Biopolitica. Il nuovo paradigma
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A
Simona
«Im
Amfang war die Tat» ()
Johann
Wolfgang Goethe, Faust
Bioetica,
ambientalismo, biopolitica
L'insieme
di tematiche che possiamo riassumere con il termine di "biopolitica"
rappresenta uno spartiacque fondamentale in termini di visione del
mondo. Non solo. È la questione cruciale della nostra epoca,
riguardando l'identità stessa della nostra specie, il suo
futuro ed il senso della sua presenza nel mondo.
Il
rapporto tra l'uomo e il suo ambiente, l'origine della vita e delle
varie specie, l'ereditarietà, l'antropologia, la
riproduzione,
la selezione, la sanità, la demografia, rappresentano
altrettanti argomenti "sensibili", che dopo la rimozione
freudiana ()
di buona parte della fine del secolo scorso ritornano oggi
prepotentemente alla ribalta. Riempiono così le pagine dei
giornali ad ogni occasione le catastrofi ambientali vere o
annunciate, la questione della brevettabilità di nuove
specie, una
pecora australiana clonata o l'annuncio di un'analoga
clonazione
di una bambina ()
da parte di una
piccola setta, gli scontri sulla procreazione assistita o
sull'aborto o sui cibi geneticamente modificati.
Per
lo più, il dibattito su questi temi è oggi
dominato dai
cosiddetti studiosi di bioetica, personaggi normalmente
caratterizzati da una forte ipoteca confessionale, in Italia di
regola post-marxista o cattolica. D'altronde, se l'establishment
scientifico, agroalimentare e chimico-farmaceutico si cura soltanto
dei propri interessi a breve termine, le posizioni "bioetiche"
non vanno in genere al di là della maledizione biblica
contro
la tentazione di "giocare alla divinità", e contro
ogni nuova forma di dominio dell'uomo sull'uomo e sul mondo.
Anzi,
chi ha davvero preoccupazioni ideologiche al riguardo è oggi
quasi per definizione schierato nel campo "bioetico", dato
che, come nel caso dell'ambientalismo, i suoi avversari semplicemente
non percepiscono – o si rifiutano di
percepire – il problema e si muovono in
un logica di puro lobbyismo, che
non tenta neppure di andare al di là della polemica politica
spicciola («i cibi transgenici costano meno, e comunque
vietarne l'importazione è contrario alla libertà
dei
traffici»).
Se
per ecologia
si intendeva un tempo semplicemente la scienza degli equilibri e
delle interazioni tra le varie specie e tra queste e il loro ambiente
chimico-fisico ed oggi il termine è passato ad indicare la
sensibilità ed ideologia che passano anche sotto il nome di
"ambientalismo", similmente il termine bioetica,
come ricorda Leon
R. Kass, era stato in
realtà coniato dal biologo Van
Rensselaer Potter, «per
designare una nuova etica da basarsi non su fondazioni filosofiche o
religiose ma sul terreno che veniva ritenuto più solido
della
moderna biologia, ed era poi passato ad indicare lo studio di tutte
le intersezioni tra l'avanzamento delle scienze biologiche e le
dimensioni morali della vita umana»
().
In effetti, il medesimo Kass, capofila della tendenza cosiddetta
bio-luddita (),
tiene ancora nel 2002 a sottolineare che il Comitato
Presidenziale cui è
stato messo a capo da George
W. Bush non è un
comitato di "bioetici", ma sulla bioetica ().
Già all'epoca comunque il termine stava ormai ad indicare
più
che altro una specializzazione, politica o accademica, nella denuncia
dei portati della biologia moderna.
Malgrado
ciò, anche gli "studiosi di bioetica" raramente si
occupano di altro che non siano le conseguenze immediate delle
"novità" di... ieri, dagli OGM alla clonazione dei
mammiferi alla fecondazione artificiale. Le questioni di più
ampio significato e di più lungo periodo semmai sono state
esplorate dalla fantascienza classica, specie del secondo dopoguerra,
che pur offrendo per lo più epiloghi rassicuranti e
politicamente corretti (gli scienziati pazzi messi in condizioni di
non nuocere, i "superuomini" geneticamente modificati
sconfitti dal bravo cittadino americano) ha avuto almeno il merito di
esplorare scenari radicalmente diversi da ciò cui siamo
abituati, e che pure inevitabilmente incombono.
Un autore ad esempio tuttora attivo e di discreta notorietà
come David
Gerrold ha ad
esempio scritto un'intera saga, articolata in più romanzi e
racconti,
dedicata allo scontro tra la solita "Federazione terrestre" e la
civiltà Morthan (da "more than",
sottinteso "human",
più-che-umano). Quest'ultima è una cultura creata
nello spazio al di
fuori della sfera di influenza della Federazione da un gruppo di
individui geneticamente modificati che, separatosi dal resto
dell'umanità e dalle sue convenzioni e regole, ha continuato
a
selezionare e modificare il proprio codice genetico per secoli, al fine
deliberato di creare una razza superiore dalle prestazioni
intellettuali e fisiche eccezionali (inutile dire che lo scenario
rappresenta un'allegoria neppure troppo velata della seconda guerra
mondiale). Simili temi si ritrovano nella storia futura di Jerry
Pournelle,
con particolare riguardo alla guerra contro il dominion del pianeta
Sauron (), e in altri esempi
troppo numerosi per essere qui ricordati che hanno per oggetto
catastrofi ecologiche e/o mutazioni radicali della nostra specie e del
suo ambiente, fino al contesto radicalmente post-umano della Scala di Schild
dell'australiano Greg Egan ().
Ma già molti autori dell'epoca d'oro della fantascienza si
erano
occupati intensamente della tematica della natura umana e delle sue
possibili trasformazioni future, come ad esempio Poul
Anderson, Robert
A. Heinlein e Charles
L.
Harness. Tali autori non fanno d'altronde che prolungare una
tradizione fantascientifica risalente quanto meno agli uomini-bestia
nel classico del 1896 di Herbert G. Wells, L'isola del dottor Moreau
().
Heinlein, come nota Brian Alexander,
svolse comunque un ruolo decisivo nella penetrazione culturale di
queste tematiche nella cultura popolare anglosassone e non, dove
verranno declinate tra l'altro dall'entusiamo ingenuo delle correnti
come il life-extensionism, in cui molto prima del
New Age si
mischiavano un senso di rottura epocale ed il superamento di molti
assiomi tradizionali della correttezza occidentale, giudeocristiana e
"democratica" con vari cascami delle ideologie egualitarie e
progressiste ().
In
realtà, una vera riflessione sulla "rivoluzione
biologica" può trovare le sue radici, ed a partire dalla
fine dell'Ottocento ha avuto una sua prima possibile risposta ad un
livello ben diverso, con la riflessione sovrumanista relativa allo Zeit-Umbruch,
la "rottura
del tempo della storia". Con tale riflessione si fa strada
infatti per la prima volta, in campo filosofico, antropologico e
artistico-religioso, l'idea dell'avvento di un "terzo uomo",
chiamato a farsi integralmente carico del suo destino attraverso un
"nuovo inizio" che non tanto ripeta
anacronisticamente, quanto riprenda e riproduca
l'atteggiamento con cui la rivoluzione
indoeuropea rispose alla sfida dell'era neolitica. E
ciò
in particolare attraverso un'integrazione culturale e postmoderna
della tecnica contemporanea, che superasse la crisi di
civiltà
che già si annunciava.
Le
denunzie "bioetiche" più recenti hanno abbastanza
ben presenti le genealogie e le opzioni di fondo. Scrive Giuseppe
Lissa: «In quest'epoca,
segnata, secondo Nietzsche,
dalla morte di Dio, una profonda crisi attraversò e
lacerò
il corpo della tradizione occidentale, dominata dall'ispirazione
platonico-ebraico-cristiana (),
producendo effetti largamente negativi anche sulla tradizione
liberale che ne aveva ereditato le istanze umanistiche più
importanti... La libertà, secondo un antico concetto
ebraico,
rilanciato da Hannah
Arendt, risiede nella
capacità che ha l'uomo di strapparsi ai determinismi
naturali,
storici e culturali da cui è incalzato... Ora, proprio
questa
prerogativa venne messa in discussione dall'epoca di cui parliamo... Al
di là del varco che questo passaggio consentì di
superare, l'essenza dell'uomo si trovò ad essere dislocata,
e
fu riposta nella sua potenza... Ma non si limitò a questo.
[La
biologia], disvelando i misteri del corpo, mise l'uomo in condizione
di intervenire su di esso per trasformarlo e per adeguarlo ai sogni
di perfezione da lui sognati nel tempo in cui la sua umanità
si era perduta dietro l'illudente convinzione che questa perfezione
risieda nella realizzazione della potenza. Trasformandosi poi in
medicina, la biologia alimentò il faustiano mito medicale e
lo
portò ad immaginare di poter estendere la propria potenza
vitale e di poter trasformare il proprio corpo sino al punto da farlo
corrispondere con l'immagine del suo desiderio, che era, come si
è
detto, un desiderio di potenza. Così egli soggiacque a
questo
desiderio completamente e nutrì l'ambizione di esercitare la
sua padronanza sull'intero processo evolutivo, scoperto da Darwin,
illudendosi di poterlo orientare in maniera da farlo corrispondere
alle sue aspettative» ().
Così, ecologia,
pianificazione del territorio, della produzione e dello sfruttamento
delle risorse naturali, bonifica, demografia, eugenetica, sviluppo
sostenibile, programmi igienici, sanitari e sportivi di massa,
antropologia, genetica delle popolazioni, biologia umana, storia
naturale passata e soprattutto futura, sono argomenti che finiscono
poi per acquisire negli anni venti e trenta un'improvvisa
centralità
politica, altrettanto ignota ai regimi liberali tradizionali che
all'Ancien Régime, e con cui i regimi comunisti (sino che
sono
durati) e filoamericani del dopoguerra finiscono comunque per doversi
confrontare. Cosa che in effetti non mancano di fare, ma secondo
logiche appunto moralistiche, di breve termine, di bassa propaganda,
di interesse economico, di neoprimitivismo velleitario, di
pregiudizio ideologico, che si prolungano sino ad oggi.
Oggi,
l'atteggiamento rispetto a tali questioni è divenuto una
cartina di tornasole per individuare le "vere" appartenenze
ideali di ciascuno. Esistono scelte personali che sono significative
in gradi diversi. Che due consiglieri provinciali o due giornalisti
siano d'accordo sul colore da dare ai tombini nel comune di
Orgonzuolo non ci dice molto quanto ai rispettivi orientamenti ideali
di fondo. Le questioni biopolitiche hanno invece in comune con le
grandi questioni di politica internazionale il fatto di dividere
nettamente coloro ad esempio che si schierano davvero su posizioni
alternative all'ideologia dominante e i loro vari passati compagni di
strada, specie quelli "di destra".
Sono
però pressoché tutti d'accordo sul fatto che la
"rivoluzione biopolitica" che si annuncia, anzi, che è
già in corso, rappresenta perciò l'affermarsi di
un nuovo paradigma con cui siamo
tutti in un modo o nell'altro costretti a confrontarci ().
La
visione postmoderna, o, per usare il linguaggio di Guillaume
Faye, archeofuturista (),
che in nuce ha già costituito l'ispirazione fondamentale del
sovrumanismo di inizio Novecento e in parte dei successivi movimenti
nazionalpopolari europei, non fornisce automaticamente
soluzioni
o risposte definitive, preconfezionate, alle questioni di cui
trattiamo in questo articolo. Rappresenta più che altro un approccio
diverso, un atteggiamento che supera e contraddice i
pregiudizi tuttora dominanti, ed accetta pienamente le sfide che ci
sono poste per integrarle in un possibile destino collettivo.
Ciò
anziché negarle in vista di ritorni all'indietro puramente
onirici, o rifiutarne la responsabilità a vantaggio di
meccanismi impersonali (logiche di mercato, microedonismo
individualista, regole legalistiche astratte, movimenti entropici) che
si spera abbastanza benevoli da consentire la nostra
sopravvivenza come specie in un contesto più o meno
accettabile.
Tutto
questo naturalmente ha a che fare con una riflessione più
generale sulla tecnica come
elemento caratterizzante della nostra specie,
e ciò in particolare nella particolare prospettiva che su di
essa proietta la nostra cultura,
in particolare nella sua fase attuale ().
Tale
riflessione sottolinea come l'essenza della tecnica non abbia nulla
di tecnico: essa è per l'uomo un modo del disvelamento
in senso heideggeriano, è un rapportarsi all'essere.
Secondo questa prospettiva, proprio oggi, quando l'uomo avverte la
dimensione alienante e reificante della civiltà della
tecnica
e vive il compimento della metafisica, cioè dell'oblio
dell'essere, l'uomo è già preso da una dimensione
"altra", che lo porta sulla soglia del mistero ontologico.
«Heidegger,
ad esempio, fin dall'inizio della sua riflessione, mette in luce come
il Dasein, l'"essere-nel-mondo", significhi per
l'uomo "prendersi
cura delle cose", manipolarle e trasformarle secondo le sue
esigenze. Essere in relazione con gli altri viventi e con l'ambiente
che lo circonda significa per l'uomo avere la possibilità di
comprendere, ed agire sulle regole fondamentali del divenire
naturale. E la tecnica è un "progetto" che "dispone"
degli enti trasformandoli in oggetto di calcolo e di
manipolazione»»
().
Così,
secondo Heidegger,
«ciò che è
stato pensato e poetato agli albori dell'antichità greca
è
oggi ancora attuale, così presente che la sua essenza
rimasta
chiusa a esso stesso ci sta davanti e ci viene incontro da ogni
parte, soprattutto e proprio là dove meno ce lo aspettiamo,
cioè appunto nel dominio dispiegato della tecnica moderna,
che
è assolutamente estranea a tale ancestralità, ma
che
tuttavia ha la propria origine essenziale proprio in
quest'ultima»
().
«Da
questa prospettiva», riconosce Maria Paola Firmiani,
«la
sensibilità neo-antica del pensiero contemporaneo evidenzia
uno sradicamento epocale» ().
La
Forma (Gestalt) dell'Operaio
di Ernst
Jünger rappresenta tipicamente l'avatar storico di
tale rinnovata frattura
().
