Biopolitica. Il nuovo paradigma
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naturale, ambiente culturale e selezione (V)
La
minaccia disgenica
Del
resto, l'avvento possibile del "terzo uomo" coincide
sostanzialmente con il momento in cui vengono al pettine i problemi
che ci lascia in eredità il secondo. Abbiamo visto come dalla
rivoluzione neolitica in poi, il contesto biologico dell'uomo è
dato dall'interazione tra la natura e la cultura che
egli abita, interazione che determina le caratteristiche che
consentono la sopravvivenza di un gruppo umano, ne definiscono
l'estensione, esercitano pressioni selettive sui suoi membri e ne
determinano l'eventuale successo o meno. Oggi, la natura stessa è
divenuta integralmente cultura.
Scrive Jacquard:
«L'uomo vive in un mondo che lui stesso ha plasmato. Senza
rendersene conto, ha trasformato, tra le altre, le condizioni nelle
quali i geni vengono trasmessi da una generazione all'altra. Nel
perseguire certi fini, siano la guarigione dei bambini malati, la
produzione di energia o la stabilità sociale, può
rompere equilibri naturali e far scattare un processo che, a lungo
termine, può portare ad una catastrofe».
Un'enunciazione
di questo tipo è rara. Intellettuali e media cercano
semplicemente di "non pensarci". Nessuno è disposto
a lasciare che la propria sopravvivenza o quella della propria
discendenza siano determinati dalla capacità di sfuggire con
la corsa ad animali da preda, ma nessuno guarda con piacere alla
prospettiva di un mondo in cui gli arti inferiori si ritrovino
atrofizzati nello stesso modo in cui hanno cessato di essere
funzionali gli organi della vista delle specie animali che si sono
adattate a vivere nelle grotte. Contemporaneamente, esistono come
abbiamo già visto ragioni "morali" per disapprovare
il fatto che la conservazione dell'uso delle gambe nel genere umano
possa essere, anziché un fatto "naturale", il frutto
di una scelta culturale, fondata su ragioni fondamentalmente ideologiche ed estetiche, e tradotta in realtà
attraverso l'intervento deliberato sulle condizioni di vita cui il
gruppo è sottoposto e/o direttamente sul suo pool genetico,
mediante pressioni selettive del tutto artificiali o addirittura
mediante la manipolazione diretta delle sue linee germinali.
Il
riferimento ad un'atrofia generalizzata degli arti inferiori sembra
un'ipotesi estrema, ma l'esempio delle malattie con una componente
genetica assolutamente determinante e chiaramente documentata risulta
chiaro a chiunque ().
La fenilchetonuria,
dovuta ad un gene recessivo, colpisce oggi un nuovo nato su
undicimila. Negli individui omozigoti, ovvero che hanno ricevuto il
relativo gene sia dal lato materno che paterno, la fenilalanina
anziché essere eliminata si accumula nel sangue e nel liquido
cefalo-rachidano, provocando un'idiozia progressiva e la morte. Da
circa trent'anni, ovvero da una generazione, gli effetti di questo
gene negli individui omozigoti, e perciò malati, sono stati
eliminati dalla medicina moderna, ove ne sia stata diagnosticata la
presenza, attraverso il semplicissimo rimedio di un regime alimentare
che riduca al minimo l'apporto di fenilalanina. In tal modo, le
persone affette sfuggono alla loro sorte "naturale", che
sarebbe quella di subire una degenerescenza cerebrale progressiva, e
di morire prima di procreare.
Alla
frequenza 1/11000 degli individui malati corrisponde la frequenta
1/105 dei "portatori sani", eterozigoti. Ora, dal momento
della "guarigione" dei bambini affetti, l'equilibrio
precedente viene rotto, ed il numero di persone affette è
destinato inesorabilmente ad aumentare.
È
bensì vero che, come nota Jacquard,
anche in caso di sopravvivenza generalizzata delle persone affette il
raddoppio della frequenza del gene, che comporta un quadruplicarsi
degli individui omozigoti ad ogni generazione, richiede in effetti
cinquanta generazioni, ovvero circa millecinquecento anni (cosa che
non si vede in verità cosa possa avere di così
rassicurante, se non per chi faccia propria la logica del "dopo
di noi il diluvio").
