Biopolitica. Il nuovo paradigma


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La minaccia disgenica


Del resto, l'avvento possibile del "terzo uomo" coincide sostanzialmente con il momento in cui vengono al pettine i problemi che ci lascia in eredità il secondo. Abbiamo visto come dalla rivoluzione neolitica in poi, il contesto biologico dell'uomo è dato dall'interazione tra la natura e la cultura che egli abita, interazione che determina le caratteristiche che consentono la sopravvivenza di un gruppo umano, ne definiscono l'estensione, esercitano pressioni selettive sui suoi membri e ne determinano l'eventuale successo o meno. Oggi, la natura stessa è divenuta integralmente cultura.

Scrive Jacquard: «L'uomo vive in un mondo che lui stesso ha plasmato. Senza rendersene conto, ha trasformato, tra le altre, le condizioni nelle quali i geni vengono trasmessi da una generazione all'altra. Nel perseguire certi fini, siano la guarigione dei bambini malati, la produzione di energia o la stabilità sociale, può rompere equilibri naturali e far scattare un processo che, a lungo termine, può portare ad una catastrofe».

Un'enunciazione di questo tipo è rara. Intellettuali e media cercano semplicemente di "non pensarci". Nessuno è disposto a lasciare che la propria sopravvivenza o quella della propria discendenza siano determinati dalla capacità di sfuggire con la corsa ad animali da preda, ma nessuno guarda con piacere alla prospettiva di un mondo in cui gli arti inferiori si ritrovino atrofizzati nello stesso modo in cui hanno cessato di essere funzionali gli organi della vista delle specie animali che si sono adattate a vivere nelle grotte. Contemporaneamente, esistono come abbiamo già visto ragioni "morali" per disapprovare il fatto che la conservazione dell'uso delle gambe nel genere umano possa essere, anziché un fatto "naturale", il frutto di una scelta culturale, fondata su ragioni fondamentalmente ideologiche ed estetiche, e tradotta in realtà attraverso l'intervento deliberato sulle condizioni di vita cui il gruppo è sottoposto e/o direttamente sul suo pool genetico, mediante pressioni selettive del tutto artificiali o addirittura mediante la manipolazione diretta delle sue linee germinali.

Il riferimento ad un'atrofia generalizzata degli arti inferiori sembra un'ipotesi estrema, ma l'esempio delle malattie con una componente genetica assolutamente determinante e chiaramente documentata risulta chiaro a chiunque (102).

La fenilchetonuria, dovuta ad un gene recessivo, colpisce oggi un nuovo nato su undicimila. Negli individui omozigoti, ovvero che hanno ricevuto il relativo gene sia dal lato materno che paterno, la fenilalanina anziché essere eliminata si accumula nel sangue e nel liquido cefalo-rachidano, provocando un'idiozia progressiva e la morte. Da circa trent'anni, ovvero da una generazione, gli effetti di questo gene negli individui omozigoti, e perciò malati, sono stati eliminati dalla medicina moderna, ove ne sia stata diagnosticata la presenza, attraverso il semplicissimo rimedio di un regime alimentare che riduca al minimo l'apporto di fenilalanina. In tal modo, le persone affette sfuggono alla loro sorte "naturale", che sarebbe quella di subire una degenerescenza cerebrale progressiva, e di morire prima di procreare.

Alla frequenza 1/11000 degli individui malati corrisponde la frequenta 1/105 dei "portatori sani", eterozigoti. Ora, dal momento della "guarigione" dei bambini affetti, l'equilibrio precedente viene rotto, ed il numero di persone affette è destinato inesorabilmente ad aumentare.

È bensì vero che, come nota Jacquard, anche in caso di sopravvivenza generalizzata delle persone affette il raddoppio della frequenza del gene, che comporta un quadruplicarsi degli individui omozigoti ad ogni generazione, richiede in effetti cinquanta generazioni, ovvero circa millecinquecento anni (cosa che non si vede in verità cosa possa avere di così rassicurante, se non per chi faccia propria la logica del "dopo di noi il diluvio").