Nota a tale proposito Alain
de Benoist, dopo aver
menzionato al riguardo il film Metropolis
[DVD]
di Fritz
Lang: «Mobilitare
significa "essere pronto, rendere pronto", nel senso in cui
il soldato si rende pronto per la guerra. Ma significa anche rendere
mobile, mettere in movimento. Come farà dunque il Lavoratore
a
mobilitare il mondo e ad affrontare i modi di esistere "antiquati"?
Mobiliterà il mondo ricorrendo alla tecnica, quella tecnica
che è di per sé la causa della "mobilitazione
totale". E attraverso questa utilizzazione, la tecnica
riceverà
di colpo tutto il suo significato... Secondo Jünger, solo il
Lavoratore coltiva una relazione "reale" con la tecnica:
lui solo è capace di avere un rapporto autentico con il
"carattere totale del Lavoro", che è identico
all'essere nel senso della volontà di potenza. La tecnica
non
è solamente "il simbolo della Figura del Lavoratore",
rappresenta altresì la maniera (die
Art und Weise) in cui questa
Figura mobilita il mondo. La vera ragione della tecnica non sta
nell'"accelerare il progresso", ma nell'intensificare
la potenza: la tecnica
costituisce "lo strumento più potente e meno discutibile
della rivoluzione totale"» ().
Del
resto, quest'ordine di idee aveva già da tempo permeato il
panorama artistico ed intellettuale europeo con i grandi "manifesti"
del movimento
futurista ().
E le stesse correnti
attualiste dell'idealismo italiano, con la loro insistenza
sul
concetto di autoctisi – e sulla
interpretazione della
presenza dell'uomo nel mondo come atto (auto-)creativo dello spirito
che si afferma ponendo un oggetto che è condizione
necessaria
della sua azione ma non può essere da lui separato, con
conseguente coincidenza tra pensiero ed azione plasmatrice ed
ordinatrice – disegnano percorsi la cui
convergenza in senso
faustiano ed "attivista" non è troppo difficile
identificare ().
Similmente,
«per Gehlen,
l'uomo è naturalmente sociale, ma anche naturalmente
tecnico,
poiché il mondo culturale che costituisce la casa in cui
egli
si trova a suo agio è un mondo che può evolversi
e
costruirsi solo grazie all'intervento tecnologico. [...] L'uomo, che
si presenta biologicamente carente nei confronti degli animali meglio
adattati e più specializzati, è tuttavia capace
di
prestazioni imprevedibili e di attività insospettate, ma
Gehlen si rifiuta di ascrivere queste caratteristiche ad una
scintilla divina, ad un'anima immortale impressa da Dio nella sua
creatura prediletta. Nell'antropologia elementare non c'è
più
posto per la divinità, è quindi l'uomo
tecnologico che
con le sue sole forze è in grado di superare le
necessità
e proiettarsi nel regno della libertà. La riflessione
antropologica di Gehlen si avvicina alla concezione volta a fare
dell'uomo l'essere capace di costruire il proprio futuro. E' la
libertà di determinare il proprio destino che ripaga l'uomo
di
tutte le sue carenze organiche, realizzando ciò che tutti
gli
altri esseri, pur non limitati da "inadattamenti",
"non-specializzazioni" e "primitivismi", non
riuscirebbero mai a costruire: un "mondo culturale", un
"ambiente artificiale", atto a garantire l'esistenza e a
soddisfare le esigenze di quell'essere particolarissimo che
è
l'essere umano. Dalla costruzione dei più rudimentali
utensili
alla creazione delle più sofisticate apparecchiature
odierne,
la tecnica ha costantemente aiutato l'uomo ad aprirsi al mondo, a
conquistare e a dominare tutta la terra...» ().
Così,
conclude Gehlen,
«senza un ambiente
preciso della specie al quale sia adattato, senza uno schema innato
di movimento e comportamento (e ciò negli animali significa
"istinto"), per carenza quindi di specifici organi ed
istinti, povero di sensi, privo di armi, nudo, embrionale nel suo habitus,
instintivamente
insicuro già per via del farsi sentire interiore dei suoi
impulsi, egli è chiamato all'azione,
alla modificazione intelligente di qualsivoglia condizione naturale
incontrata» .
Aggiunge Oswald
Spengler: «[In tale
prospettiva] la lotta della natura interna dell'uomo contro la
natura esterna non è più sentita come una
sofferenza
(così Schopenauer e Darwin
si
rappresentavano lo struggle for life),
ma come il grande senso della vita, che la nobilita; così
pensava Nietzsche: amor fati.
E l'uomo
appartiene a questa specie»
().
Sul
piano biopolitico come su altri piani, essenza di tale nuovo e
diverso approccio, nel secolo passato come in quello appena iniziato,
è molto spesso una logica del terzo incluso,
la cui
portata è pienamente comprensibile soprattutto oggi.
Ciò
significa in pratica, quando il dibattito contemporaneo appare
fortemente polarizzato su posizioni contrapposte, che si presentano
come i due termini di una alternativa insuperabile, negare in
radice tale dicotomia; andare oltre la
contraddizione che
sembra riassumere tutte le possibili posizioni su un problema; in
altri termini: tagliare il nodo di Gordio che
esiste solo
nella limitata prospettiva della visione del mondo oggi egemone. Lo
scontro tra produttivisti ed ecologisti, tra naturisti ed adoratori
della scienza medica ufficiale, tra evoluzionisti ed
antievoluzionisti, tra abortisti ed antiabortisti, diventa in tale
prospettiva superficiale, insensato, o basato su valori da superare,
esattamente quanto l'idea ottocentesca che la politica si dovesse
ridurre allo scontro tra "liberalismo" e "socialismo",
o "laici" e "clericali", o "conservatori"
e "progressisti".
Dal
punto di vista postmoderno, a tali sorpassate dialettiche subentrano
analisi diverse, che nel concreto sono inevitabilmente basate sullo
stato momentaneo delle nostre conoscenze, su posizioni contingenti e
opzioni in certo modo arbitrarie, ma che riflettono una costante
rottura con la logica della modernità e delle sue radici
umanistico-egualitarie.
Tali
analisi possono naturalmente trovare espressione in prese di
posizioni politiche, che d'altronde nella loro declinazione concreta
possono per molti risultare ancora oggi, quando non addirittura
intollerabili, quanto meno incomprensibili.
In
tale prospettiva, ad esempio, la "grande questione morale"
della procreazione assistita, che ha visto una delle maggiori
"spaccature ideali" del parlamento italiano potrebbe essere
legittimamente vista come un tipico non-problema,
dal momento
che in linea di massima qualsiasi misura abbia per effetto un
sostegno anche minimo alla quantità e qualità
della
demografia europea autoctona è da considerarsi bene accetta,
avendo rilievo il bilancio finale dei bambini nati vivi, e non del
numero delle "anime" che siano eventualmente assurte in
anticipo nel Regno dei Cieli, al di là dei pregiudizi
religiosi ()
(ma anche dei desideri più o meno individualisti e
narcisisti
delle "aspiranti madri", di cui si fanno invece portatori
gli ambienti che difendono indiscriminatamente tali pratiche );
così che ciò che importa è soprattutto
l'uso
che della fecondazione artificiale venga praticamente fatto;
ed è semmai tale ultimo aspetto che vede oggi un "Far-West
dell'etica", non certo la prospettiva che un referendum radicale
potesse mai integralmente abrogare la legge
scandalosa, tartufesca e democristiana, introdotta nel 2002
sull'onda delle pressioni "bioetiche"(),
contro l'indifferenza e disinformazione dei più e la
massiccia
mobilitazione della chiesa
cattolica.
Similmente,
la vera questione in materia di aborto potrebbe essere considerata
quella di se e quando l'aborto possa essere un dovere,
mentre
viceversa potrebbe parere irrilevante (o al limite da scoraggiare,
sempre da un punto di vista di dinamica delle popolazioni) la sua
rivendicazione come diritto, in relazione a scelte
di tipo
essenzialmente economico-edonistico, per di più unicamente
della madre ().
Ancora,
nella prospettiva accennata, il problema della protezione e
valorizzazione dell'ambiente risulta inscindibile dal problema
già
accennato del significato della tecnica, e del controllo tecnico
dell'ambiente da parte di una volontà politica in un
funzione
del progetto collettivo di un particolare destino, ma certo non con
irenismi neo-ludditi o fughe in un primitivismo velleitario e
suicida, né con una "manutenzione" minimalista del
palcoscenico necessario al dispiegarsi del Mercato e del progresso
universale.
Viceversa,
i termini in cui tutte tali questioni sono oggi dibattute non hanno
neppure senso per chi non sta né "qui" né
"là" nell'ambito della tendenza
egualitario-umanista, ma semplicemente altrove
rispetto a
quest'ultima.
Sovrumanismo
e
"terzo uomo"
La
biopolitica pone comunque la civilizzazione contemporanea in via di
diventare globale di fronte a sfide "inumane". Rifiutarsi
di affrontarle delegando le relative responsabilità al
meccanismo impersonale del mercato, o tentare di negarle attraverso
tipici meccanismi di rimozione, proibizionismo e repressione, conduce
come vedremo ad una prospettiva propriamente disumana.
A tale
prospettiva possono unicamente essere opposte scelte consapevolmente
tragiche e sovrumaniste, il salto di qualità di un nuovo
inizio tramite cui prendere in mano il proprio destino "per
mille anni", anzi, per intere ere.
Il
nodo rappresentato in questo senso dalla rivoluzione biopolitica, e
non solo, è stato anticipato da alcune riflessioni
dell'inizio
del Novecento, poi prolungate da autori come Arnold
Gehlen o Giorgio
Locchi (),
che descrivono i tratti di un'"antropologia operativa" di tipi
umani, cui corrispondono diversi modelli culturali,
propri sia di diverse fasi epocali che di popolazioni storicamente
compresenti ancora in questo secolo ().
In
tale visione, troviamo innanzitutto il "primo uomo", quello
dell'ominazione, dell'avvento del linguaggio, delle società
di
caccia e raccolta, della magia sciamanica che gli consente di
identificarsi con modelli tratti dall'ambiente in cui è
immerso per supplire alle sue deficienze istintuali e mettere a
frutto la sua plasticità etologica. Tali aspetti
sopravvivono
socialmente nei mutamenti successivi, e continuano ad essere
direttamente incarnati sino ad oggi, ad esempio negli aborigeni
australiani, o nelle popolazioni indigene "non-negroidi"
dell'Africa equatoriale e australe (pigmei, khoisan).
Dopo
centinaia di migliaia di anni, sempre secondo questa analisi, sarebbe
emerso per la prima volta, in qualche epoca successiva alla fine
dell'ultima glaciazione e in un'ulteriore grandiosa tappa del
progetto di autodomesticazione che descrive l'avventura della nostra
specie, il "secondo uomo". Tale secondo uomo è
l'uomo della rivoluzione
neolitica, dell'agricoltura (con connessa vita stanziale e
prima
grande esplosione demografica), della "città", della
politica, della religione, della divisione del lavoro, di quella che
viene chiamata "tecnologia pirica", delle grandi culture
spengleriane. Nell'epoca del secondo uomo, ormai l'"ambiente
naturale" è diventato un ambiente culturale.
Infatti, non solo l'ambiente naturale è ormai influenzato e
plasmato dalla presenza umana, ma il fattore propriamente umano si
intreccia inestricabilmente con il puro dato biologico in una azione
combinata tanto sui singoli individui che sulle pressioni selettive
che ne plasmano le linee genetiche.
Parallelamente,
come nota Gehlen,
«lo svicolamento delle cose
di importanza vitale di questo mondo dall'irrazionalità di
ciò
che si offre immediatamente e la liberazione dalla infinita ricerca e
procacciamento del cibo devono aver prodotto l'acquisizione di una
nuova sicurezza esistenziale ed aver dischiuso orizzonti spirituali
del tutto nuovi» ().
Scriveva
già Spengler:
«Il ritmo della storia si accelera drammaticamente. Prima, i
millenni contavano appena, ora ogni secolo ha importanza. Cosa
è
avvenuto? Se ci si addentra più a fondo in questo nuovo
mondo
di forme dell'attività umana, si vedono ben presto nessi
molto
confusi e complicati. Tutte queste tecniche si presuppongono
reciprocamente. L'allevamento di animali domestici esige la
coltivazione di foraggi; la seminagione e il raccolto di piante
alimentari richiedono la presenza di animali da tiro e da soma, che a
sua volta rende necessaria la costruzione di ripari e recinti; ogni
genere di edifici esige la fabbricazione e il trasporto di materiali
da costruzione, il traffico stradale, l'animale da soma e la nave.
Cosa vi è in tutto ciò di spiritualmente
trasformatore? Rispondo: la
sistematica azione collettiva. [...]
I nuovi procedimenti richiedono un tempo lungo, in certi casi anche
anni – si pensi alla larghezza dell'intervallo fra
l'abbattimento
degli alberi e la partenza della nave costruita con essi – e
richiede pure larghi spazi. I nuovi procedimenti si scompongono in
serie di singoli atti esattamente ordinati e in gruppi di azioni
svolte le une accanto alle altre. Ma questi procedimenti collettivi
presuppongono, come mezzo indispensabile, il linguaggio
» ().
D'altronde,
come già detto, il "primo uomo", sia a livello
individuale che sociale, sopravvive integralmente nel secondo, che
non rappresenta di per sé uno "stadio gerarchico"
rispetto all'altro. Anzi, le classi dominanti delle società
del secondo uomo rispecchiano sovente stili di vita "arcaici",
riprodotti o mantenuti artificialmente in una forma
più
o meno idealizzata, esattamente grazie all'eccesso di risorse
liberate dal mutamento del modo di vivere del resto della
popolazione: il parco del re non è costituito da campi
coltivati fittamente punteggiati da case coloniche, ma da riserve
di caccia e giardini, sostanzialmente disabitati ().
La signoria sul mondo del secondo uomo non è infatti di chi
ad
esempio "inventa" l'agricoltura (),
ma di chi sa dominare ed integrare culturalmente i nuovi modi di vita
in una sintesi superiore ().
«L'impresa
diretta verbalmente»,
nota Spengler,
«è connessa ad
un'enorme perdita di "libertà", dell'antica
libertà
dell'animale da preda, tanto per i dirigenti quanto per i
diretti. Gli uni e gli altri diventano,
spiritualmente e moralmente, corpo
e anima, membri di una più grande unità. Ciò
chiamiamo organizzazione. E' la
fissazione della vita attiva in forme stabili, è la
condizione propria ad imprese di qualsiasi genere. Con l'azione
collettiva si fa il passo decisivo dall'esistenza organica
all'esistenza organizzata,
dalla vita in gruppi naturali alla vita in gruppi artificiali,
dall'orda e dal branco al popolo, razza, ceto e Stato» ().
