro "armi primitive" gli Aranda tradiscono, più
che non rispettino, i loro "lontani antenati". Infatti ripetono là dove i loro antenati avevano improvvisato o
inventato; segnano il passo là dove i loro antenati
avanzavano; cercano rifugio in un mondo reso certo, mentre i
loro antenati, sfidando l'ignoto, aprivano le porte di un mondo
nuovo. Gli Aranda "fedeli alla tradizione'" non sono che i residui fossili della storia dei loro antenati ().
[...] Le "società fredde" ben meritano il nome di rami culturali pietrificati, che non evolvono più se non
in base ad "avvenimenti" esterni e casuali, sotto la
pressione di fattori che sono a loro estranei. Esse sono dunque alla
mercé di ogni variazione dell'ambiente non prevista dal loro
"programma". In breve, esse non possono sussistere in
quanto tali che a condizione di non incontrare più la storia
da cui sono uscite. È per questo che il contatto con la
società occidentale risulta fatale alle "società
fredde". Perché l'uomo bianco, persino oggi, rappresenta
ancora la storia». La storia di cui per altro l'Occidente
vorrebbe imporre la fine, a livello planetario ().
In
questo quadro, infatti, un ruolo del tutto particolare è
rappresentato dalla nascita in Medio Oriente di una tendenza storica
– rappresentata miticamente dalla scissione di Abramo e dalla fondazione di Israele, e prolungata dalle altre religioni
monoteiste in rapporti certo molto complessi con le rispettive
culture-ospiti – che pur restando immersa nella storia ne
rifiuta moralmente il portato (la "torre di Babele") e
trova la sua ragione d'essere nella promessa di una sua fine
escatologica, e di una "demistificazione" costante delle
sue opere, in particolare attraverso un rovesciamento del divino, che
passa da strumento e proiezione dell'orgoglio e creatività
umana, nel processo in cui il "secondo uomo" si
impadronisce di se stesso e del mondo, a condanna e relativizzazione "trascendente"
di tutto ciò ().
Tale
tendenza è evidentemente quella che nella sua forma
secolarizzata e più radicale celebra oggi un'egemonia globale,
nella veste del Sistema mondialista e meccanicista della fine appunto
della storia ().
Alla
sua affermazione fa d'altronde riscontro il recente aprirsi di una
prospettiva del tutto opposta: quella del passaggio incombente dalla
"coscienza storica" all'autocoscienza di un "terzo
uomo". Un passaggio cioè dall'azione meramente
trasformatrice sul proprio ambiente culturale e naturale alla responsabilità dell'autodeterminazione diretta di un
contesto ambientale, e di un'identità anche biologica,
che ormai non possono che essere integralmente artificiali –
esattamente come un parco è altrettanto artificiale di un
palazzo e, proprio come un palazzo, può oggi venire in
esistenza e mantenersi soltanto a condizione che una volontà umana e politica lo preveda.
Scrive Maria
Teresa Pansera:
«[Gehlen] paragona questo profondo mutamento con la
transizione con la transizione vissuta dall'umanità nel
passaggio dalla civiltà nomade alla civiltà stanziale
dell'agricoltura. Tutto ciò non può essere accaduto
senza passare attraverso sentimenti di crisi e insicurezza provati da
coloro che si sono trovati a fare parte di una "cultura in
declino". Il periodo storico in cui stiamo vivendo gli appare
[analogamente] come un'"epoca di transizione" e non come
un'era destinata ormai a scomparire»
().
Il
fatto che l'"Interregnum", lo Zwischenreich in cui ci troviamo trascenda del tutto la sfera della crisi politica
e culturale europea è sottolineato anche da un autore
lontano dall'antropologia culturale come Jünger:
«Ci troviamo [oggi] ad una svolta tra due epoche, la cui
importanza corrisponde pressappoco a quella del passaggio dall'età
della pietra all'età dei metalli» ().
Un
punto chiave di tale passaggio sono naturalmente le questioni che
abbiamo raggruppato sotto il termine di "biopolitica", e
che del resto la riflessione postmoderna e sovrumanista anticipa in
Europa ormai da oltre un secolo, nel quadro di una prospettiva più
generale.