Il
processo è però ben più rapido per le malattie
il cui determinismo genetico è legato al sesso, come
l'emofilia.
Come noto, il gene dell'emofilia è posto sul cromosoma X,
ovvero quello invariabilmente contribuito dalla madre. In Europa la
sua frequenza è di 1/10000. Perché sia emofiliaca, una
donna, che per definizione di cromosomi X ne possiede due, deve
essere omozigote, avvenimento molto raro che statistiscamente si
verifica una volta ogni cento milioni; ma basta che un uomo ne
possieda uno sul suo unico cromosoma X perché si manifesti
l'affezione. La frequenza dei maschi malati è perciò
pari alla frequenza del gene, uno su diecimila. Un semplice calcolo
mostra come la guarigione di tutti i malati porterebbe ad un
incremento nella frequenza del gene pari ad un ulteriore 1/30000 ad
ogni generazione, così da raddoppiare la frequenza della
malattia in un secolo!
Nondimeno,
per giungere alla frequenza di un maschio su mille, dovrebbero ancora
passare in effetti circa mille anni. È ragionevole perciò,
dice Jacquard,
temere il pericolo di un declino genetico della specie quando nei
tempi in questione «l'Umanità
dovrà affrontare problemi ben più gravi, che metteranno
a repentaglio la sua stessa esistenza»?
D'altra
parte, solo le malattie genetiche sino ad oggi censite con certezza
sono circa quattromila. Di queste, è ragionevole
supporre che una parte progressivamente crescente finisca per
consentire al portatore una vita sufficientemente normale da
permetterne la propagazione alle generazioni successive ().
Tale
casistica è d'altronde ancora ristretta a caratteristiche obbiettivamente e gravemente patologiche, che sono oggetto di
un determinismo genetico assoluto ().
Altre
e più ampie questioni sono poste dall'ereditarietà di
tratti che predispongono a certe patologie; oppure che
comportano tratti solo latu senso disgenici, o che la maggior
parte delle persone considerebbe fortemente indesiderabili.
Un
ulteriore fattore di rischio disgenico riguarda ad esempio le
caratteristiche con una forte dominanza genetica di tipo quantitativo. A che punto esattamente la diminuzione della
funzionalità del sistema immunitario, dell'acutezza
sensoriale, dell'efficienza del sistema nervoso, delle prestazioni
scheletrico-muscolari può essere considerata una "malattia",
o comunque inaccettabile? Il concetto stesso di malattia, come quello
di "normalità", è un concetto culturale, e lo
diventa ancora di più quando scompare o si attenua la valenza
negativa in termini selettivi della relativa caratteristica. Ciò
che sappiamo però con certezza è che quando una data
caratteristica geneticamente influenzata smette di essere
selezionata, la stessa tende asintoticamente a diffondersi
all'interno della popolazione di riferimento. Come scriveva già
Vacher de Lapouge (1854-1936), «l'evoluzione
dell'uomo non è terminata: finirà dio o scimmia? È
la selezione che deciderà» ().
L'esempio
più significativo è quello del ritardo mentale. Non a
caso i casi di ritardo grave generano un orrore istintivo nella
maggioranza delle persone che non si siano deliberatamente
autocondizionate in senso opposto per ragioni ideologiche: infatti,
mentre molte malformazioni e disfunzioni di origine genetica sono
sintomaticamente confondibili, almeno a prima vista, con postumi di
lesioni o affezioni geneticamente insignificanti (),
il ritardo mentale, a parte pochi casi di carenze nutritive
gravissime o altre patologie nella fase dello sviluppo, è
pressoché invariabilmente di origine genetica ().