Scrive Giorgio
Locchi:
«Avendo appreso [con il "primo uomo"] ciò che
fa "muovere" se stesso, l'uomo cerca di "far muovere"
gli animali e le piante secondo i suoi desideri e i suoi bisogni. Per
ciò che concerne gli animali sociali, si è
proposto di
assumere nei loro riguardi un ruolo direttivo, sostituendosi al
capobranco. Nello stesso modo, colui che ha attinto ad un
livello di coscienza superiore, grazie ad una comprensione
corretta della '"relazione magica" si pone in quanto
aristocrazia nei confronti della società, ed afferma la
propria sovranità. La religione
costituisce in seguito
il sistema ideologico che permetterà di "legare insieme'"
la società, e di sottomettere la massa ad una data
influenza.
[...] Parallelamente alla "domesticazione del mondo vivente"
da parte dell'uomo, preso nel suo insieme, si opera la
"domesticazione" della massa da parte dell'élite, dell'uomo
magico da parte dell'uomo religioso.
[...] Questo "passaggio"
nel quale consiste la rivoluzione neolitica, e che rappresenta il
periodo oggi in via di conclusione (),
riveste un'importanza fondamentale. Non è troppo difficile
riconoscervi ciò che la Bibbia chiama "espulsione dal
paradiso terrestre", Karl Marx "la fine della società
comunista primitiva", Sigmund Freud "l'uccisione del padre"
e Lévi-Strauss infine "la separazione tra Natura e
Cultura"» ().
Infatti,
il modo in cui il "secondo uomo" reagisce alla storicità
che gli si apre, e ciò che ne è emerso, ha
portato
taluno a individuare altre suddivisioni, e precisamente:
-
le culture "soggetto della storia", coincidenti in sostanza
con quelle generate dalla rivoluzione indoeuropea (),
che si fanno pienamente carico della dimensione storica esprimendosi
mediante il progetto eroico e tragico di forme e destini collettivi
deliberatamente e consapevolmente assunti;
-
le culture "in preda alla storia" (ad esempio, le grandi
culture estremo-orientali, egizie, mesopotamiche, precolombiane,
etc.); è difficile d'altronde districare la matassa dei
contatti, scambi ed influenze che tali culture hanno subito con le
prime, tanto che alcuni autori hanno ipotizzato un ruolo di "innesco"
in via generale di influenze e gruppi indoeuropei, per imitazione,
competizione o rielaborazione ();
-
le culture "fredde", ovvero le culture post-neolitiche che
rifiutano la dimensione storica replicando se stesse in un contesto
culturale assunto una volta per tutte (caso della maggior parte delle
culture sub-sahariane e amazzoniche), culture che finiranno per
diventare "oggetto della storia", in particolare della
storia altrui, quando con questa verranno a contatto.
Queste
distinzioni sono del resto riprese in termini identici da correnti
importanti della cultura dominante, ben rappresentate da Lévi-Strauss [alias]
e da tutta la corrente antropologica che vanta appunto i meriti delle
"culture fredde", nonché da larghi settori
dell'ecologismo politico, e che si salda in ciò con la
nostalgia per l'immutabile del tradizionalismo "di destra".
Ricorda
ancora Locchi:
«Lévi-Strauss ci presenta le società
"fredde",
che sono spesso definite società primitive, come un esempio
luminoso – o almeno da guardare con nostalgia – di
fedeltà
alla tradizione, alla permanenza e all'"Essere"
().
Riprendendo la descrizione fornitaci da Theodor
G. H. Strehlow dei costumi quotidiani degli Aranda settentrionali, fa sua
questa conclusione: "L'indigeno Aranda
rispetta ciecamente la tradizione, resta fedele alle armi primitive
che usavano i suoi lontani antenati, e l'idea di migliorarle non gli
passa neppure per la testa". Ma questa seducente omelia gioca
sulle apparenze più superficiali: sottende una definizione
del
tutto fallace della tradizione. Con una certa abilità,
Lévi-Strauss confonde qui la lettera e lo spirito, l'atto e
il fatto, il gesto e il suo effetto. Continuando ad utilizzare le
loro "armi primitive" gli Aranda tradiscono,
più
che non rispettino, i loro "lontani antenati". Infatti ripetono
là dove i loro antenati avevano improvvisato o
inventato; segnano il passo là dove i
loro antenati
avanzavano; cercano rifugio in un mondo reso certo, mentre
i
loro antenati, sfidando l'ignoto, aprivano le porte di un mondo
nuovo. Gli Aranda "fedeli alla tradizione'" non sono che i
residui fossili della storia dei loro antenati ().
[...] Le "società fredde" ben meritano il nome di
rami culturali pietrificati, che non evolvono più
se non
in base ad "avvenimenti" esterni e casuali, sotto la
pressione di fattori che sono a loro estranei. Esse sono dunque alla
mercé di ogni variazione dell'ambiente non prevista dal loro
"programma". In breve, esse non possono sussistere in
quanto tali che a condizione di non incontrare più la storia
da cui sono uscite. È per questo che il contatto con la
società occidentale risulta fatale alle "società
fredde". Perché l'uomo bianco, persino oggi, rappresenta
ancora la storia». La storia di cui per altro l'Occidente
vorrebbe imporre la fine, a livello planetario ().
In
questo quadro, infatti, un ruolo del tutto particolare è
rappresentato dalla nascita in Medio Oriente di una tendenza storica
– rappresentata miticamente dalla scissione di Abramo e dalla fondazione di
Israele, e prolungata dalle altre religioni
monoteiste in rapporti certo molto complessi con le rispettive
culture-ospiti – che pur restando immersa nella storia ne
rifiuta moralmente il portato (la "torre di Babele") e
trova la sua ragione d'essere nella promessa di una sua fine
escatologica, e di una "demistificazione" costante delle
sue opere, in particolare attraverso un rovesciamento del divino, che
passa da strumento e proiezione dell'orgoglio e creatività
umana, nel processo in cui il "secondo uomo" si
impadronisce di se stesso e del mondo, a condanna e
relativizzazione "trascendente"
di tutto ciò ().
Tale
tendenza è evidentemente quella che nella sua forma
secolarizzata e più radicale celebra oggi un'egemonia
globale,
nella veste del Sistema mondialista e meccanicista della fine appunto
della storia ().
Alla
sua affermazione fa d'altronde riscontro il recente aprirsi di una
prospettiva del tutto opposta: quella del passaggio incombente dalla
"coscienza storica" all'autocoscienza di un "terzo
uomo". Un passaggio cioè dall'azione meramente
trasformatrice sul proprio ambiente culturale e naturale alla responsabilità
dell'autodeterminazione diretta di un
contesto ambientale, e di un'identità anche
biologica,
che ormai non possono che essere integralmente
artificiali –
esattamente come un parco è altrettanto artificiale di un
palazzo e, proprio come un palazzo, può oggi venire in
esistenza e mantenersi soltanto a condizione che una volontà
umana e politica lo preveda.
Scrive Maria
Teresa Pansera:
«[Gehlen] paragona questo profondo mutamento con la
transizione con la transizione vissuta dall'umanità nel
passaggio dalla civiltà nomade alla civiltà
stanziale
dell'agricoltura. Tutto ciò non può essere
accaduto
senza passare attraverso sentimenti di crisi e insicurezza provati da
coloro che si sono trovati a fare parte di una "cultura in
declino". Il periodo storico in cui stiamo vivendo gli appare
[analogamente] come un'"epoca di transizione" e non come
un'era destinata ormai a scomparire»
().
Il
fatto che l'"Interregnum", lo Zwischenreich in
cui ci troviamo trascenda del tutto la sfera della crisi politica
e culturale europea è sottolineato anche da un autore
lontano dall'antropologia culturale come Jünger:
«Ci troviamo [oggi] ad una svolta tra due epoche, la cui
importanza corrisponde pressappoco a quella del passaggio
dall'età
della pietra all'età dei metalli» ().
Un
punto chiave di tale passaggio sono naturalmente le questioni che
abbiamo raggruppato sotto il termine di "biopolitica", e
che del resto la riflessione postmoderna e sovrumanista anticipa in
Europa ormai da oltre un secolo, nel quadro di una prospettiva
più
generale.
Infatti,
nel momento in cui la natura stessa si trasforma tendenzialmente in
un puro prodotto culturale, e contemporaneamente "Dio è
morto", una risposta primordiale e faustiana – che riprenda,
e
al tempo stesso trascenda, l'atteggiamento indoeuropeo rispetto ai
problemi posti dal passaggio al "secondo uomo" –
rappresenta l'unica scelta (forse) capace di condurci ad esiti più
umani (anzi, "più-che-umani", propriamente:
sovrumani), e non meno umani, disumani, nella
svolta che ci si
prospetta ().
Disumani appaiono infatti, inevitabilmente, gli
esiti di un rifiuto della sfida politica, estetica,
esistenziale cui siamo esposti, a
favore di meccanismi impersonali quali il "mercato", una
"natura" ormai del tutto immaginaria, o il proibizionismo
velleitario di chi, in particolare nell'estrema destra e nell'estrema
sinistra, vorrebbe continuare a nascondere la testa nella sabbia.
Come
nota Gehlen «la rivoluzione
industriale che oggi volge al termine segna infatti la fine delle
cosiddette "culture superiori", affermatesi dal 3500 a.C.
fino oltre il 1800 d.C. e promuove la nascita di un nuovo tipo di
cultura, oggi ancora non ben delineato. Seguendo questa linea di
pensiero, si potrebbe addirittura arrivare a pensare che l'"era
civile" come periodo storico sia vicino a spirare, se intendiamo
la parola civiltà nel senso che ci viene illustrato dalla
storia delle culture superiori dell'umanità sino ad
oggi»
().
Ciò
è da subito inteso nei termini di una rottura anche a
livello
propriamente biologico, per quanto poco significato possa avere per
la nostra specie la distinzione tra "biologico" e
"culturale": Predica già Zarathustra:
«Ogni essere sinora ha creato
qualcosa sopra se stesso: e voi volete essere il riflusso di questo
gran flusso e ritornare alla bestia, anziché superare
l'uomo?
Che cosa mai è la scimmia per l'uomo? Una derisione, una
penosa vergogna. Questo deve essere l'uomo per il Superuomo: una
risata, una penosa vergogna. Finora avete percorso la via che va dal
verme all'uomo, e molto è in voi ancora verme» ().
La
cosa è d'altronde particolarmente evidente con riguardo alla
questione ecologica, che può essere affrontata unicamente
attraverso una capacità di progettualità
politica che implica a sua volta un maggiore,
e non un minore, grado di
tecnologia, e di dominio dell'uomo su se stesso e sul suo ambiente
().
Se l'Ipotesi di Gaia (),
cara all'"ecologia del profondo", è davvero utile
per descrivere la realtà dell'ecosistema terrestre,
è
solo il nipote di Gaia/Gea, Zeus, il dio
"elettrico"
della folgore, che può oggi amministrarne
l'eredità.
Scrive
Heidegger: «Nietzsche è il
primo a riconoscere il momento storico in cui l'uomo si prepara ad
assumere il dominio di tutta la Terra. Nietzsche è il primo
pensatore che, in vista di una storia mondiale per la prima volta
emergente, pone la domanda decisiva e pensa tutte le sue più
profonde implicazioni. La domanda è: l'uomo, in quanto uomo
nella sua natura sinora, pronto ad assumere la signoria del pianeta?
Se no, cosa deve succedere all'uomo perché egli sia capace
di
sottomettere la terra e rivendicare così un antico legato?
Non
deve l'uomo, così com'è ora, essere portato oltre
se
stesso per adempiere a questo compito? [...] Di una cosa, comunque,
dovremo presto renderci conto: questo pensiero che mira alla figura
di un maestro che insegnerà il Superuomo concerne noi,
concerne l'Europa, concerne tutta la Terra. Non solo oggi, ma ancor
più domani. E lo fa sia che lo accettiamo sia che ci
opponiamo
ad esso, lo ignoriamo o lo imitiamo con accenti falsi» ().
Ma
la cosa si riflette in ogni questione attinente al nostro futuro, e
in particolare quelle attinenti alla conoscenza e manipolazione
diretta, da parte dell'uomo, di se stesso e delle altre specie
viventi, e di riflesso dell'insieme del paesaggio del pianeta.
La
voce della reazione
Nel
1978, all'apice del successo mediatico della cosiddetta Nouvelle
Droite, all'epoca fortemente caratterizzata dalle sue
riflessioni
su materie come l'etologia
umana, i rapporti tra razza e intelligenza, l'evoluzione, la sociobiologia,
la demografia, etc., ed in particolare dalla polemica contro la
repressione culturale e scientifica in essere su questi argomenti
(), Albert
Jacquard scrive per reazione un volumetto dal titolo
paradossale
di Eloge de la différence ();
tale testo è di grande interesse, perché pur
essendo di
qualche anno fa solleva già buona parte delle questioni
decisive, e, senza davvero falsificare i dati rilevanti, che anzi
riporta in abbondanza, cerca di trarne conforto per una posizione
diametralmente opposta a quelle descritte nel presente studio.
Leggiamo
nell'introduzione: «La caratteristica dell'Uomo è
trasformare tutto ciò che lo circonda, la sua natura
è
vivere artificialmente. Egli manipola secondo i propri fini
l'ambiente nel quale vive, fino a modificare le specie vegetali e
animali che gli sono utili. Basata su una conoscenza sempre
più
precisa dei meccanismi del mondo inanimato e di quello organico, la
sua azione è divenuta sempre più efficace. Questo
nuovo
potere, perché non utilizzarlo per raggiungere l'obiettivo
più
affascinante: il miglioramento dell'Uomo stesso?».
E
l'autore continua: «È un'idea molto antica.