Il processo è però ben più rapido per le malattie il cui determinismo genetico è legato al sesso, come l'emofilia. Come noto, il gene dell'emofilia è posto sul cromosoma X, ovvero quello invariabilmente contribuito dalla madre. In Europa la sua frequenza è di 1/10000. Perché sia emofiliaca, una donna, che per definizione di cromosomi X ne possiede due, deve essere omozigote, avvenimento molto raro che statistiscamente si verifica una volta ogni cento milioni; ma basta che un uomo ne possieda uno sul suo unico cromosoma X perché si manifesti l'affezione. La frequenza dei maschi malati è perciò pari alla frequenza del gene, uno su diecimila. Un semplice calcolo mostra come la guarigione di tutti i malati porterebbe ad un incremento nella frequenza del gene pari ad un ulteriore 1/30000 ad ogni generazione, così da raddoppiare la frequenza della malattia in un secolo!

Nondimeno, per giungere alla frequenza di un maschio su mille, dovrebbero ancora passare in effetti circa mille anni. È ragionevole perciò, dice Jacquard, temere il pericolo di un declino genetico della specie quando nei tempi in questione «l'Umanità dovrà affrontare problemi ben più gravi, che metteranno a repentaglio la sua stessa esistenza»?

D'altra parte, solo le malattie genetiche sino ad oggi censite con certezza sono circa quattromila. Di queste, è ragionevole supporre che una parte progressivamente crescente finisca per consentire al portatore una vita sufficientemente normale da permetterne la propagazione alle generazioni successive (103).

Tale casistica è d'altronde ancora ristretta a caratteristiche obbiettivamente e gravemente patologiche, che sono oggetto di un determinismo genetico assoluto (104).

Altre e più ampie questioni sono poste dall'ereditarietà di tratti che predispongono a certe patologie; oppure che comportano tratti solo latu senso disgenici, o che la maggior parte delle persone considerebbe fortemente indesiderabili.

Un ulteriore fattore di rischio disgenico riguarda ad esempio le caratteristiche con una forte dominanza genetica di tipo quantitativo. A che punto esattamente la diminuzione della funzionalità del sistema immunitario, dell'acutezza sensoriale, dell'efficienza del sistema nervoso, delle prestazioni scheletrico-muscolari può essere considerata una "malattia", o comunque inaccettabile? Il concetto stesso di malattia, come quello di "normalità", è un concetto culturale, e lo diventa ancora di più quando scompare o si attenua la valenza negativa in termini selettivi della relativa caratteristica. Ciò che sappiamo però con certezza è che quando una data caratteristica geneticamente influenzata smette di essere selezionata, la stessa tende asintoticamente a diffondersi all'interno della popolazione di riferimento. Come scriveva già Vacher de Lapouge (1854-1936), «l'evoluzione dell'uomo non è terminata: finirà dio o scimmia? È la selezione che deciderà» (105).

L'esempio più significativo è quello del ritardo mentale. Non a caso i casi di ritardo grave generano un orrore istintivo nella maggioranza delle persone che non si siano deliberatamente autocondizionate in senso opposto per ragioni ideologiche: infatti, mentre molte malformazioni e disfunzioni di origine genetica sono sintomaticamente confondibili, almeno a prima vista, con postumi di lesioni o affezioni geneticamente insignificanti (106), il ritardo mentale, a parte pochi casi di carenze nutritive gravissime o altre patologie nella fase dello sviluppo, è pressoché invariabilmente di origine genetica (107). Il mongolismo, o sindrome di Down, mentre non è necessariamente ereditato (la maggior parte dei mongoloidi nasce da genitori perfettamente normali), è certamente ereditario, cioè puntualmente trasmesso alla discendenza dei soggetti colpiti, ove questi siano lasciati liberi di riprodursi – o magari incoraggiati a farlo. Ciò resta d'altronde ugualmente vero, come dimostrano i convergenti risultati della genetica e della psicometria, per le possibili determinanti genetiche di tutti i gradi di ritardo (o del resto acutezza) mentale.

Rimuovere i fattori limitanti al potenziale riproduttivo dei soggetti che sulla base di tutti i criteri concepibilmente adottabili, e secondo la quasi totalità delle persone, possono essere considerati ai gradini più bassi della distribuzione dell'acutezza mentale, ma non necessariamente di altre caratteristiche compatibili con la sopravvivenza, comporta poi conseguenze particolarmente esplosive.