Il mongolismo, o sindrome
di Down, mentre non è necessariamente ereditato (la
maggior parte dei mongoloidi nasce da genitori perfettamente
normali), è certamente ereditario, cioè
puntualmente trasmesso alla discendenza dei soggetti colpiti, ove
questi siano lasciati liberi di riprodursi – o magari incoraggiati
a farlo. Ciò resta d'altronde ugualmente vero, come dimostrano
i convergenti risultati della genetica e della psicometria, per le
possibili determinanti genetiche di tutti i gradi di
ritardo (o del resto acutezza) mentale.
Rimuovere
i fattori limitanti al potenziale riproduttivo dei soggetti che sulla
base di tutti i criteri concepibilmente adottabili, e secondo la
quasi totalità delle persone, possono essere considerati ai
gradini più bassi della distribuzione dell'acutezza mentale,
ma non necessariamente di altre caratteristiche compatibili con la
sopravvivenza, comporta poi conseguenze particolarmente esplosive.
Infatti,
se ogni gene vuole perpetuarsi e diffondersi, le strategie con cui il
risultato viene raggiunto sono come noto diverse. Per le specie
sessuate che conoscono vari gradi di cura parentale, una possibile
strategia può essere quella di un investimento unitariamente
molto elevato su un numero relativamente piccolo di discendenti,
mentre un'altra può essere quella di massimizzare
numericamente la propria prole a costo di ridurre l'investimento su
ciascuno dei suoi componenti. Ora, ammettendo che un gene che
codifica un tratto sfavorevole alla capacità di
pianificazione, di affermazione sociale ed di allevamento della prole
nel suo portatore sia in grado di influenzare tali strategie, o di
"allearsi" con geni che lo facciano, sembra verosimile che
lo stesso sia costituzionalmente portato a puntare le sue carte sulla
"legge dei grandi numeri"; o, in altri termini, a
compensare la qualità (che è in ipotesi
pregiudicata dalla sua presenza) con la quantità.
Secondo
il detto popolare, «la madre degli idioti è sempre
incinta». Di solito, chi cita il proverbio vuole esprimere la
propria frustrazione per avere troppo spesso a che fare con persone
che giudica in tal modo, piuttosto che effettivamente riferirsi alle
abitudini riproduttive della categoria degli idioti. Una letterale
verità esiste però in tale detto, nel senso che la
generazione, magari indiscriminata, di un gran numero di figli vivi
può effettivamente compensare statisticamente le diminuite
probabilità di successo e sopravvivenza a lungo termine, o
addirittura di sopravvivenza per più generazioni e in una
stirpe, di ciascuno di essi singolarmente preso. Ciò in campo
umano corrisponde indiscutibilmente a ben note constatazioni inerenti
al comportamento delle classi socialmente sfavorite (ad esempio
appunto i proletari dell'epoca di Marx),
qualunque siano le ragioni e la giustificabilità della loro
situazione deteriore; ma coinvolge altresì in via più
generale la presenza di circostanze che influenzano per il genitore
interessato la convenienza o sconvenienza riproduttiva di un elevato
investimento parentale unitario.
Ora,
nel momento che i fattori limitanti riguardo al risultato
riproduttivo netto di una strategia "quantitativa" vengono
meno, sembra inevitabile che il mero numero dei parti portati a
termine con successo diventi il fattore decisivo quanto alla
propagazione o mantenimento delle caratteristiche del genitore, con
un vantaggio decisivo per le caratteristiche indesiderabili di cui
sopra.
Naturalmente,
esiste la questione del perché in primo luogo i geni che
codificano caratteristiche sfavorevoli... esistano.
Una
parziale spiegazione, che costituisce però anche un fattore di
notevole complicazione, riguarda la possibilità che
determinati tratti siano bensì geneticamente determinati, ma
derivino dall'interazione tra numerosi geni diversi, la cui
compresenza in un dato individuo è frutto in sostanza del
caso. Almeno venticinque geni sono ad esempio coinvolti nel fatto che
un topo si ritrovi ad avere denti particolarmente piccoli, e lo
sviluppo o meno dell'asma in età adulta pare legato in alcune
specie di scimmie ad almeno centoquarantanove geni diversi ().