L'Umanità
è responsabile non solo della propria trasformazione morale
o
spirituale, del proprio progredire verso una civiltà
migliore,
ma lo è anche del proprio divenire biologico. Già
gli
Egiziani, gli Ebrei, i Greci si preoccupavano di difendere la loro
"razza" da un'eventuale degenerazione, di migliorare, se
non l'insieme, almeno una parte del gruppo, di giungere ad un Uomo
nuovo, a facoltà superiori. L'abbandono nel XIX secolo delle
teorie fissiste che vedevano in ogni specie una creazione specifica,
definitiva, di Dio, e la scoperta del processo di trasmissione di
caratteristiche biologiche fra una generazione e l'altra, la
conoscenza progressivamente affinata del nesso tra la composizione
del patrimonio genetico e le caratteristiche individuali hanno
alimentato nuove speranze: diverremmo finalmente "novelli
Pigmalione", in grado di plasmare la nostra specie? Al di là
delle speranze e di timori imprecisati, è necessario fare il
punto su quello che si sa, e soprattutto su quello che si vuole: di
cosa si tratta veramente?».
È
fin troppo facile rimarcare qui una serie di luoghi comuni. Per
coloro per cui l'"Umanità" non esiste, esistono solo
gli uomini e le civiltà concrete cui questi danno vita,
è
difficile immaginare che l'Umanità possa essere responsabile
di alcunché, men che meno di un "progresso" che
appartiene esclusivamente alla mitologia linearista e
provvidenzialista del monoteismo secolarizzato, e che oggi è
rimesso in discussione anche in tale ambito. Arbitraria e grossolana
appare anche la generalizzazione di «Egiziani, Ebrei,
Greci»,
come se la riflessione di tali tre culture sulla propria rispettiva
"etnicità" avesse mai seguito percorsi convergenti!
Infine, proprio chi rivendica l'eredità "greca" ed
indoeuropea come propria radice, e ad essa si richiama come origine
esemplare, è ben consapevole che quella dell'"Uomo
nuovo" è un'idea... postmoderna, non
pre-moderna.
Ciò
detto, è difficile non sottoscrivere tale programma,
eventualmente per giungere alla fine a conclusioni opposte
a
quelle dell'autore.
Un
anno prima era uscito negli Stati Uniti un altro libro, scritto da Jeremy
Rifkin e Ted Howard, intitolato Who Should Play
God? The
Artificial Creation of Life and What it Means for the Future of the
Human Race (),
che invece si preoccupava di denunciare le minaccie della nuova
tecnologia che ormai cominciava ad essere chiamata "ingegneria
genetica". Tra le altre cose il libro prediceva che
specie transgeniche, chimere, cloni, bambini concepiti in provetta,
uteri in affitto, la fabbricazione di organi umani e la chirurgia
genetica si sarebbero tutti realizzati nel corso del secolo, e dava
una veste rispettabile ad idee già fatte proprie da
movimenti
come Science for the People, che oltre a predicare l'ostracismo
accademico contro i test di intelligenza e la psicometria in generale
()
suggeriva in modo non troppo metaforico di far saltare semplicemente
in aria i laboratori di genetica.
Orientamenti
non molto diversi esprimevano del resto le prime riflessioni italiane
in materia, soprattutto in ambito cattolico (con le questioni del
controllo delle nascite, della fecondazione artificiale e dell'aborto
a fare da battistrada) e soprattutto nel mondo ecologista in via di
trasformarsi anche nel nostro paese in movimento
politico, con i due filoni rappresentati dall'associazionismo
ambientale e dai militanti di sinistra delusi nella loro attesa della
rivoluzione. Se i partiti "verdi" restano minoranza, talora
infima, nelle sinistre dei vari paesi, gli stessi d'altronde
finiscono per liquidare definitivamente, soprattutto in Europa
occidentale, gli entusiasmi leninisti del tipo "soviet più
elettricità" ed esercitano un'influenza profonda tanto
sui partiti comunisti e socialisti che sui gruppi più
radicali
().
Nello
stesso periodo, del resto, gli intellettuali d'area cominciano anzi a
prestare orecchio al neomalthusianesimo del Club
di Roma (),
e il millenarismo prende il posto dell'ottimismo "progressista"
di maniera, in salsa di opposizione contro il "fascismo
elettronucleare", nell'idea che l'uomo non debba passare certi
limiti, che li abbia già passati e che si debba anzi tornare
indietro, sull'onda anche del dissesto ambientale creato dal
"miracolo economico" degli anni precedenti, e della crisi
energetica dei primi anni settanta, considerati da taluno la prima
avvisaglia del medioevo prossimo venturo ().
Il
termine "ecologia" è stato introdotto per la prima
volta nel linguaggio corrente da Ernst Haeckel. Nel 1868, nella sua Storia
naturale della creazione, Haeckel [alias]
definiva l'ecologia come «lo
studio dei rapporti tra l'essere vivente e l'ambiente che lo
circonda; definizione che può ancora essere ritenuta valida
se
si tiene presente l'evoluzione che ha subito successivamente il
concetto di ambiente ().
L'ecologia rappresenta così una "spazializzazione"
della biologia, ovvere l'applicazione di metodi di analisi
interdisciplinare ad una data situazione,
ad un dato luogo,
precisi e delimitati e localizzati, in parte fisico-chimici
(ciò
che viene chiamato biotopo),
in parte biologici (ciò che viene chiamato biocenosi).
Di
questo qui-ed-ora ecologico, cui viene dato il nome di ecosistema,
non vengono studiate soltanto le
caratteristiche, la morfologia e le componenti, ma anche le tendenze
evolutive, le condizioni di equilibrio e disequilibrio, la storia
passata, le reazioni al mutare di alcuni fattori, etc.
Appare
così evidente come sia estremamente grande il numero delle
discipline implicate nello studio dell'ecologia, dalla chimica alla
climatologia, alla geologia, alla meteorologia, alla paleontologia, a
tutti i rami della biologia stessa, tra cui genetica, etologia,
istologia, dietologia, biochimica, botanica, zoologia, agraria. I
dati che queste dscipline forniscono vengono poi trattati ed
estrapolati in base ad una tipica analisi sistemica. Ritroviamo
così
in campo ecologico una serie di concetti di uso frequente in tutti i
campi descrivibili in termini cibernetici: modello, stato, storia di
stati, sistema aperto e chiuso, autoregolazione, retroazione positiva
e negativa, equilibrio, livello di astrazione, simulazione, etc.
A
partire dall'ecosistema in astratto vengono inoltre definiti, oltre
al biotopo e alla biocenosi, l'habitat (ovvero
l'insieme dei biotopi in cui un organismo può vivere,
in quanto possiedono tutti i requisiti necessari alla vita dello
stesso), la nicchia ecologica ("parte" dell'habitat
in cui vive una data specie, ovvero
l'insieme dei rapporti di questa con l'ecosistema), la successione
ecologica (la trasformazione
evolutiva di una data biocenosi), il climax (stato
di massimo sviluppo in condizioni di equilibrio) (),
che sono le principali categorie analitiche dell'ecologia moderna,
cui va ancora aggiunta la valenza ecologica,
ovvero la maggiore o minore capacità di un organismo ad
adattarsi a variazioni dell'ambiente ().
Va
sottolineato che l'ecologia non si oppone minimamente ad un
intervento dell'uomo sull'ambiente. Al di là della
considerazione ovvia che l'ecologia, in quanto scienza (e quindi
insieme di proposizioni descrittive e non normative)
non si "oppone" nemmeno all'inquinamento generalizzato ed
al suicidio collettivo per avvelenamento, ma ci dice soltanto quali
saranno i risultati di dati fattori, dopo di che sta a noi decidere –
ciò è vero anche in un senso
più
profondo.
L'ecologia
infatti, proprio in quanto scienza,
ricerca e determina "definizioni operative" dei propri
oggetti di indagine, elabora modelli che permettono previsioni di
approssimazione crescente, analizza le relazioni causali all'interno
dei sistemi studiati. Ovvero, come ogni altra scienza, fonda una
propria tecnica che
permette, anzi, crea una situazione di
appropriazione e dominio dell'uomo sull'oggetto
studiato, in questo caso l'ambiente, l'ecosistema, la natura.
E'
così solo per uno scivolamento semantico,
pur tutt'altro che insolito, che a partire dagli anni settanta il
termine stesso di ecologia finisce per rimandare all'ideologia che
può essere definita ecologista,
ideologia che ha espressioni proprie, ma che è presente, in
forma diluita, in tutta la cultura dominante e, ad esempio,
praticamente in tutti i partiti politici italiani. La tesi centrale
di questa, secondo Hans-Magnus
Enzensberger [alias],
si esprime così: «le
società industriali della terra producono delle
contraddizioni
ecologiche che le condurranno (necessariamente) alla rovina in un
avvenire prossimo». Affermazione che traspone le affermazioni
di Marx dal dominio economico al
dominio "naturalistico": nello
stesso modo in cui si riteneva che le contraddizioni interne del
capitalismo avrebbero portato alla sua perdita, le "contraddizioni
ecologiche" dovrebbero portare alla fine del mondo o perlomeno
della "civiltà delle macchine".
Domina
così un'idea della Natura astratta ed universalista,
percepita
da un lato come statica, immutabile, da sempre e per sempre data,
dall'altro come nettamente separata, anzi in opposizione
all'uomo rispetto all'uomo e alla cultura,
trascurando il fatto che l'uomo, in quanto essere vivente, della
natura fa comunque parte, per quanto vi sia chi
arrivi a sostenere che la nostra specie
è un "incidente", una manifestazione "patologica"
o un "cancro". In realtà, però, è la
stessa scienza ecologica a rimettere in discussione questa visione paradisiaca
(non
estranea del resto al fatto che i suoi propugnatori vivono come tutti
gli intellettuali occidentali in un ambiente iperprotetto), nel
momento in cui ci mostra come gli ecosistemi evolvano e decadano,
come gli equilibri che si vengono a creare siano in realtà risultanti
dinamiche provvisorie,
che possono variare e variano nel tempo anche senza nessun intervento
"umano", risultanti dalla lotta di tutte le specie (o
meglio dei loro geni) per mantenersi ed espandersi, e dai caratteri
di quel biotopo in quel momento dato.
Non
esiste in realtà alcun equilibrio naturale
prefissato ed indefinitamente autosufficiente che possa essere
"turbato". Il successo dei mammiferi, evento certo non
provocato dall'uomo, ha "distrutto" in un certo senso
l'equilibrio precedente dell'ecosistema, creandone uno nuovo. Al
contrario, l'immigrazione di una specie straniera in un dato habitat
può provocare teoricamente la scomparsa della maggiorparte
delle forme di vita di quell'ambiente, magari compresa alla fine la
stessa specie estranea. Fenomeni di inquinamento, ad esempio a
seguito delle eruzioni vulcaniche o del rilascio di idrocarburi negli
oceani, si verificano anche spontaneamente, creando sterilizzazione
di zone limitate o potenti spinte selettive verso l'adattamento degli
organismi presenti. Alcune specie animali, d'altra parte, tendono
spontaneamente all'estinzione: una decisione umana di tenerle
forzosamente in vita, in sé perfettamente legittima, non
è
però di per sé più "naturale" della
scelta di eliminare una specie di per sé vitale, come quella
dell'agente patogeno del vaiolo.
Inoltre,
questa idea stessa della Natura parte da esperienze di un mondo che
conosce già da millenni, come abbiamo visto, l'intervento
plasmatore dell'uomo. La natura di per sé non è
né incontaminata, né
benigna, né adatta, ma solo adattabile,
alla vita
umana. Chi la immagina come un incrocio tra uno zoo, un giardino, un
frutteto e un campo da golf, non si rende conto di quanto sia
influenzato da un quadro che è già
opera dell'uomo. Abbiamo notato come il parco
di Versailles non è di per sé
più naturale del relativo
castello.
La creazione di spazi agricoli e la rotazione delle colture,
praticata da tempi immemorabili, permettono un ciclo continuo di
scambi tra il terreno e le coltivazioni che assicura una
continuità
di rendimenti elevati assolutamente "innaturale", come lo è
l'irrigazione, o la bonifica dei terreni paludosi. Il fuoco di legna,
con tutti i significati psicologici e simbolici che lo stesso possa
rivestire, è un sistema di riscaldamento tragicamente
inefficiente, altamente inquinante e dai costi forestali ed
idrogeologici elevatissimi. Le economie tradizionali, o di penuria,
creano i danni ambientali propri ad un'economia di spoglio –
in cui il fattore ambientale viene appunto considerato come un dato
da sfruttare per quanto possibile, non come una variabile su cui
agire o una risorsa da gestire –, e la
loro generalizzazione e riadozione
ai livelli attuali di
popolazione mondiale condurrebbe verosimilmente a scenari
catastrofici.
In
ogni modo, gli ecologisti non riuscono per lo più a trovare
un
accordo preciso né sulla data del crollo finale che si
presenterà in mancanza di un radicale mutamento della
situazione attuale, né sulla possibilità, ed
eventualmente sul modo, di evitarlo. Nell'ambiente ecologista si
arruolano così ben presto neomarxisti e socialdemocratici;
ecologisti "liberali" che sognano una repubblica di saggi
governata dall'amore universale e dalle "tecniche dolci";
quelli "all'americana", tra droghe psichedeliche, comunità
rurali, paccottiglia metafisica e orientalismo; i fautori del
localismo esasperato come quelli del governo mondiale, sino che si
arriverà più tardi ai teorici dell' "ecologia del
profondo", che vedono nell'ecologismo un nuovo paradigma
universale alla cui luce ripensare il significato generale della
presenza dell'uomo nel mondo, da essi declinata nel senso ambiguo di
un apprezzabile rifiuto del dualismo monoteista e scientista che
però
ricade subito nella condanna della dimensione storica e prometeica
dell'uomo, lungo le linee consuete della visione del mondo dominante
(),
che vengono assunte anzi nella forma più estremista
dell'aperto auspicio di un ritorno umano alla "pura
animalità".
Dall'insieme
di tali punti di vista nascono in Europa come abbiamo detto i partiti
"verdi" (il cui spazio elettorale in Italia è stato
per un po' occupato dal Partito
radicale, ma che poi ha
visto anche da noi crearsi, scindersi e ricomporsi forze
politiche "specializzate"),
alcune piccole case editici, innumerevoli pubblicazioni come
l'italiana La
Nuova Ecologia o la francese La
Gueule
Ouverte, per non contare la
costituzione di gruppi di pressione e club di pensiero, il
consolidarsi della variante rappresentata dall'animalismo (che
costituisce in certo modo un'estensione coerente della
sensibilità
umanista ad almeno un certo numero di altre specie) e la penetrazione
nei quadri dei partiti della sinistra tradizionale, in cui la
componente "ambientale" comincia a partire dalla metà
degli anni settanta a rappresentare un centro di interessi e di
convergenze trasversali tra le varie correnti interne, ed a
costituirsi in area privilegiata della riflessione in materia
più
in generalmente biopolitica, su linee tendenzialmente reazionarie, di
tale settore politico.