Infatti, se ogni gene vuole perpetuarsi e diffondersi, le strategie con cui il risultato viene raggiunto sono come noto diverse. Per le specie sessuate che conoscono vari gradi di cura parentale, una possibile strategia può essere quella di un investimento unitariamente molto elevato su un numero relativamente piccolo di discendenti, mentre un'altra può essere quella di massimizzare numericamente la propria prole a costo di ridurre l'investimento su ciascuno dei suoi componenti. Ora, ammettendo che un gene che codifica un tratto sfavorevole alla capacità di pianificazione, di affermazione sociale ed di allevamento della prole nel suo portatore sia in grado di influenzare tali strategie, o di "allearsi" con geni che lo facciano, sembra verosimile che lo stesso sia costituzionalmente portato a puntare le sue carte sulla "legge dei grandi numeri"; o, in altri termini, a compensare la qualità (che è in ipotesi pregiudicata dalla sua presenza) con la quantità.

Secondo il detto popolare, «la madre degli idioti è sempre incinta». Di solito, chi cita il proverbio vuole esprimere la propria frustrazione per avere troppo spesso a che fare con persone che giudica in tal modo, piuttosto che effettivamente riferirsi alle abitudini riproduttive della categoria degli idioti. Una letterale verità esiste però in tale detto, nel senso che la generazione, magari indiscriminata, di un gran numero di figli vivi può effettivamente compensare statisticamente le diminuite probabilità di successo e sopravvivenza a lungo termine, o addirittura di sopravvivenza per più generazioni e in una stirpe, di ciascuno di essi singolarmente preso. Ciò in campo umano corrisponde indiscutibilmente a ben note constatazioni inerenti al comportamento delle classi socialmente sfavorite (ad esempio appunto i proletari dell'epoca di Marx), qualunque siano le ragioni e la giustificabilità della loro situazione deteriore; ma coinvolge altresì in via più generale la presenza di circostanze che influenzano per il genitore interessato la convenienza o sconvenienza riproduttiva di un elevato investimento parentale unitario.

Ora, nel momento che i fattori limitanti riguardo al risultato riproduttivo netto di una strategia "quantitativa" vengono meno, sembra inevitabile che il mero numero dei parti portati a termine con successo diventi il fattore decisivo quanto alla propagazione o mantenimento delle caratteristiche del genitore, con un vantaggio decisivo per le caratteristiche indesiderabili di cui sopra.

Naturalmente, esiste la questione del perché in primo luogo i geni che codificano caratteristiche sfavorevoli... esistano.

Una parziale spiegazione, che costituisce però anche un fattore di notevole complicazione, riguarda la possibilità che determinati tratti siano bensì geneticamente determinati, ma derivino dall'interazione tra numerosi geni diversi, la cui compresenza in un dato individuo è frutto in sostanza del caso. Almeno venticinque geni sono ad esempio coinvolti nel fatto che un topo si ritrovi ad avere denti particolarmente piccoli, e lo sviluppo o meno dell'asma in età adulta pare legato in alcune specie di scimmie ad almeno centoquarantanove geni diversi (108). Quando l'interazione non si verifica, l'espressione di tali geni nell'organismo può mancare o essere del tutto diversa (109)

Ancora, una tara genetica può dipendere dalla mancanza di un gene. La sindrome di Wolf-Hirschorn, che provoca numerosi difetti congeniti, è provocata ad esempio da un cromosoma cui manca un intero pezzo (110).

Più in generale, per molte caratteristiche la risposta è appunto che esse sono bensì ereditarie, ma non ereditate, ovvero si ripropongono semplicemente attraverso il ripetersi di mutazioni spontanee o altri incidenti nella replicazione del codice genetico, come nel caso già citato della sindrome di Down.

Per altri casi una ragione spesso citata al riguardo consiste nei vantaggi che talora ne ricavano gli eterozigoti, ad esempio nel caso della resistenza alla malaria da parte degli individui che hanno ricevuto da un solo genitore il gene dell'anemia falciforme, non a caso particolarmente frequente nelle zone endemicamente affette dalle febbri malariche.