Infatti,
nel momento in cui la natura stessa si trasforma tendenzialmente in
un puro prodotto culturale, e contemporaneamente "Dio è
morto", una risposta primordiale e faustiana – che riprenda, e
al tempo stesso trascenda, l'atteggiamento indoeuropeo rispetto ai
problemi posti dal passaggio al "secondo uomo" –
rappresenta l'unica scelta (forse) capace di condurci ad esiti più umani (anzi, "più-che-umani", propriamente:
sovrumani), e non meno umani, disumani, nella svolta che ci si
prospetta ().
Disumani appaiono infatti, inevitabilmente, gli esiti di un rifiuto della sfida politica, estetica, esistenziale cui siamo esposti, a
favore di meccanismi impersonali quali il "mercato", una
"natura" ormai del tutto immaginaria, o il proibizionismo
velleitario di chi, in particolare nell'estrema destra e nell'estrema
sinistra, vorrebbe continuare a nascondere la testa nella sabbia.
Come
nota Gehlen «la rivoluzione
industriale che oggi volge al termine segna infatti la fine delle
cosiddette "culture superiori", affermatesi dal 3500 a.C.
fino oltre il 1800 d.C. e promuove la nascita di un nuovo tipo di
cultura, oggi ancora non ben delineato. Seguendo questa linea di
pensiero, si potrebbe addirittura arrivare a pensare che l'"era
civile" come periodo storico sia vicino a spirare, se intendiamo
la parola civiltà nel senso che ci viene illustrato dalla
storia delle culture superiori dell'umanità sino ad oggi»
().
Ciò
è da subito inteso nei termini di una rottura anche a livello
propriamente biologico, per quanto poco significato possa avere per
la nostra specie la distinzione tra "biologico" e
"culturale": Predica già Zarathustra:
«Ogni essere sinora ha creato
qualcosa sopra se stesso: e voi volete essere il riflusso di questo
gran flusso e ritornare alla bestia, anziché superare l'uomo?
Che cosa mai è la scimmia per l'uomo? Una derisione, una
penosa vergogna. Questo deve essere l'uomo per il Superuomo: una
risata, una penosa vergogna. Finora avete percorso la via che va dal
verme all'uomo, e molto è in voi ancora verme» ().
La
cosa è d'altronde particolarmente evidente con riguardo alla
questione ecologica, che può essere affrontata unicamente
attraverso una capacità di progettualità politica che implica a sua volta un maggiore, e non un minore, grado di
tecnologia, e di dominio dell'uomo su se stesso e sul suo ambiente
().
Se l'Ipotesi di Gaia (),
cara all'"ecologia del profondo", è davvero utile
per descrivere la realtà dell'ecosistema terrestre, è
solo il nipote di Gaia/Gea, Zeus, il dio "elettrico"
della folgore, che può oggi amministrarne l'eredità.
Scrive
Heidegger: «Nietzsche è il
primo a riconoscere il momento storico in cui l'uomo si prepara ad
assumere il dominio di tutta la Terra. Nietzsche è il primo
pensatore che, in vista di una storia mondiale per la prima volta
emergente, pone la domanda decisiva e pensa tutte le sue più
profonde implicazioni. La domanda è: l'uomo, in quanto uomo
nella sua natura sinora, pronto ad assumere la signoria del pianeta?
Se no, cosa deve succedere all'uomo perché egli sia capace di
sottomettere la terra e rivendicare così un antico legato? Non
deve l'uomo, così com'è ora, essere portato oltre se
stesso per adempiere a questo compito? [...] Di una cosa, comunque,
dovremo presto renderci conto: questo pensiero che mira alla figura
di un maestro che insegnerà il Superuomo concerne noi,
concerne l'Europa, concerne tutta la Terra. Non solo oggi, ma ancor
più domani. E lo fa sia che lo accettiamo sia che ci opponiamo
ad esso, lo ignoriamo o lo imitiamo con accenti falsi» ().
Ma
la cosa si riflette in ogni questione attinente al nostro futuro, e
in particolare quelle attinenti alla conoscenza e manipolazione
diretta, da parte dell'uomo, di se stesso e delle altre specie
viventi, e di riflesso dell'insieme del paesaggio del pianeta.
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