Nello
stesso periodo, nell'ambiente dei Campi
Hobbit e del mondo giovanile del MSI girava del resto tale Alessandro
Di Pietro, esponente della corrente rautiana del partito, che
proprio in tali anni aveva creato un'effimera rivista intitolata Dimensione
ambiente, collegata ad un'organizzazione di massa,
più o meno immaginaria, o meglio fondata sulle medesime
risorse umane di un'altra miriade di sigle specializzate al tempo
fiorite nell'ambiente, e che ancora oggi in qualche modo pare
sopravvivere, chiamata Gruppi
di Ricerca Ecologica. Dimensione ambiente
faceva
d'altronde riferimento ad un più ambizioso ed
élitario
Centro di Ricerca Biopolitica, e –
parallelamente al
tentativo di accreditarsi con riguardo alle tematiche ambientaliste
da poco divenute scottante argomento di attualità politica –
diffondeva poster contro l'ingegneria genetica con l'immagine di Boris
Karloff nella parte della creatura di Frankenstein e lo
slogan «Fermate
il mostro». Molti
neofascisti ed ex-neofascisti, specie quelli che resteranno alla
destra dello schieramento politico italiano, continueranno con varie
altre componenti di tale area a schierarsi in prima fila
nell'opposizione alla "rivoluzione biologica", talora senza
percepire apparentemente la
tensione tra tali posizioni e l'eredità faustiana cui pure
dovrebbero in teoria partecipare, altre volte facendone anzi un tema
di esplicita polemica "interna" contro chi invece si rifà
apertamente a tale eredità nell'ambito del loro mondo ().
La
divulgazione "ottimistica" di Walter
F. Bodmer ed Alan Jones che in Futuro
biologico () descrivevano
all'inizio degli anni ottanta un mondo di terapie
genetiche, trapianti, protesi miracolose, cure contro la
sterilità,
diagnosi prenatale, allungamento della vita media, etc., rappresenta
perciò un'eccezione, e l'impegno militante liberal
o
conservatore risulta ugualmente accanito sia contro le prospettive di
applicazione pratica delle nuove scoperte che contro la ricerca pura.
Abbiamo
già ricordato il caso della psicometria, e della ricerca
riguardo all'ereditarietà delle caratteristiche e
capacità
mentali degli individui e delle razze, per cui sono stati crocifissi Jensen
e Eysenck
();
similmente, a suo tempo la rivista milanese l'Uomo
libero aveva ampiamente
registrato le questioni
insorte intorno all'etologia di Lorenz e Ardrey e compagnia (),
come prima ancora avevano fatto in Francia Eléments
[edizione
Web] e Nouvelle
Ecole; verso la fine degli anni settanta scoppia
altresì
lo scandalo della sociobiologia
(),
considerata un potenziale alibi per una politica di oppressione
sociale, che vide addirittura la fondazione di un Sociobiology Study
Group, con alla testa Richard
Lewontin [alias],
Jonathan Beckwith e Stephen
J. Gould (),
gruppo di studio... sulla sociobiologia ed i
sociobiologi –
dove "studio" significa in sostanza monitoraggio, denuncia
e ostracismo.
In
effetti, secondo il
lavoretto propagandistico già citato di Fuschetto,
«il
passaggio epocale segnato dalla rivoluzione genetica»
sarebbe identificabile con due presupposti: «1)
è possibile governare lo svolgimento dell'evoluzione
biologica
(prospettiva faustiana); 2) è
possibile ricondurre gran parte della natura umana a fattori genetici
(dogma sociobiologico)...
Occorre rilevare che l'importanza del passaggio di queste due considerazioni
in vere
e proprie convinzioni scientifiche
è di grandissimo momento proprio ai fini dell'organizzazione
sociale e della legittimazione politica» ().
In
realtà, il dibattito stesso "natura-cultura", su
cosa spetti all'una e cosa all'altra (),
risulta, in una prospettiva postmoderna, tendenzialmente superato
ed insignificante. I geni infatti non solo agiscono
direttamente sul nostro corpo e sulla nostra mente modellando la
nostra biologia, lo fanno anche indirettamente,
influenzando
l'ambiente che sperimentiamo, e ciò non solo a livello
culturale e macrosociale, ma persino a livello individuale. Scrive Gregory
Stock [alias]:
«Un ragazzo che
eccelle nello sport tenderà a gravitare verso
attività
atletiche, esattamente come uno che ama leggere di filosofia potrebbe
scegliere obbiettivi più intellettuali. Entrambi i ragazzi
finiscono per selezionare il proprio ambiente e le influenze che li
trasformano. Ciò avviene anche in modi meno evidenti. Un
bambino solitario e introverso quasi certamente genererà
reazioni diverse in coloro che lo circondano rispetto a uno socievole
ed adattabile. Così, viene in gioco un feedback che tende ad
autorinforzarsi: le nostre predisposizioni biologiche modellano il
nostro ambiente, che a sua volta sviluppa e rinforza le
caratteristiche verso cui tendono tali predisposizioni. Alcune delle
differenze che esistono nelle stime sull'ereditarietà del
QI,
per esempio, possono essere dovute alla diversa età dei
soggetti nei vari studi. Sappiamo oggi che nella tarda adolescenza i
gemelli identici allevati separatamente tendono ad essere ancora
più
vicini nel loro punteggio di quanto non lo fossero già
nell'infanzia, e ciò può dipendere esattamente
dalla
crescita con gli anni del loro potere di allineare le loro
attività
ed ambiente alle loro predisposizioni. Risultati simili emergono con
riguardo allo studio dell'ereditarietà di tratti come il
comportamento asociale»
().
In
ogni modo, il messaggio della sociobiologia non è certo
privo
di ambiguità, a cominciare dal fatto di fondarsi su un
acritico neo-darwinismo che non è possibile non giudicare scientificamente
superato (),
per finire con problemi più radicali, quale il riduzionismo
fondamentale della maggior parte dei suoi esponenti, che li apparenta
non a caso ai teorici del neoliberismo o della cosiddetta "analisi
economica del diritto" quali rispettivamente Milton
Friedman o Richard
A. Posner ().
Ciò
che qui interessa d'altronde non è solo quanto del pensiero
sociobiologico possa contribuire ad una prospettiva alternativa e
più
penetrante sulla vita dell'uomo, ma la condanna "morale"
che su di essa si è appuntata in quanto "antropologia",
ovvero scienza "blasfema", come tale portatrice di
un'ύβρις, ubris
suscettibile di trasformarsi in una "manipolazione", se non
altro mentale, dell'oggetto umano – ciò che
esattamente
dalla Bibbia
alla Scuola
di Francoforte [alias],
da Abramo ad Horkeimer, Habermas e Marcuse,
per arrivare a André
Glucksmann o a Bernard-Henri
Lévy [alias],
rappresenta il peccato originale da cui l'uomo andrebbe costantemente
difeso ed emancipato ().
In effetti, Gehlen è d'accordo con
la Scuola di Francoforte nel ritenere del tutto
superato lo schema tradizionale secondo cui l'uomo, per mezzo della sua
intelligenza, conosce il mondo e poi agisce di conseguenza. Scrive Maria
Teresa Pansera: «Per Gehlen, viceversa,
l'uomo conosce attraverso la sua azione, con un processo di reciproca
interconnessione tra attività percettiva ed
attività motoria. In altre
parole, è possibile per Gehlen comprendere
l'attività conoscitiva e
l'intelligenza, specificamente umane, sulla base del concetto di
azione: è radicamente sbagliato voler additare la differenza
essenziale
tra uomo e animale nell'"intelligenza"» ().
D'accordo è anche Marcuse
nel suo famoso pamphlet L'uomo a una dimensione:
«Il metodo scientifico che ha portato al
dominio sempre più efficace della natura [giunge]
così a fornire i
concetti puri non meno che gli strumenti per il dominio sempre
più
efficace dell'uomo da parte dell'uomo, attraverso il dominio della
natura» ().
Come aveva già giustamente
sottolineato Heidegger, la forma in cui si
presenta la tecnica
non è più quella di un semplice strumento, ma del
"destino" e del
"rischio" inerenti allo stesso essere dell'uomo ().
D'altronde, la mentalità biblica, e i suoi prolungamenti
nella "teoria
critica" postmarxista o nei nouveaux philosophes,
provano tanto
orrore quanto i Karl Popper [alias]
o le Hannah
Arendt, pure allontanatisi dall'ortodossia religiosa ebraica
in
direzioni ben diverse da costoro, per l'esempio dei "fondatori di
città", che come Licurgo o Romolo osano scrivere le tavole
della legge e, nel tentare di creare un tipo
d'uomo, farsi dèi. Lo stesso "fallimento
del comunismo", e le
"degenerazioni totalitarie" dei regimi del socialismo realizzato,
vengono in effetti attribuite ad un'insufficiente sorveglianza contro
le tentazioni di questo tipo, cui va costantemente opposta l'Arca vuota dell'individualismo
irriducibile, che
si ritiene ormai meglio custodita dal liberalismo occidentale che da
pericoli tentativi di "scorciatoia per il paradiso".
Ma ancora più simbolica è la diffidenza per la
"sperimentazione
sull'uomo", non in senso macrostorico e sociale, ma semplicemente
scientifico, e ciò non tanto per preoccupazione per gli
individui
coinvolti, ma per la sua natura blasfema e per i risultati di
conoscenza empirica cui essa può eventualmente aspirare.
Anche
se l'edonismo individualista ad esempio non può per
principio opporsi a
quanto necessario alla ricerca medica (),
tale materia è circondata comunque da una forte
ostilità di massima,
anche quando oggetto della sperimentazione sono volontari, persone ad
uno stadio clinico disperato e senza alternative, condannati a morte,
embrioni, semplici cellule sessuali, tessuti o geni, o persino...
animali superiori; e regolarmente viene fatta balenare sullo sfondo
l'immagine dello scienziato pazzo che svolge ricerche proibite e
luciferine nel campo di concentramento nazista ().
Certo,
il Mercato può prescrivere di avvelenare esseri uomini
all'interno di
fabbriche occidentali o farli morire di fame nelle favelas alla
periferia delle grandi città, o giustiziarli nelle prigioni
americane,
o ancora bombardarli con uranio impoverito se sono rei di essere
cittadini di uno "Stato canaglia", ma l'esperimento scientifico
sull'uomo, che pure possa in ipotesi "salvare mille vite", merita
sempre un sospetto
particolare (). Gli esseri umani
è meglio
osservarli soltanto, ed anche i risultati di tali
osservazioni
vanno costantemente passati al vaglio di una critica di ordine morale
che impedisca di trarne conclusioni di carattere ideologico in senso
forte.
A
fronte di tali tentazioni, la ricetta sarebbe anzi la costante
"demistificazione" di qualsiasi discorso sull'Uomo,
doverosa in quanto appunto paralizzante rispetto ad ogni
velleità
di comprendere davvero e reinterpretare lo "specificamente
umano" in vista della creazione di un "uomo nuovo"
().
Senonché, l'interesse postmoderno ad esempio per la
sociobiologia è ben diverso da quello conservatore, "di
destra", che secondo le note accuse vedrebbe in essa una
legittimazione dell'ordine costituito e delle gerarchie in essere, e
risiede proprio nella inversa demistificazione "realista"
delle teorie che attribuiscono ai comportamenti umani ed alla
struttura delle società ragioni puramente esterne ed
occasionali (la Provvidenza, lo stadio storico della lotta di classe,
il progresso tecnico o del mercato...) che andrebbero a innestarsi su
una tabula rasa, che non solo
è puramente immaginaria (),
ma si considera comunque intoccabile quanto i frutti dell'Albero del
Bene e del Male.
La
logica mercantilista, umanista e globalista si ritrae perciò
smarrita rispetto alle prospettive che si aprono al "terzo uomo"
– paventando essa stessa l'applicazione meccanica
dell'impersonalità del Mercato, o al meglio di un
microedonismo individualista, al nuovo mondo –, e finge che
il rischio estremo cui il terzo uomo è
confrontato non
esista («andiamo avanti così, preoccupiamoci
dell'andamento in Borsa della società e speriamo che in un
modo o nell'altro tutto si aggiusti»); oppure si illude di
poterlo evitare con regolamentazioni puramente repressive ed
astensive («tagliamo i fondi alle ricerche, vietiamo le
applicazioni, e il problema se ne andrà»). Ma in
nessuno
dei due casi sa realmente cosa rispondere alle domande che tale
logica stessa si pone.
Scrive Rifkin:
«Nel riprogrammare i codici genetici della vita non rischiamo
una fatale interruzione di milioni di anni di graduale sviluppo
evolutivo? E la creazione artificiale della vita, non potrebbe
implicare la fine del mondo naturale ()?
Non sussiste il rischio di diventare alieni in un mondo popolato da
creature clonate, chimeriche e transgeniche? La creazione, la
produzione di massa e il rilascio su vasta scala nell'ambiente
naturale di migliaia di forme di vita manipolate geneticamente non
causeranno un danno irreversibile alla biosfera, facendo
dell'inquinamento genetico una minaccia ancora più grave
dell'inquinamento chimico e nucleare? [...] Cosa
significherà
essere uomini in un mondo dove i bambini vengono progettati
geneticamente e alterati in utero, e dove le persone vengono
identificate e potenzialmente discriminate in base al loro genotipo?
Che rischi corriamo quando cerchiamo di progettare esseri umani
"perfetti"?» ().
Del
tutto conseguenti sono le conclusioni che tira il paladino della
"fine della storia" Francis
Fukuyama: «La
minaccia più significativa posta dalle biotecnologie
contemporanee è la possibilità che esse finiscano
per
alterare l'umana natura, epperciò condurci in una fase
storica
"post-umana"... La natura umana modella e costringe i
possibili generi di regime politico, così che una tecnologia
abbastanza potente da rimodellare ciò che siamo avrebbe
potenzialmente perniciose conseguenze per la democrazia liberale e la
natura stessa della politica [...]. Dobbiamo usare il potere dello
Stato per impedire l'accesso a tecnologie che possano minare la
nostra attuale nozione di umanità, che potrebbero permettere
a
taluni di superare le limitazioni fisiche e mentali che oggi
conosciamo» ().