Altre considerazioni ancora vengono proposte con riguardo a caratteristiche ereditarie più complesse, a livello di genetica delle popolazioni. In questo caso l'esempio di prammatica è quello della forte incidenza contemporanea del diabete (sino al cinquanta per cento degli individui adulti) in alcune popolazioni di indios della zona centramericana, che corrisponde d'altronde a condizioni originarie di penuria e carestia perenne che ha per millenni selezionato tali popolazioni per la sopravvivenza in condizioni di ridottissimo apporto calorico; così che la "tara" in questione non corrisponderebbe che ad un cattivo adattamento a condizioni di relativa opulenza – quanto meno alimentare – introdotte dalla "civiltà moderna" nel modo di vita di tali popolazioni (111), "opulenza" la cui conservazione, come è ovvio, non è affatto garantita alla nostra specie per tutti i secoli dei secoli (112). Scrive Jacquard: «Impedendo la scomparsa dei geni legati al diabete, il progresso medico non compie quindi un'azione disgenica; al contrario, salva un capitale che è senza dubbio inutile o male adattato al giorno d'oggi, ma che potrebbe rivelarsi prezioso quando avessimo in media un nutrimento meno abbondante» .

Ora, tali argomentazioni presuppongono d'altronde, nella prospettiva egualitario-universalista di chi le avanza, che chi denuncia il rischio disgenico mirerebbe in realtà a ridurre la ricchezza del pool genetico della specie, eliminando o riducendo le linee germinali "devianti", in vista di un modello umano unico, "sano" e civilizzato. Ciò non ha nulla di necessario; è vero anzi il contrario. Sfugge infatti al genetista francese che il rischio disgenico consiste non solo nel mantenimento di caratteri genetici altrimenti destinati ad essere eliminati, ma altresì nella eliminazione o rarefazione di caratteristiche di per sé desiderabili, ad opera della competizione (se non altro numerica) dei primi; nonché nella uniformizzazione globale dei fattori selettivi, che unitamente alla progressiva attenuazione dei fattori di segregazione tra le popolazioni, riduce e non aumenta la variabilità tra le stesse; e con tale variabilità riduce la ricchezza, la capacità di adattamento, e in ultima analisi la capacità di sopravvivenza, della specie intera.

In questo caso, è stato ben notato (113) come tecniche ormai banali o in via di diventarlo, come l'inseminazione artificiale, la fecondazione in vitro, la clonazione, la conservazione delle cellule riproduttive (ovuli, spermatozoi) o di embrioni per un tempo indefinito, assumono un significato decisivo in termini eugenetici proprio quanto alla capacità dell'uomo di conservare materiale genetico prezioso, varianti e/o combinazioni che possono andare perdute o che non sono "naturalmente" destinate a riprodursi, o che sono minacciate da differenziali demografici, e che costituiscono una ricchezza specifica da tutelare, in vista esattamente della varianza intraspecifica, individuale e popolazionale, che solo l'eugenetica da fumetto americano di Jacquard vorrebbe ridurre o eliminare.

Neppure la clonazione – che chissà perché colpisce in modo particolare l'immaginario egualitario in vista del rischio paventato che gli uomini possano davvero diventare... tutti uguali (114) – comporta di per sé alcuna riduzione della ricchezza genetica o della varietà della specie. In effetti, oltre al fatto che la clonazione consente studi sull'ereditarietà di caratteristiche specificamente umane come l'"intelligenza" senza la limitazione estrema imposta dalla necessità di lavorare su gemelli monozigoti naturali (studi la cui potenziale valenza in campo antropologico, sanitario, educativo, etc., non può essere messa in discussione che da chi ne tema i risultati), risulta ovvio l'interesse a verificare come corredi genetici identici, e magari appartenenti a individui fenotipicamente eccezionali sotto qualche aspetto, possano esprimersi in contesti diversi, illimitatamente rinnovabili (115).

In verità, l'obiezione che il prezzo di tali vantaggi sarebbe una maggiore "uniformizzazione" del genere umano – invero paradossale da parte di una cultura che dell'uguaglianza vorrebbe fare addirittura un valore – vale soltanto rispetto alla scelta di clonare in amplissima serie uno solo o pochi individui, e impedire al tempo stesso la riproduzione a tutti gli altri.