Quando l'interazione non si verifica, l'espressione di tali geni
nell'organismo può mancare o essere del tutto diversa ()
Ancora,
una tara genetica può dipendere dalla mancanza di un gene. La sindrome
di Wolf-Hirschorn, che
provoca numerosi difetti congeniti, è provocata ad esempio da
un cromosoma cui manca un intero pezzo ().
Più
in generale, per molte caratteristiche la risposta è appunto
che esse sono bensì ereditarie, ma non ereditate,
ovvero si ripropongono semplicemente attraverso il ripetersi
di mutazioni spontanee o altri incidenti nella replicazione del
codice genetico, come nel caso già citato della sindrome
di Down.
Per
altri casi una ragione spesso citata al riguardo consiste nei
vantaggi che talora ne ricavano gli eterozigoti, ad esempio nel caso
della resistenza alla malaria da parte degli individui che hanno
ricevuto da un solo genitore il gene dell'anemia
falciforme, non a caso particolarmente frequente nelle zone
endemicamente affette dalle febbri malariche.
Altre
considerazioni ancora vengono proposte con riguardo a caratteristiche
ereditarie più complesse, a livello di genetica delle
popolazioni. In questo caso l'esempio di prammatica è quello
della forte incidenza contemporanea del diabete (sino al cinquanta per cento degli individui adulti) in alcune
popolazioni di indios della zona centramericana, che corrisponde
d'altronde a condizioni originarie di penuria e carestia perenne che
ha per millenni selezionato tali popolazioni per la sopravvivenza in
condizioni di ridottissimo apporto calorico; così che la
"tara" in questione non corrisponderebbe che ad un
cattivo adattamento a condizioni di relativa opulenza – quanto
meno alimentare – introdotte dalla "civiltà moderna"
nel modo di vita di tali popolazioni (),
"opulenza" la cui conservazione, come è ovvio, non è
affatto garantita alla nostra specie per tutti i secoli dei secoli
().
Scrive Jacquard:
«Impedendo la scomparsa dei geni legati al diabete, il
progresso medico non compie quindi un'azione disgenica; al contrario,
salva un capitale che è senza dubbio inutile o male adattato
al giorno d'oggi, ma che potrebbe rivelarsi prezioso quando avessimo
in media un nutrimento meno abbondante» .
Ora,
tali argomentazioni presuppongono d'altronde, nella prospettiva
egualitario-universalista di chi le avanza, che chi denuncia il
rischio disgenico mirerebbe in realtà a ridurre la
ricchezza del pool genetico della specie, eliminando o riducendo le
linee germinali "devianti", in vista di un modello umano
unico, "sano" e civilizzato. Ciò non ha nulla di
necessario; è vero anzi il contrario. Sfugge infatti al
genetista francese che il rischio disgenico consiste non solo nel
mantenimento di caratteri genetici altrimenti destinati ad essere
eliminati, ma altresì nella eliminazione o rarefazione di
caratteristiche di per sé desiderabili, ad opera della competizione (se
non altro numerica) dei primi; nonché nella
uniformizzazione globale dei fattori selettivi, che unitamente alla
progressiva attenuazione dei fattori di segregazione tra le
popolazioni, riduce e non aumenta la variabilità tra le
stesse; e con tale variabilità riduce la ricchezza, la
capacità di adattamento, e in ultima analisi la capacità
di sopravvivenza, della specie intera.
In
questo caso, è stato ben notato ()
come tecniche ormai banali o in via di diventarlo, come
l'inseminazione artificiale, la fecondazione in vitro, la clonazione,
la conservazione delle cellule riproduttive (ovuli, spermatozoi) o di
embrioni per un tempo indefinito, assumono un significato decisivo in
termini eugenetici proprio quanto alla capacità dell'uomo
di conservare materiale genetico prezioso, varianti e/o
combinazioni che possono andare perdute o che non sono "naturalmente"
destinate a riprodursi, o che sono minacciate da differenziali
demografici, e che costituiscono una ricchezza specifica da tutelare,
in vista esattamente della varianza intraspecifica,
individuale e popolazionale, che solo l'eugenetica da fumetto
americano di Jacquard vorrebbe ridurre o eliminare.