Conferma Stock [alias]:
«La presente
discussione contro l'"accrescimento dell'uomo" (human
enhancement) non è
ciò che
sembra. Non ha nulla a che vedere con la sicurezza medica, il
benessere dei bambini, la protezione del pool genetico umano. A un
livello fondamentale, è una questione filosofica e
religiosa.
E' una questione su ciò che significa essere umani, sulla
nostra visione del futuro dell'uomo»
().
Eppure le sfide della nostra epoca non sono eludibili,
non più
di quanto siano riusciti i pigmei o gli aborigeni australiani ad
"eludere" davvero, a lungo termine, l'avvento
dell'agricoltura o della lavorazione dei metalli ().
Con la fondamentale differenza che essi almeno hanno potuto godere
per secoli e millenni di una relativa segregazione, che oggi
nessun angolo del globo è più in grado di
garantire a
nessuno. I prossimi destini del mondo e della specie umana ne
coinvolgeranno in un modo o nell'altro tutti i suoi
membri.
Nota
ancora Rifkin:
«Le nuove tecnologie di manipolazione genetica sollevano una
delle questioni politiche più preoccupanti nella storia
dell'uomo. A chi, in questa nuova era, vorremmo affidare
l'autorità
di decidere qual è il gene giusto che dovrebbe essere
aggiunto
al patrimonio genetico e qual è il gene cattivo che dovrebbe
invece essere eliminato? Dovremmo investire il governo di questa
autorità? Le grandi aziende? I ricercatori universitari? Se
poniamo la questione in questi esatti termini, pochi di noi
riuscirebbero ad indicare un'istituzione o un gruppo di persone cui
affidare decisioni di una simile portata. Se comunque ci venisse
chiesto di approvare i passi avanti della nuova biotecnologia che
potrebbero aumentare il benessere fisico, emotivo e mentale della
nostra progenie, molti di noi non esiterebbero neanche un secondo a
dare la propria approvazione» ().
La
verità è che la visione del mondo individualista,
edonista e borghese non solo non può evitare le conseguenze
delle nuove possibilità aperte dalla biotecnologia, ma non
può
neppure moralmente ignorarle ().
Al tempo stesso, alle domande di Rifkin non c'è
soluzione
alcuna nell'ambito delle vecchie idee. Neppure un
"postmarxista"
come Rifkin, con l'accento sul "post", se la sente di
affidare il futuro della specie alle multinazionali, ad una classe di
chierici, ai capricci egoisti del consumatore, o a governi che oggi
non rappresentano altro, nella migliore delle ipotesi, che il
consiglio di amministrazione dei pochi servizi pubblici rimasti. E in
realtà solo una volontà storica
e politica in senso forte, solo la
capacità di pensare progetti millenari
ed epocali in un nuovo inizio, una nuova
"arcaicità"
()
basata su un'etica del superamento-di-sé, può
farsi
carico della sfida, e rallegrarsene, in nome se non altro dell'amor
fati.
Scrive Guillaume
Faye:
«L'attuale civiltà non può durare.
[...] In un
numero crescente di settori, la mentalità e l'ideologia del
mondo moderno, individualista ed egualitario non sono più
adeguate. Per affrontare il futuro, occorrerà ricorrere
sempre
più di frequente ad uno spirito arcaico, cioè
postmoderno, inegualitario e non umanista, che possa rifondare valori
primordiali. [...] I progressi della tecnoscienza, soprattutto
nel
campo della biologia [corsivo nostro] e
dell'informatica,
non si possono più gestire con i valori e le
mentalità
umanisti e moderni. [...] La disputa tra tradizionalisti e modernisti
è divenuta sterile. Non bisogna essere né una
cosa né
l'altra, ma archeofuturisti. Le tradizioni sono fatte per essere
purgate, scremate, selezionate. Molte di esse sono portatrici di
virus che esplodono oggi in tutta la loro virulenza. Quanto alla
modernità, essa non ha probabilmente alcun
avvenire»
().
Precisa
l'autore francese: «È inevitabile nel XXI secolo
l'accendersi di un conflitto tra le grandi religioni monoteiste
(Islam, cristianesimo, ebraismo, religione
laica dei Diritti dell'Uomo) e i progressi della tecnoscienza
biologica ed informatica. Kempf, nel suo libro La
revolution biolithique
spiega che la scienza sta per completare un "passaggio"
paragonabile a quello della rivoluzione neolitica che fece transitare
l'homo sapiens dalla
caccia e raccolta
all'allevamento, all'agricoltura e all'adattamento dell'ambiente alle
sue esigenze. Noi viviamo oggi una seconda grande mutazione, al tempo
stesso informatica e biologica. Questa rivoluzione consiste nella
trasformazione artificiale degli esseri viventi, nell'umanizzazione
delle macchine (i futuri elaboratori quantistici e soprattutto
biotronici), e nelle interazioni uomo-androide che ne
discendono».
E
ancora: «L'antropocentrismo e la definizione unitaria ed
indivisibile della "vita umana" come valore in sé,
che costituiscono i dogmi centrali delle religioni monoteiste
così
come delle ideologie egualitarie della modernità entrano in
brutale contraddizione con le possibilità offerte dalla
tecnoscienza, e in particolare con l'alleanza "infernale"
di informatica e biologia. Un conflitto su larga scala
opporrà
i laboratori ai dirigenti politici e religiosi che tenteranno di
censurare e limitare l'applicazione delle scoperte, probabilmente
senza riuscirci... Le gestazioni extrauterine in incubatrice, gli
androidi biotronici intelligenti e "parasensibili",
quasi-umani, le chimere (sintesi uomo-animale o animale-pianta i cui
brevetti vengono depositati negli Stati Uniti), i "manipoloidi"
o uomini transgenici, i nuovi organi artificiali che decuplicano le
facoltà naturali, la creazione di superdotati (o di
super-resistenti) tramite progetti di eugenetica positiva, le
clonazioni, etc., tutto ciò rischia di fare a brandelli la
vecchia concezione egualitaria e sacrale dell'"essere umano",
molto più radicalmente di quanto possano aver fatto Darwin
o le teorie evoluzioniste ().
La "fabbrica dell'uomo" è in via di realizzazione:
creazione di organi artificiali, procreazione assistita, stimolazione
delle funzioni organiche, etc.; e la confezione di macchine che
mettano in atto processi biologici (elaboratori neurali, microchip
basati sul DNA) è una prospettiva a breve termine. Sono
tutte le definizioni stesse dell'uomo, del vivente e della macchina
che è necessario riformulare. Uomini artificiali e
macchine animali...».
Nello
stesso senso rileva un autore "transumanista" come Gregory
Stock [alias]:
«Ad un primo
sguardo, la nozione stessa che noi potremmo divenire più che
"umani" sembra assurda. Dopotutto, siamo ancora
biologicamente identici in virtualmente ogni aspetto ai nostri
antenati che infestavano le caverne. Ma questa mancanza di
cambiamenti è ingannevole. Mai prima abbiamo avuto il potere
di manipolare la genetica umana per alterare la nostra biologia in
direzioni sensate e controllabili... L'arrivo di una tecnologia
sicura ed affidabile della linea germinale segnalerà
l'inizio
dell'auto-progettazione umana ad un nuovo livello. Non sappiamo dove
questo sviluppo ci porterà alla fine, ma
trasformerà il
processo evolutivo incorporando la riproduzione in un processo
sociale altamente selettivo che sarà molto più
rapido
ed efficace nel diffondere geni dominanti della tradizionale
competizione sessuale e selezione del partner... Molto prima della
fine di questo millennio avremo quasi certamente cambiato noi stessi
abbastanza da essere divenuti molto più che semplici
"umani"» .
E
ancora: «Molti
bioetici non condividono la mia prospettiva sulla direzione in cui ci
stiamo avviando. Immaginano che la nostra tecnologia potrebbe
diventare abbastanza potente da alterarci, ma che dovremmo sfuggirla
e rifiutare la trasformazione dell'uomo. Ma la rimodellazione della
genetica e della biologia umana non dipende da qualche cricca di
ricercatori diabolici nascosti in un laboratorio in Argentina ed
intenti a riprendere là dove Hitler ha lasciato. Le
possibilità a venire saranno l'involontario sottoprodotto di
ricerche ufficiali appoggiate praticamente da chiunque. Ricercatori e
clinici che lavorano sulla fecondazione in vitro, ad esempio non si
preoccupano molto dell'evoluzione futura dell'umanità, ma
stanno nondimeno accumulando i fondamenti necessari a concepire,
maneggiare, testare ed impiantare embrioni umani, il che
costituirà
un giorno la base per la manipolazione della specie umana»
().
Conclude Faye:
«Nel
XXI secolo, l'uomo non sarà più ciò
che era. Ne
seguirà un deragliamento delle categorie etiche dominanti
dagli effetti devastanti. Uno choc mentale, dalle conseguenze
imprevedibili, rischia di prodursi tra due mondi: quello della nuova
concezione biotronica e biolitica, e
quello della
concezione delle vecchie religioni monoteiste e della moderna
filosofia egualitaria dei Diritti dell'Uomo ().
Solo una mentalità neo-arcaica potrà sopportare
questo
choc, dato che un tempo non era l'uomo (o un Dio unico a sua immagine
e somiglianza) che era posto al centro del mondo, ma divinità
multiple, che potevano perfettamente incarnarsi in qualsiasi
forma di vita e che rappresentavano ciò cui l'uomo aspirava.
in un progetto di superamento-di-sé. [...] Ciò
rappresenta la fine dell'umanismo? Certamente».
Questo
per gli europei significa scegliere di rivendicare, di ricollegarsi
ad un'eredità che è loro specifica. Scrive Giorgio
Locchi: «Il mito [indoeuropeo della fondazione]
contiene un insegnamento implicito, fondato su un
giudizio di valore
specificamente indoeuropeo, che vuole che l'autenticità
dell'uomo risieda nella sua capacità di "prendersi in
mano", di "parlare" e di "agire" invece di
"essere parlato" ed "essere agito". A partire
dall'istante in cui l'uomo diventa cosciente di questa attitudine,
cioè a partire dall'istante in cui riflette sul suo potere
di autodomesticazione, una coscienza
superiore sorge, e tende immediatamente a realizzarsi come
tale nel fatto
sociale. All'uomo-soggetto generico (e spontaneo) dell'azione magica
esercitata su se stesso ()
s'aggiunge ormai l'uomo-soggetto specifico (e cosciente) dell'azione
esercitata sull'altro uomo» ().
Tale
processo oggi può essere rinnovato nel
passaggio
all'uomo autocosciente, che sia in grado di
superare in una
sintesi superiore la crisi del "secondo uomo", ed in
particolare la morale del Grande Rifiuto, dell'ewige Nein,
che
dopo duemila anni celebra oggi la sua egemonia a livello planetario.
La
minaccia disgenica
Del
resto, l'avvento possibile del "terzo uomo" coincide
sostanzialmente con il momento in cui vengono al pettine i problemi
che ci lascia in eredità il secondo. Abbiamo visto come
dalla
rivoluzione neolitica in poi, il contesto biologico dell'uomo
è
dato dall'interazione tra la natura e la
cultura che
egli abita, interazione che determina le caratteristiche che
consentono la sopravvivenza di un gruppo umano, ne definiscono
l'estensione, esercitano pressioni selettive sui suoi membri e ne
determinano l'eventuale successo o meno. Oggi, la natura
stessa è
divenuta integralmente cultura.
Scrive Jacquard:
«L'uomo vive in un mondo che lui stesso ha plasmato. Senza
rendersene conto, ha trasformato, tra le altre, le condizioni nelle
quali i geni vengono trasmessi da una generazione all'altra. Nel
perseguire certi fini, siano la guarigione dei bambini malati, la
produzione di energia o la stabilità sociale, può
rompere equilibri naturali e far scattare un processo che, a lungo
termine, può portare ad una catastrofe».
Un'enunciazione
di questo tipo è rara. Intellettuali e media cercano
semplicemente di "non pensarci". Nessuno è disposto
a lasciare che la propria sopravvivenza o quella della propria
discendenza siano determinati dalla capacità di sfuggire con
la corsa ad animali da preda, ma nessuno guarda con piacere alla
prospettiva di un mondo in cui gli arti inferiori si ritrovino
atrofizzati nello stesso modo in cui hanno cessato di essere
funzionali gli organi della vista delle specie animali che si sono
adattate a vivere nelle grotte. Contemporaneamente, esistono come
abbiamo già visto ragioni "morali" per disapprovare
il fatto che la conservazione dell'uso delle gambe nel genere umano
possa essere, anziché un fatto "naturale", il frutto
di una scelta culturale, fondata su ragioni fondamentalmente ideologiche
ed estetiche, e tradotta in
realtà
attraverso l'intervento deliberato sulle condizioni di vita cui il
gruppo è sottoposto e/o direttamente sul suo pool genetico,
mediante pressioni selettive del tutto artificiali o addirittura
mediante la manipolazione diretta delle sue linee germinali.
Il
riferimento ad un'atrofia generalizzata degli arti inferiori sembra
un'ipotesi estrema, ma l'esempio delle malattie con una componente
genetica assolutamente determinante e chiaramente documentata risulta
chiaro a chiunque ().
La fenilchetonuria,
dovuta ad un gene recessivo, colpisce oggi un nuovo nato su
undicimila. Negli individui omozigoti, ovvero che hanno ricevuto il
relativo gene sia dal lato materno che paterno, la fenilalanina
anziché essere eliminata si accumula nel sangue e nel
liquido
cefalo-rachidano, provocando un'idiozia progressiva e la morte. Da
circa trent'anni, ovvero da una generazione, gli effetti di questo
gene negli individui omozigoti, e perciò malati, sono stati
eliminati dalla medicina moderna, ove ne sia stata diagnosticata la
presenza, attraverso il semplicissimo rimedio di un regime alimentare
che riduca al minimo l'apporto di fenilalanina. In tal modo, le
persone affette sfuggono alla loro sorte "naturale", che
sarebbe quella di subire una degenerescenza cerebrale progressiva, e
di morire prima di procreare.