Scrive Gregory Stock [alias]: «Il fatto stesso che la clonazione umana è diventata il punto di raccolta dell'opposizione rispetto all'emergere delle nuove tecniche in materia di riproduzione enfatizza le difficoltà con cui tale opposizione è confrontata. La clonazione umana è principalmente un simbolo. Attrae solo una minuscola frangia. Neppure esiste ancora. Non potrebbe esistere un bersaglio più facile per il proibizionismo. E che restrizioni siano imposte o no alla ricerca fa poca differenza, perché, come anche Fukuyama e Kass non possono ignorare, se le procedure per la clonazione umana non arriveranno dalla porta principale, entreranno dalla finestra, probabilmente come sottoprodotto delle ricerche pubblicamente finanziate sulle cellule staminali dell'embrione... Tentativi di prevenire la clonazione umana negli Stati Uniti sposteranno semplicemente la ricerca altrove. Alla fine del 2002 il Regno Unito ha annunciato che aggiungerà altri quaranta milioni di sterline ai venti già investiti nella ricerca sulle cellule staminali. Il Giappone ha costruito un grande centro a Kobe con un bilancio annuale di novanta milioni di dollari. E Cina e Singapore si muovono in questa direzione ancora più aggressivamente» (116).

In realtà, l'individuo clonato comporta una perdita genica per la specie soltanto nel caso in cui la sua nascita corrisponda ad un'estinzione del corredo genetico del potenziale partner riproduttivo del genitore; cioè, solo nel caso che tale partner sessuale sia destinato da parte sua a non procreare affatto in connessione alla scelta del genitore di dare vita a un clone. In mancanza di ciò, la riproduzione per clonazione non comporta un impoverimento più di quanto lo comporti la naturale nascita di gemelli monovulari negli animali superiori e nell'uomo, o la riproduzione partenogenetica tra gli animali e le piante che sono in grado di praticarla in alternativa alla riproduzione sessuata (117). In campo animale, del resto, la clonazione è già usata tanto per perpetuare la stirpe di animali con caratteristiche eccezionali quanto per contribuire a preservare specie sull'orlo dell'estinzione (118). Similmente, la clonazione umana ben può essere deliberatamente utilizzata per preservare e diffondere differenziazioni desiderabili all'interno di una popolazione data, che magari sarebbero altrimenti destinate a scomparire e ad essere riassorbite, garantendone invece l'integrale trasmissione alla discendenza immediata degli individui coinvolti, e la sottrazione alla roulette genetica della riproduzione sessuale (119).

L'idea invece che non bisogna (pre)occuparsi di queste cose, perché è "meglio lasciar fare alla natura", da un lato non tiene conto del fatto che lo spazio rimasto alla "natura" è comunque e inevitabilmente sempre inferiore; dall'altro, riesuma una curiosa fiducia nella Provvidenza cui non corrisponde altro che il rifiuto morale della possibilità stessa che sia l'uomo a potere e dover scegliere del proprio destino, come specie e più concretamente come gruppo determinato all'interno della specie.

Scelta che del resto non rappresenta null'altro che il compimento di un processo iniziato con l'ominazione. L'importanza ai fini del successo riproduttivo della capacità di partorire senza assistenza, ad esempio, è andata progressivamente scemando per tutta la storia dell'umanità, ed è perfettamente possibile immaginare che la stessa capacità di concepire naturalmente, portare a termine una gravidanza e partorirne il frutto vada del tutto perduta nelle generazioni future, così come da secoli o millenni il mais non ha più la capacità di riprodursi senza intervento umano (120). Ciò può essere irrilevante quando la procreazione è assicurata da altri mezzi. È d'altra parte legittimo preoccuparsi del fatto che la sopravvivenza stessa della specie sia garantita unicamente dalla costante disponibilità di tali mezzi; o è anche possibile pensare che la capacità, "arcaica" ed eventualmente "inutile", di riprodursi autonomamente meriti di essere preservata almeno in una parte della popolazione per altre ragioni, magari di ordine culturale o simbolico. Sia quel che sia, il processo descritto pone un problema, di cui oggi conosciamo perfettamente i termini, e che può essere ignorato solo a seguito di una rimozione deliberata di ordine squisitamente ideologico.

Se la Provvidenza non ci dà più una mano, sappiamo d'altronde a quale altro alibi affidarci, per evitare che l'uomo possa giocare alla divinità: l'Economia. Rileva così lo stesso Jacquard che poche pagine prima "virtuosamente" si preoccupava del rischio che siano affrettatamente eliminate dal pool genetico della specie le possibili "valenze positive" della predisposizione genetica al diabete: «Notiamo soprattutto come il progresso medico ipotizzato [quello che consentirebbe di curare una delle malattie genetiche più diffuse in Europa] annullerebbe il carattere di 'tara' della mucoviscidosi; non si tratterebbe più che di una affezione che richiederebbe alcune cure e che, per ipotesi, sarebbe guaribile. Il passaggio da 20.000 a 80.000 del numero di persone affette non costituirebbe un fardello genetico, ma un fardello economico [corsivo nostro]. Non avrebbe un peso ridicolo in confronto ad altri fardelli economici dovuti alle imperfezioni della nostra società?».