Neppure
la clonazione – che chissà perché colpisce in modo
particolare l'immaginario egualitario in vista del rischio paventato
che gli uomini possano davvero diventare... tutti uguali ()
– comporta di per sé alcuna riduzione della ricchezza
genetica o della varietà della specie. In effetti, oltre al
fatto che la clonazione consente studi sull'ereditarietà di
caratteristiche specificamente umane come l'"intelligenza"
senza la limitazione estrema imposta dalla necessità di
lavorare su gemelli monozigoti naturali (studi la cui potenziale
valenza in campo antropologico, sanitario, educativo, etc., non può
essere messa in discussione che da chi ne tema i risultati), risulta
ovvio l'interesse a verificare come corredi genetici identici, e
magari appartenenti a individui fenotipicamente eccezionali sotto
qualche aspetto, possano esprimersi in contesti diversi,
illimitatamente rinnovabili ().
In
verità, l'obiezione che il prezzo di tali vantaggi sarebbe una
maggiore "uniformizzazione" del genere umano – invero
paradossale da parte di una cultura che dell'uguaglianza vorrebbe
fare addirittura un valore – vale soltanto rispetto alla scelta di
clonare in amplissima serie uno solo o pochi individui, e impedire al
tempo stesso la riproduzione a tutti gli altri.
Scrive Gregory
Stock [alias]:
«Il fatto stesso che
la clonazione umana è diventata il punto di raccolta
dell'opposizione rispetto all'emergere delle nuove tecniche in
materia di riproduzione enfatizza le difficoltà con cui tale
opposizione è confrontata. La clonazione umana è
principalmente un simbolo. Attrae solo una minuscola frangia. Neppure
esiste ancora. Non potrebbe esistere un bersaglio più facile
per il proibizionismo. E che restrizioni siano imposte o no alla
ricerca fa poca differenza, perché, come anche Fukuyama e Kass non possono ignorare, se le procedure per la clonazione umana non
arriveranno dalla porta principale, entreranno dalla finestra,
probabilmente come sottoprodotto delle ricerche pubblicamente
finanziate sulle cellule staminali dell'embrione... Tentativi di
prevenire la clonazione umana negli Stati Uniti sposteranno
semplicemente la ricerca altrove. Alla fine del 2002 il Regno Unito
ha annunciato che aggiungerà altri quaranta milioni di
sterline ai venti già investiti nella ricerca sulle cellule
staminali. Il Giappone ha costruito un grande centro a Kobe con un
bilancio annuale di novanta milioni di dollari. E Cina e Singapore si
muovono in questa direzione ancora più aggressivamente»
().
In
realtà, l'individuo clonato comporta una perdita genica per la
specie soltanto nel caso in cui la sua nascita corrisponda ad
un'estinzione del corredo genetico del potenziale partner
riproduttivo del genitore; cioè, solo nel caso che tale
partner sessuale sia destinato da parte sua a non procreare
affatto in connessione alla scelta del genitore di dare vita a un
clone. In mancanza di ciò, la riproduzione per clonazione
non comporta un impoverimento più di quanto lo comporti la
naturale nascita di gemelli monovulari negli animali superiori e
nell'uomo, o la riproduzione partenogenetica tra gli animali e le
piante che sono in grado di praticarla in alternativa alla
riproduzione sessuata ().
In campo animale, del resto, la clonazione è già usata
tanto per perpetuare la stirpe di animali con caratteristiche
eccezionali quanto per contribuire a preservare specie sull'orlo
dell'estinzione ().
Similmente, la clonazione umana ben può essere deliberatamente
utilizzata per preservare e diffondere differenziazioni
desiderabili all'interno di una popolazione data, che magari
sarebbero altrimenti destinate a scomparire e ad essere riassorbite,
garantendone invece l'integrale trasmissione alla discendenza
immediata degli individui coinvolti, e la sottrazione alla roulette
genetica della riproduzione sessuale ().