Alla
frequenza 1/11000 degli individui malati corrisponde la frequenta
1/105 dei "portatori sani", eterozigoti. Ora, dal momento
della "guarigione" dei bambini affetti, l'equilibrio
precedente viene rotto, ed il numero di persone affette è
destinato inesorabilmente ad aumentare.
È
bensì vero che, come nota Jacquard,
anche in caso di sopravvivenza generalizzata delle persone affette il
raddoppio della frequenza del gene, che comporta un quadruplicarsi
degli individui omozigoti ad ogni generazione, richiede in effetti
cinquanta generazioni, ovvero circa millecinquecento anni (cosa che
non si vede in verità cosa possa avere di così
rassicurante, se non per chi faccia propria la logica del "dopo
di noi il diluvio").
Il
processo è però ben più rapido per le
malattie
il cui determinismo genetico è legato al sesso, come
l'emofilia.
Come noto, il gene dell'emofilia è posto sul cromosoma X,
ovvero quello invariabilmente contribuito dalla madre. In Europa la
sua frequenza è di 1/10000. Perché sia
emofiliaca, una
donna, che per definizione di cromosomi X ne possiede due, deve
essere omozigote, avvenimento molto raro che statistiscamente si
verifica una volta ogni cento milioni; ma basta che un uomo ne
possieda uno sul suo unico cromosoma X perché si manifesti
l'affezione. La frequenza dei maschi malati è
perciò
pari alla frequenza del gene, uno su diecimila. Un semplice calcolo
mostra come la guarigione di tutti i malati porterebbe ad un
incremento nella frequenza del gene pari ad un ulteriore 1/30000 ad
ogni generazione, così da raddoppiare la frequenza della
malattia in un secolo!
Nondimeno,
per giungere alla frequenza di un maschio su mille, dovrebbero ancora
passare in effetti circa mille anni. È ragionevole
perciò,
dice Jacquard,
temere il pericolo di un declino genetico della specie quando nei
tempi in questione «l'Umanità
dovrà affrontare problemi ben più gravi, che
metteranno
a repentaglio la sua stessa esistenza»?
D'altra
parte, solo le malattie genetiche sino ad oggi censite con certezza
sono circa quattromila. Di queste, è
ragionevole
supporre che una parte progressivamente crescente finisca per
consentire al portatore una vita sufficientemente normale da
permetterne la propagazione alle generazioni successive ().
Tale
casistica è d'altronde ancora ristretta a caratteristiche obbiettivamente
e gravemente patologiche, che sono oggetto di
un determinismo genetico assoluto ().
Altre
e più ampie questioni sono poste
dall'ereditarietà di
tratti che predispongono a certe patologie; oppure
che
comportano tratti solo latu senso disgenici, o che
la maggior
parte delle persone considerebbe fortemente indesiderabili.
Un
ulteriore fattore di rischio disgenico riguarda ad esempio le
caratteristiche con una forte dominanza genetica di tipo quantitativo.
A che punto esattamente la diminuzione della
funzionalità del sistema immunitario, dell'acutezza
sensoriale, dell'efficienza del sistema nervoso, delle prestazioni
scheletrico-muscolari può essere considerata una "malattia",
o comunque inaccettabile? Il concetto stesso di malattia, come quello
di "normalità", è un concetto culturale, e lo
diventa ancora di più quando scompare o si attenua la
valenza
negativa in termini selettivi della relativa caratteristica.
Ciò
che sappiamo però con certezza è che quando una
data
caratteristica geneticamente influenzata smette di essere
selezionata, la stessa tende asintoticamente a diffondersi
all'interno della popolazione di riferimento. Come scriveva
già
Vacher de Lapouge (1854-1936), «l'evoluzione
dell'uomo non è terminata: finirà dio o scimmia?
È
la selezione che deciderà» ().
L'esempio
più significativo è quello del ritardo mentale.
Non a
caso i casi di ritardo grave generano un orrore istintivo nella
maggioranza delle persone che non si siano deliberatamente
autocondizionate in senso opposto per ragioni ideologiche: infatti,
mentre molte malformazioni e disfunzioni di origine genetica sono
sintomaticamente confondibili, almeno a prima vista, con postumi di
lesioni o affezioni geneticamente insignificanti (),
il ritardo mentale, a parte pochi casi di carenze nutritive
gravissime o altre patologie nella fase dello sviluppo, è
pressoché invariabilmente di origine genetica ().
Il mongolismo, o sindrome
di Down, mentre non è necessariamente ereditato
(la
maggior parte dei mongoloidi nasce da genitori perfettamente
normali), è certamente ereditario,
cioè
puntualmente trasmesso alla discendenza dei soggetti colpiti, ove
questi siano lasciati liberi di riprodursi – o magari
incoraggiati
a farlo. Ciò resta d'altronde ugualmente vero, come
dimostrano
i convergenti risultati della genetica e della psicometria, per le
possibili determinanti genetiche di tutti i gradi di
ritardo (o del resto acutezza) mentale.
Rimuovere
i fattori limitanti al potenziale riproduttivo dei soggetti che sulla
base di tutti i criteri concepibilmente adottabili, e secondo la
quasi totalità delle persone, possono essere considerati ai
gradini più bassi della distribuzione dell'acutezza mentale,
ma non necessariamente di altre caratteristiche compatibili con la
sopravvivenza, comporta poi conseguenze particolarmente esplosive.
Infatti,
se ogni gene vuole perpetuarsi e diffondersi, le strategie con cui il
risultato viene raggiunto sono come noto diverse. Per le specie
sessuate che conoscono vari gradi di cura parentale, una possibile
strategia può essere quella di un investimento unitariamente
molto elevato su un numero relativamente piccolo di discendenti,
mentre un'altra può essere quella di massimizzare
numericamente la propria prole a costo di ridurre l'investimento su
ciascuno dei suoi componenti. Ora, ammettendo che un gene che
codifica un tratto sfavorevole alla capacità di
pianificazione, di affermazione sociale ed di allevamento della prole
nel suo portatore sia in grado di influenzare tali strategie, o di
"allearsi" con geni che lo facciano, sembra verosimile che
lo stesso sia costituzionalmente portato a puntare le sue carte sulla
"legge dei grandi numeri"; o, in altri termini, a
compensare la qualità (che è
in ipotesi
pregiudicata dalla sua presenza) con la quantità.
Secondo
il detto popolare, «la madre degli idioti è sempre
incinta». Di solito, chi cita il proverbio vuole esprimere la
propria frustrazione per avere troppo spesso a che fare con persone
che giudica in tal modo, piuttosto che effettivamente riferirsi alle
abitudini riproduttive della categoria degli idioti. Una letterale
verità esiste però in tale detto, nel senso che
la
generazione, magari indiscriminata, di un gran numero di figli vivi
può effettivamente compensare statisticamente le diminuite
probabilità di successo e sopravvivenza a lungo termine, o
addirittura di sopravvivenza per più generazioni e in una
stirpe, di ciascuno di essi singolarmente preso. Ciò in
campo
umano corrisponde indiscutibilmente a ben note constatazioni inerenti
al comportamento delle classi socialmente sfavorite (ad esempio
appunto i proletari dell'epoca di Marx),
qualunque siano le ragioni e la giustificabilità della loro
situazione deteriore; ma coinvolge altresì in via
più
generale la presenza di circostanze che influenzano per il genitore
interessato la convenienza o sconvenienza riproduttiva di un elevato
investimento parentale unitario.
Ora,
nel momento che i fattori limitanti riguardo al risultato
riproduttivo netto di una strategia "quantitativa" vengono
meno, sembra inevitabile che il mero numero dei parti portati a
termine con successo diventi il fattore decisivo quanto alla
propagazione o mantenimento delle caratteristiche del genitore, con
un vantaggio decisivo per le caratteristiche indesiderabili di cui
sopra.
Naturalmente,
esiste la questione del perché in primo luogo i geni che
codificano caratteristiche sfavorevoli... esistano.
Una
parziale spiegazione, che costituisce però anche un fattore
di
notevole complicazione, riguarda la possibilità che
determinati tratti siano bensì geneticamente determinati, ma
derivino dall'interazione tra numerosi geni diversi, la cui
compresenza in un dato individuo è frutto in sostanza del
caso. Almeno venticinque geni sono ad esempio coinvolti nel fatto che
un topo si ritrovi ad avere denti particolarmente piccoli, e lo
sviluppo o meno dell'asma in età adulta pare legato in
alcune
specie di scimmie ad almeno centoquarantanove geni diversi ().
Quando l'interazione non si verifica, l'espressione di tali geni
nell'organismo può mancare o essere del tutto diversa ()
Ancora,
una tara genetica può dipendere dalla mancanza
di un gene. La sindrome
di Wolf-Hirschorn, che
provoca numerosi difetti congeniti, è provocata ad esempio
da
un cromosoma cui manca un intero pezzo ().
Più
in generale, per molte caratteristiche la risposta è appunto
che esse sono bensì ereditarie, ma non ereditate,
ovvero si ripropongono semplicemente attraverso il ripetersi
di mutazioni spontanee o altri incidenti nella replicazione del
codice genetico, come nel caso già citato della sindrome
di Down.
Per
altri casi una ragione spesso citata al riguardo consiste nei
vantaggi che talora ne ricavano gli eterozigoti, ad esempio nel caso
della resistenza alla malaria da parte degli individui che hanno
ricevuto da un solo genitore il gene dell'anemia
falciforme, non a caso particolarmente frequente nelle zone
endemicamente affette dalle febbri malariche.
Altre
considerazioni ancora vengono proposte con riguardo a caratteristiche
ereditarie più complesse, a livello di genetica delle
popolazioni. In questo caso l'esempio di prammatica è quello
della forte incidenza contemporanea del diabete
(sino al cinquanta per cento degli individui adulti) in alcune
popolazioni di indios della zona centramericana, che corrisponde
d'altronde a condizioni originarie di penuria e carestia perenne che
ha per millenni selezionato tali popolazioni per la sopravvivenza in
condizioni di ridottissimo apporto calorico; così che la
"tara" in questione non corrisponderebbe che ad un
cattivo adattamento a condizioni di relativa opulenza
– quanto
meno alimentare – introdotte dalla "civiltà
moderna"
nel modo di vita di tali popolazioni (),
"opulenza" la cui conservazione, come è ovvio, non
è
affatto garantita alla nostra specie per tutti i secoli dei secoli
().
Scrive Jacquard:
«Impedendo la scomparsa dei geni legati al diabete, il
progresso medico non compie quindi un'azione disgenica; al contrario,
salva un capitale che è senza dubbio inutile o male adattato
al giorno d'oggi, ma che potrebbe rivelarsi prezioso quando avessimo
in media un nutrimento meno abbondante» .
Ora,
tali argomentazioni presuppongono d'altronde, nella prospettiva
egualitario-universalista di chi le avanza, che chi denuncia il
rischio disgenico mirerebbe in realtà a ridurre
la
ricchezza del pool genetico della specie, eliminando o riducendo le
linee germinali "devianti", in vista di un modello umano
unico, "sano" e civilizzato. Ciò non ha nulla di
necessario; è vero anzi il contrario. Sfugge infatti al
genetista francese che il rischio disgenico consiste non solo nel
mantenimento di caratteri genetici altrimenti destinati ad essere
eliminati, ma altresì nella eliminazione o
rarefazione di
caratteristiche di per sé desiderabili, ad
opera della competizione (se
non altro numerica) dei primi; nonché nella
uniformizzazione globale dei fattori selettivi, che unitamente alla
progressiva attenuazione dei fattori di segregazione tra le
popolazioni, riduce e non aumenta la
variabilità tra le
stesse; e con tale variabilità riduce la ricchezza, la
capacità di adattamento, e in ultima analisi la
capacità
di sopravvivenza, della specie intera.
In
questo caso, è stato ben notato ()
come tecniche ormai banali o in via di diventarlo, come
l'inseminazione artificiale, la fecondazione in vitro, la clonazione,
la conservazione delle cellule riproduttive (ovuli, spermatozoi) o di
embrioni per un tempo indefinito, assumono un significato decisivo in
termini eugenetici proprio quanto alla capacità
dell'uomo
di conservare materiale genetico prezioso,
varianti e/o
combinazioni che possono andare perdute o che non sono "naturalmente"
destinate a riprodursi, o che sono minacciate da differenziali
demografici, e che costituiscono una ricchezza specifica da tutelare,
in vista esattamente della varianza intraspecifica,
individuale e popolazionale, che solo l'eugenetica
da fumetto
americano di Jacquard vorrebbe ridurre o
eliminare.
Neppure
la clonazione – che chissà perché
colpisce in modo
particolare l'immaginario egualitario in vista del rischio paventato
che gli uomini possano davvero diventare... tutti uguali ()
– comporta di per sé alcuna riduzione della
ricchezza
genetica o della varietà della specie. In effetti, oltre al
fatto che la clonazione consente studi sull'ereditarietà di
caratteristiche specificamente umane come l'"intelligenza"
senza la limitazione estrema imposta dalla necessità di
lavorare su gemelli monozigoti naturali (studi la cui potenziale
valenza in campo antropologico, sanitario, educativo, etc., non
può
essere messa in discussione che da chi ne tema i risultati), risulta
ovvio l'interesse a verificare come corredi genetici identici, e
magari appartenenti a individui fenotipicamente eccezionali sotto
qualche aspetto, possano esprimersi in contesti diversi,
illimitatamente rinnovabili ().
In
verità, l'obiezione che il prezzo di tali vantaggi sarebbe
una
maggiore "uniformizzazione" del genere umano – invero
paradossale da parte di una cultura che dell'uguaglianza vorrebbe
fare addirittura un valore – vale soltanto rispetto alla
scelta di
clonare in amplissima serie uno solo o pochi individui, e impedire al
tempo stesso la riproduzione a tutti gli altri.