Continua lo studioso francese: «Questo processo non è diverso da quello che si è svolto dall'alba dell'umanità, da quando, divenuti Homo Sapiens, abbiamo reagito contro le aggressioni dell'ambiente esterno escogitando comportamenti adeguati e non aspettando passivamente che si verificasse una modificazione genetica. L'invenzione del fuoco, l'uso delle pelli degli animali, hanno certamente ostacolato l'eliminazione dei bambini che le dotazioni genetiche rendevano meno capaci di lottare contro il freddo. Il patrimonio genetico dell'Umanità, alla lunga, è risultato trasformato. La nostra fragilità è senza dubbio maggiore, ma sarebbe eccessivo considerare questa fragilità come un deterioramento genetico. Vivere artificialmente rientra nella natura stessa della nostra specie; da quando ne abbiamo avuto il potere, non abbiamo accettato di subire passivamente la selezione imposta dall'ambiente; alle aggressioni e alle costrizioni imposte dall'ambiente esterno abbiamo dato una risposta culturale e non, come le altre specie, una risposta genetica; il progresso medico non è che la continuazione di tale risposta culturale; l'invenzione di un antibiotico non è più "disgenica" della invenzione del fuoco».

Tutto ciò è perfettamente vero, ma la conclusione dell'autore che in sostanza il declino genetico sia "semplicemente da accettare" certo non è l'unica possibile.