L'idea
invece che non bisogna (pre)occuparsi di queste cose, perché è
"meglio lasciar fare alla natura", da un lato non tiene
conto del fatto che lo spazio rimasto alla "natura" è comunque e inevitabilmente sempre inferiore; dall'altro,
riesuma una curiosa fiducia nella Provvidenza cui non corrisponde
altro che il rifiuto morale della possibilità stessa che sia
l'uomo a potere e dover scegliere del proprio destino, come specie e più concretamente come gruppo determinato all'interno
della specie.
Scelta
che del resto non rappresenta null'altro che il compimento di un
processo iniziato con l'ominazione. L'importanza ai fini del successo
riproduttivo della capacità di partorire senza assistenza, ad
esempio, è andata progressivamente scemando per tutta la
storia dell'umanità, ed è perfettamente possibile
immaginare che la stessa capacità di concepire naturalmente,
portare a termine una gravidanza e partorirne il frutto vada del
tutto perduta nelle generazioni future, così come da secoli o
millenni il mais non ha più la capacità di riprodursi
senza intervento umano ().
Ciò può essere irrilevante quando la procreazione è
assicurata da altri mezzi. È d'altra parte legittimo
preoccuparsi del fatto che la sopravvivenza stessa della specie sia
garantita unicamente dalla costante disponibilità di tali
mezzi; o è anche possibile pensare che la capacità,
"arcaica" ed eventualmente "inutile", di
riprodursi autonomamente meriti di essere preservata almeno in una
parte della popolazione per altre ragioni, magari di ordine culturale
o simbolico. Sia quel che sia, il processo descritto pone un
problema, di cui oggi conosciamo perfettamente i termini, e che può
essere ignorato solo a seguito di una rimozione deliberata di ordine
squisitamente ideologico.
Se
la Provvidenza non ci dà più una mano, sappiamo
d'altronde a quale altro alibi affidarci, per evitare che l'uomo
possa giocare alla divinità: l'Economia. Rileva così lo
stesso Jacquard che poche pagine prima "virtuosamente" si preoccupava del
rischio che siano affrettatamente eliminate dal pool genetico della
specie le possibili "valenze positive" della
predisposizione genetica al diabete: «Notiamo soprattutto come
il progresso medico ipotizzato [quello che consentirebbe di curare
una delle malattie genetiche più diffuse in Europa]
annullerebbe il carattere di 'tara' della mucoviscidosi; non si
tratterebbe più che di una affezione che richiederebbe alcune
cure e che, per ipotesi, sarebbe guaribile. Il passaggio da 20.000 a
80.000 del numero di persone affette non costituirebbe un fardello
genetico, ma un fardello economico [corsivo nostro]. Non
avrebbe un peso ridicolo in confronto ad altri fardelli economici
dovuti alle imperfezioni della nostra società?».
Continua
lo studioso francese: «Questo processo non è diverso da
quello che si è svolto dall'alba dell'umanità, da
quando, divenuti Homo Sapiens, abbiamo reagito contro le aggressioni
dell'ambiente esterno escogitando comportamenti adeguati e non
aspettando passivamente che si verificasse una modificazione
genetica. L'invenzione del fuoco, l'uso delle pelli degli animali,
hanno certamente ostacolato l'eliminazione dei bambini che le
dotazioni genetiche rendevano meno capaci di lottare contro il
freddo. Il patrimonio genetico dell'Umanità, alla lunga, è
risultato trasformato. La nostra fragilità è senza
dubbio maggiore, ma sarebbe eccessivo considerare questa fragilità
come un deterioramento genetico. Vivere artificialmente rientra nella
natura stessa della nostra specie; da quando ne abbiamo avuto il
potere, non abbiamo accettato di subire passivamente la selezione
imposta dall'ambiente; alle aggressioni e alle costrizioni imposte
dall'ambiente esterno abbiamo dato una risposta culturale e non, come
le altre specie, una risposta genetica; il progresso medico non è
che la continuazione di tale risposta culturale; l'invenzione di un
antibiotico non è più "disgenica" della
invenzione del fuoco».
Tutto
ciò è perfettamente vero, ma la conclusione dell'autore
che in sostanza il declino genetico sia "semplicemente da
accettare" certo non è l'unica possibile.
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