Stefano Vaj

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(102) Sulle valenze disgeniche degli indirizzi "individualistico-borghesi" sottesi alla pratica medica contemporanea, cfr. ad esempio Piero Sella, "Progresso medico e dignità della vita", in l'Uomo libero n. 22.
(103) È sembrato d'altronde a chi scrive davvero paradossale il trovarsi una volta a partecipare ad un ballo di beneficenza organizzato da un gruppo di dame milanesi per raccogliere fondi per la ricerca terapeutica sui bambini affetti dalla sindrome di Tay-Sachs, benché forse la maggior parte di esse fosse lì per tutt'altre ragioni e non sapesse neppure di che si tratti. Tale sindrome è originata da un gene, fortunatamente raro, che programma la progressiva e completa degenerazione del sistema nervoso sino alla morte del soggetto nella primissima infanzia. Ora, pur trattandosi di una malattia teoricamente ereditabile, i relativi portatori sono solo un costo sociale, e non un costo disgenico, perché nessuno di essi ha alcuna chance di giungere all'età riproduttiva e lasciare discendenza. Ciò detto, non si vede quale scopo possano concepibilmente servire tentativi farmacologici di ritardare di qualche settimana l'inevitabile, magari mediante soppressione dell'ormone della crescita nel bambino o altre simili pratiche, quando l'unica cosa ragionevolmente da fare nell'interesse di tali bambini, dei loro genitori e della società, è promuoverne ed assicurarne l'aborto all'inizio della gravidanza. Ma forse un tale programma non è sufficientemente glamorous per giustificare un evento mondano...
(104) Si parla di determinismo genetico assoluto quando solo i portatori di un dato gene esprimono una certa patologia, e quando d'altra parte tutti portatori di tale gene la esprimono. Tale non è, per esempio, il caso di vulnerabilità genetica ad un particolare tipo di infezione, che ovviamente si manifesterà solo nei portatori che in concreto saranno esposti al relativo contagio e contrarranno l'infezione stessa.
(105) Georges Vacher de Lapouge, Race et milieu social, Librairie Marcel Rivière, Parigi 1909, pag. 226. Uno dei pochi titoli disponibili in italiano sull'autore, per di più in chiave di "denuncia", è il mediocre Nicoletta Glovel, Le razze in provetta. Georges Vacher de Lapouge e l'antropologia sociale razzista, Il Poligrafo, Lecce 2001.
(106) Non solo la mancanza di un arto può essere, poniamo, frutto tanto di una mutilazione quanto di un difetto genetico, ma esistono anche numerose affezioni che sono bensì congenite, ma non genetiche, in quanto provocate non da un difetto trasmissibile del codice genetico, ma da eventi verificatisi nel corso del concepimento, della gravidanza o del parto.
(107) Ciò comporta, secondo l'ipotesi della sociobiologia, un "sussurro dei geni" che raccomanda di stare alla larga, almeno sessualmente, dalle persone affette, posto che un tratto genetico che incoraggiasse all'accoppiamento con quest'ultime a preferenza di partner "normali" porterebbe ad un minor successo riproduttivo del portatore, e perciò in ultima analisi ad una progressiva rarefazione del gene stesso.
(108) Nicholas Wade, "Bioengineers Turn to Hens' Teeth", in New York Times, 22/08/2000, pag. F5; Jun Zou et al., "Micro-array Profile of Differentially Expressed Genes in a Monkey Model of Allergic Asthma", in Genome Biology 3, 5, 2002 .
(109) Mentre la genetica è un termine antico e più generale che si riferisce allo studio dei tratti ereditari, la cosiddetta genomica costituisce esattamente l'insieme delle teorie (e delle tecnologie) che oggi mirano a tradurre informazioni sul genoma nella conoscenza di quali geni sono presenti, che ruolo svolgono e come i prodotti di ciascun gene (normalmente una proteina o un gruppo di proteine) contribuiscono alle proprietà ed al comportamento delle cellule. Fino a pochi anni fa, i biologi erano in grado di studiare il comportamento di un solo gene, o al più di pochi geni per volta. La genomica rappresenta uno sforzo di studiare che cosa tutti i geni in una cellula stanno facendo e come la loro attività sia orchestrata. Vedi Michael Fumento, Bioevolution. How Biotechnology Is Changing the World, Encounter Books, San Francisco 2003, pag. 11.
(110) Cfr. Michael Fumento, Bioevolution. How Biotechnology Is Changing the World, op cit., pag. 91.
(111) Secondo un detto, per distinguere le società ricche e le società povere sarebbe sufficiente fare caso al fatto che nelle prime i "ricchi" sono più magri dei "poveri". Interessante, anche con riguardo alle considerazioni in materia di selezione sessuale che saranno accennate nel prosieguo, come i canoni di bellezza socialmente dominanti evolvano molto rapidamente nella stessa direzione non appena la transizione si verifica.
(112) L'articolo capostipite di questi studi è stato J. V. Neel, "Diabetes Mellitus: A 'Thrifty' Genotype Rendered Detrimental by 'Progress'"?, in Am. Journ. Hum. Genet., n. 14, 1962, pag. 353.
(113) Vedi a questo proposito Yves Christen, "L'eugenisme. Prospectives actuelles", in Nouvelle Ecole n. 14, Febbraio 1971.
(114) Eloquente del resto come nell'immaginario collettivo il tipico candidato alla clonazione sia... Adolf Hitler, riprodotto da parte dello "scienziato pazzo" di turno, grazie a qualche cellula o gamete in qualche modo sopravvissuti in qualche modo alla sua morte e recuperati. Vedi il film di Franklin Schaffner I ragazzi venuti dal Brasile (USA, 1978). Due film più recenti che richiamano tale procedura sin nel titolo sono Alien, la clonazione (USA, 1997, con fugace apparizione, e susseguente "eutanasia" da parte della protagonista, di una serie di "mostri" provocati da clonazioni non perfettamente riuscite) e Star Wars: Episodio II - L'attacco dei cloni ((USA 2002).
(115) D'altronde, alcune speculazioni contemporanee stanno prendendo in esame la possibilità in futuro di memorizzare su un qualche supporto di tipo digitale l'insieme di informazioni che costituiscono l'intera esperienza di vita di un essere umano, nonché il modo in cui possa essere eventualmente possibile ritrasferirle in un cervello. Ipotizzando che ciò avvenga su un clone dell'individuo "memorizzato", ad un equivalente stadio di maturazione, saremmo in effetti molto vicini al tipo di "clone-fotocopia" immaginato dalla fantascienza, nonché ad una qualche forma di immortalità (cfr. ad esempio Ray Kurzweil, The Singularity Is Near. When Human Transcend Biology, Viking, New York 2005[sito collegato]). Alcuni autori di fantascienza (es. Greg Egan, in La scala di Schild, op. cit., e vari racconti) hanno altresì ipotizzato che ciò possa essere un metodo per realizzare una forma di teletrasporto, eventualmente su distanze stellari, consistente nel "faxare" da un luogo all'altro gli individui (ovvero le informazioni necessarie allo sviluppo, magari fortemente accelerato, di un clone nel luogo di destinazione, nonché del "software" e dei "dati" utili a completare un organismo ontologicamente indistinguibile da quello di partenza, che in ipotesi potrebbe essere distrutto, o continuare un'esistenza separata). Nota Hervé Kempf: «E' l'idea di Chris Winter, capo del gruppo di studio sulla Vita Artificiale [alias] di British Telecom... "Combinando l'informazione [pertinente l'esperienza e i ricordi consci e inconsci di una persona] con quella inerente ai suoi geni" ha dichiarato al Daily Telegraph, si potrebbe ricrearla fisicamente, emozionalmente e spiritualmente"» (La revolution biolithique. Humains artificiels et machines animées, op. cit., pag. 137).
(116) Gregory Stock [alias], Redesigning Humans, op. cit., pag. XIII, trad. italiana: Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005.  Vedi anche Charles C. Mann, "The First Cloning Superpower", in Wired, gennaio 2003. Riguardo i recenti successi riportati in Corea del sud, pur tra qualche scandalo e perplessità, vedi ancora ad esempio l'originario articolo apparso su Science, "Korean Team Speeds Up Creation Of Cloned Human Stem Cells", 308, Maggio 2005, commentato ad esempio da Elena Dusi, "Clonazione, in Corea del Sud prime staminali personalizzate" in La Repubblica, 19/05/2005.
(117) In effetti, benché alcune tradizioni religiose affermino il contrario, non è noto alcun caso di riproduzione asessuata da parte di esseri umani; ma se abbiamo riguardo alle cellule, i nostri corpi sono essenzialmente composti proprio da... "cloni", posto che le cellule del corpo si riproducono per mitosi, processo a seguito del quale il corredo genetico della cellula madre è duplicato in due copie identiche, una per ciascuna delle cellule figlie. Dal punto di vista degli organismi, è vero invece che almeno il 95% delle specie superiori ricorre al sesso, almeno quando ne ha la possibilità, per riprodursi (cfr. Hervé Kemps, La revolution biolithique. Humains artificiels et machines animées, op. cit., pag. 61). Ma, come già notato, esistono anche nella specie umana numerosi cloni naturali, sotto forma di gemelli monovulari spontanei, la cui esistenza non parrebbe comportare nessun pregiudizio particolare alla specie in quanto tale, così come la loro presenza non ha mai generato particolare sconcerto nella comunità di appartenenza. O almeno ciò era vero sino all'affermarsi del terrorismo culturale contemporaneo: chi scrive ha sentito con le proprie orecchie dare del "clone bastardo" ad un componente di una coppia di gemelli, in un'inedita forma di insulto derivata dalla penetrazione nell'inconscio collettivo dell'attuale bizzarra propaganda per il "diritto all'unicità genetica"!
(118) Cfr. Robert P. Lanza et al., "Cloning Noah's Ark", in Scientific American, Ottobre 2000, pag, 84.
(119) Esistono in effetti due tipi di clonazione artificiale: quella che riproduce il meccanismo naturale di produzione dei gemelli monovulari, e che consiste nel provocare una scissione dell'embrione quando le sue cellule sono ancora allo stato "totipotente"; e quello che sfrutta la capacità di qualsiasi cellula, anche tratta da un pelo di un animale estinto, di rendersi a sua volta totipotente quando il nucleo ne venga estratto ed impiantato in un ovulo della stessa specie o di una specie compatibile. Questa seconda tecnica è quella coinvolta nella cosiddetta "clonazione riproduttiva" degli essere umani adulti, o nella cosiddetta "clonazione terapeutica" che come vedremo consisterebbe nel far crescere singoli organi (o al limite interi doppioni anencefali) di un dato individuo per fornirgli tessuti compatibili nuovi secondo necessità.
(120) Il forte incremento dei tagli cesarei dipenderà certamente da una cultura medica che interpreta la gravidanza come una malattia, e tale tipo di intervento come chirurgia risolutiva. La disponibilità da secoli di tale tecnica aiuta però ovviamente a riprodursi donne che avrebbero in caso contrario maggiori difficoltà a farlo, e che presumibilmente lasciano in eredità la componente genetica di tali difficoltà alla loro progenie di sesso femminile.