Scrive Gregory
Stock [alias]:
«Il fatto stesso che
la clonazione umana è diventata il punto di raccolta
dell'opposizione rispetto all'emergere delle nuove tecniche in
materia di riproduzione enfatizza le difficoltà con cui tale
opposizione è confrontata. La clonazione umana è
principalmente un simbolo. Attrae solo una minuscola frangia. Neppure
esiste ancora. Non potrebbe esistere un bersaglio più facile
per il proibizionismo. E che restrizioni siano imposte o no alla
ricerca fa poca differenza, perché, come anche Fukuyama
e Kass non possono ignorare, se le
procedure per la clonazione umana non
arriveranno dalla porta principale, entreranno dalla finestra,
probabilmente come sottoprodotto delle ricerche pubblicamente
finanziate sulle cellule staminali dell'embrione... Tentativi di
prevenire la clonazione umana negli Stati Uniti sposteranno
semplicemente la ricerca altrove. Alla fine del 2002 il Regno Unito
ha annunciato che aggiungerà altri quaranta milioni di
sterline ai venti già investiti nella ricerca sulle cellule
staminali. Il Giappone ha costruito un grande centro a Kobe con un
bilancio annuale di novanta milioni di dollari. E Cina e Singapore si
muovono in questa direzione ancora più
aggressivamente»
().
In
realtà, l'individuo clonato comporta una perdita genica per
la
specie soltanto nel caso in cui la sua nascita corrisponda ad
un'estinzione del corredo genetico del potenziale partner
riproduttivo del genitore; cioè, solo nel caso che
tale
partner sessuale sia destinato da parte sua a non procreare
affatto in connessione alla scelta del genitore di dare vita
a un
clone. In mancanza di ciò, la riproduzione per
clonazione
non comporta un impoverimento più di quanto lo comporti la
naturale nascita di gemelli monovulari negli animali superiori e
nell'uomo, o la riproduzione partenogenetica tra gli animali
e le
piante che sono in grado di praticarla in alternativa alla
riproduzione sessuata ().
In campo animale, del resto, la clonazione è già
usata
tanto per perpetuare la stirpe di animali con caratteristiche
eccezionali quanto per contribuire a preservare specie sull'orlo
dell'estinzione ().
Similmente, la clonazione umana ben può essere
deliberatamente
utilizzata per preservare e diffondere
differenziazioni
desiderabili all'interno di una popolazione data, che magari
sarebbero altrimenti destinate a scomparire e ad essere riassorbite,
garantendone invece l'integrale trasmissione alla discendenza
immediata degli individui coinvolti, e la sottrazione alla roulette
genetica della riproduzione sessuale ().
L'idea
invece che non bisogna (pre)occuparsi di queste cose, perché
è
"meglio lasciar fare alla natura", da un lato non tiene
conto del fatto che lo spazio rimasto alla "natura" è comunque
e inevitabilmente sempre inferiore; dall'altro,
riesuma una curiosa fiducia nella Provvidenza cui non corrisponde
altro che il rifiuto morale della possibilità stessa che sia
l'uomo a potere e dover scegliere del proprio destino, come specie
e più concretamente come gruppo determinato
all'interno
della specie.
Scelta
che del resto non rappresenta null'altro che il compimento di un
processo iniziato con l'ominazione. L'importanza ai fini del successo
riproduttivo della capacità di partorire senza assistenza,
ad
esempio, è andata progressivamente scemando per tutta la
storia dell'umanità, ed è perfettamente possibile
immaginare che la stessa capacità di concepire naturalmente,
portare a termine una gravidanza e partorirne il frutto vada del
tutto perduta nelle generazioni future, così come da secoli
o
millenni il mais non ha più la capacità di
riprodursi
senza intervento umano ().
Ciò può essere irrilevante quando la procreazione
è
assicurata da altri mezzi. È d'altra parte legittimo
preoccuparsi del fatto che la sopravvivenza stessa della specie sia
garantita unicamente dalla costante disponibilità di tali
mezzi; o è anche possibile pensare che la
capacità,
"arcaica" ed eventualmente "inutile", di
riprodursi autonomamente meriti di essere preservata almeno in una
parte della popolazione per altre ragioni, magari di ordine culturale
o simbolico. Sia quel che sia, il processo descritto pone un
problema, di cui oggi conosciamo perfettamente i termini, e che
può
essere ignorato solo a seguito di una rimozione deliberata di ordine
squisitamente ideologico.
Se
la Provvidenza non ci dà più una mano, sappiamo
d'altronde a quale altro alibi affidarci, per evitare che l'uomo
possa giocare alla divinità: l'Economia. Rileva
così lo
stesso Jacquard che poche pagine prima
"virtuosamente" si preoccupava del
rischio che siano affrettatamente eliminate dal pool genetico della
specie le possibili "valenze positive" della
predisposizione genetica al diabete: «Notiamo soprattutto
come
il progresso medico ipotizzato [quello che consentirebbe di curare
una delle malattie genetiche più diffuse in Europa]
annullerebbe il carattere di 'tara' della mucoviscidosi; non si
tratterebbe più che di una affezione che richiederebbe
alcune
cure e che, per ipotesi, sarebbe guaribile. Il passaggio da 20.000 a
80.000 del numero di persone affette non costituirebbe un fardello
genetico, ma un fardello economico [corsivo
nostro]. Non
avrebbe un peso ridicolo in confronto ad altri fardelli economici
dovuti alle imperfezioni della nostra società?».
Continua
lo studioso francese: «Questo processo non è
diverso da
quello che si è svolto dall'alba dell'umanità, da
quando, divenuti Homo Sapiens, abbiamo reagito contro le aggressioni
dell'ambiente esterno escogitando comportamenti adeguati e non
aspettando passivamente che si verificasse una modificazione
genetica. L'invenzione del fuoco, l'uso delle pelli degli animali,
hanno certamente ostacolato l'eliminazione dei bambini che le
dotazioni genetiche rendevano meno capaci di lottare contro il
freddo. Il patrimonio genetico dell'Umanità, alla lunga,
è
risultato trasformato. La nostra fragilità è
senza
dubbio maggiore, ma sarebbe eccessivo considerare questa
fragilità
come un deterioramento genetico. Vivere artificialmente rientra nella
natura stessa della nostra specie; da quando ne abbiamo avuto il
potere, non abbiamo accettato di subire passivamente la selezione
imposta dall'ambiente; alle aggressioni e alle costrizioni imposte
dall'ambiente esterno abbiamo dato una risposta culturale e non, come
le altre specie, una risposta genetica; il progresso medico non
è
che la continuazione di tale risposta culturale; l'invenzione di un
antibiotico non è più "disgenica" della
invenzione del fuoco».
Tutto
ciò è perfettamente vero, ma la conclusione
dell'autore
che in sostanza il declino genetico sia "semplicemente da
accettare" certo non è l'unica possibile.
Ambiente
naturale, ambiente culturale e selezione
La
consapevolezza del "rischio disgenico" e la sostituzione di
un intervento artificiale alla selezione naturale
fanno
infatti da sempre parte del processo di autodomesticazione che l'uomo
compie su se stesso, o almeno della risposta culturale che a tale
sfida danno le culture storiche, e in particolare la cultura
indoeuropea. Molto prima che qualcuno pensasse alle conseguenze per i
gruppi umani delle leggi di Mendel [alias], il
monte Taigeto e l'αγωγή, agogé,
a Sparta, la rupe
Tarpea a Roma, le analoghe pratiche di esposizione dei
neonati
tra i Celti o i Germani, la stretta regolamentazione dei matrimoni
nell'India antica, rappresentano una forma certo rozza, ma
assolutamente ancestrale, di tale consapevolezza, che del resto
echeggia nella Repubblica di Platone ()
e nella Politica di Aristotele [alias]
così come in varie fonti del diritto romano ().
Ma la strutturazione stessa della società, e a livello delle
aristocrazie il mantenimento, del tutto "artificiale" e
deliberato, di stili di vita e valori selettivi
propri alla
società pre-neolitica, rappresentano essi stessi un elemento
di selezione direzionale, se non altro sessuale, che non può
certo essere sottovalutata.
Tale
intervento umano rappresenta del resto null'altro che la versione
"culturale" di moduli etologici ben descritti con riguardo
a varie specie animali, che le culture in questione tendono ad
imitare. Ricorda Adriana Del Prete, in un mensile di divulgazione
scientifica a larga diffusione: «Nel codice genetico di
alcune
specie di api è scritta un'istruzione che impone loro di
eliminare le larve malate. Le larve da miele sono interessate da
molte malattie, tra le quali un'infezione che le distrugge:
è
la peste americana. Alcuni alveari ne sono molto colpiti, altri meno,
e altri ancora ne sono del tutto esenti. È merito di questi
ceppi, che lavorano così: le api operaie addette alla "cova"
devono localizzare la cella di ogni larva ammalata, rimuovere il
coperchio di cera, estrarre la larva, trascinarla fino all'entrata
dell'alveare e gettarla nel cumulo dei rifiuti all'esterno! I
genetisti hanno verificato l'esistenza di due diversi geni: il primo
della individuazione-scoperchiamento, il secondo della
asportazione-eliminazione della larva infetta. I due geni cooperano e
ognuno da solo è assolutamente inutile. Il risultato di
questa
collaborazione è una concreta prevenzione della malattia: stomping-out,
identificazione ed eliminazione; si deve operare
per la salute della comunità. È il monito della
selezione naturale» .
Già Nietzsche [alias,
alias]
scriveva: «E' necessario
per la specie che il debole, il malriuscito, il degenerato
periscano»
().
E ancora: «Non è la
natura che è immorale quando è senza
pietà per i
degenerati: è la crescita del male fisico e morale della
specie umana ad essere al contrario la conseguenza di una
morale
malsana ed antinaturale. [...]
Non vi è solidarietà in una
società dove vi sono elementi sterili, improduttivi e
distruttori, che avranno d'altronde discendenti ancora più
degenerati di loro» ().
D'altronde,
se è vero che, come nota un po' schematicamente Vilfredo
Pareto, in una società di ladri il miglior ladro
è
re, i tratti culturali stessi di una comunità ne
determinano a lungo termine i tratti genetici, indirettamente
influenzando il successo riproduttivo dei relativi portatori. E di
questi tratti non fa parte solo la (in)dipendenza più o meno
accentuata, e "tecnica", da fattori selettivi naturali
quali malattie o carestie o predatori, ma altresì l'immagine
che tale comunità ha di sé e dei suoi ideali,
ovvero di ciò che più o meno consapevolmente
intende
fare di se stessa e dei suoi membri. Ciò infatti determina
come è ovvio le chances dei suoi singoli componenti quanto
al
fatto di lasciare dietro di sé una prole feconda,
nonché
alla qualità e quantità di tale prole.
Ciò
significa due cose: che qualsiasi cultura è in certo modo
una
"natura"; e che perciò nel presente della nostra
cultura possiamo leggere il futuro della sua base biologica.
Un
futuro forse lontano; certo tuttora vago allo stato delle nostre
conoscenze dei meccanismi coinvolti; su cui ovviamente tentativi di
intervento diretto presentano dei rischi e possono, come già
discusso, sortire effetti del tutto opposti a quelli auspicati. Ma
anche un futuro che – ove non ci piaccia quello che
è
possibile intravederne, rischi di estinzione compresi –
dovrebbe
indurci a riflettere, sia sulla struttura stessa della
comunità
interessata, sia sulle responsabilità al riguardo, che
sono
interamente nostre. Dire che "Dio
è morto" significa esattamente che non possono
più
essergli delegate tali responsabilità; né possono
esserlo al Mercato; né alla Natura.
Ciò
in relazione anche ai poteri del tutto nuovi di cui andiamo a
disporre. «Per figurarci che tratti vorremo per i nostri
figli quando avremo il potere di fare tali scelte, dobbiamo pensare a
lungo e fortemente a cosa siamo»,
scrive Stock [alias]
().
Aggiungiamo: a ciò che davvero vogliamo diventare. Meglio
ancora, nietzschanamente: a come rispondere all'imperativo di
"diventare ciò che siamo".
D'altronde,
è vero che se il gene mira semplicemente alla propria
propagazione ciò che invece è politicamente e
culturalmente rilevante è ovviamente il fenotipo –
le
caratteristiche oggettive delle popolazioni reali e concrete. Un
improbabile ricorso o fiducia "di destra" in una supposta
selezione naturale dovrebbe fare i conti con il fatto che gli effetti
della medicina moderna o degli antibiotici non sono di per
sé
distinguibili da quelli delle vaccinazioni, della profilassi, delle
bonifiche, di un'alimentazione corretta, dell'igiene, dell'educazione
fisica e dello sport di massa, tutte pratiche "salutari"
che di fatto eliminano od attenuano oggettive pressioni selettive
preesistenti – e pure pratiche promosse anche
e proprio dai regimi politici che nel secolo scorso
hanno fatto proprie più
pienamente preoccupazioni di tipo eugenetico ().
Le
stesse tecniche eugenetiche, in particolare quelle che tendono a
limitare il rischio di nascita di individui colpiti da tare –
nella
prima metà del secolo scorso attraverso il ricorso
all'anamnesi familiare dei membri della coppia e a deduzioni
mendeliane, oggi soprattutto attraverso lo screening genetico dei
genitori e la diagnosi prenatale – possono contribuire a
modificare il successo statistico di alcuni geni. Come nota Harry
Harris, «una donna con il gene dell'emofilia, cioè
una
"portatrice" sana, che rinuncerebbe ad avere figli per il
timore di avere maschi emofiliaci, soggetti a morire di emorragia al
minimo incidente, potrebbe scegliere di averne se sa di poter
prevedere ed abortire gli eventuali maschi emofilici e di poter
partorire una femmina o un maschio non emofiliaco, di cui risultasse
invece gravida» ().
Il risultato di una politica che oggettivamente elimina la comparsa
di una tara genetica rilevante può essere così
l'incremento (desiderabile, indesiderabile o
indifferente, ma
di cui va tenuto conto) del numero di individui eterozigoti e sani,
ma portatori del gene stesso ().
L'alternativa "naturale" è d'altronde... la presenza
di individui affetti da emofilia conclamata tra la popolazione
–
nonché, per estensione, di estese componenti della
popolazione
stessa affette da rachitismo, malaria, scorbuto, postumi del vaiolo,
etc.
Il
ricorso ad una "selezione naturale", che nel caso della
nostra specie appare del tutto mitica, rischia così di
essere
semplicemente funzionale alla creazione di popolazioni analoghe a
quelle che la natura provvede in effetti a "selezionare"
per i ratti, le erbacce o gli sciacalli.
Un'adeguata
risposta alla minaccia disgenica difficilmente potrebbe essere fatta
consistere in una scelta implicita a favore di una popolazione di
taglia medio-piccola, afflitta e sfigurata da carenze alimentari,
malattie debilitanti e parassiti, mediocre nelle sue prestazioni
psicofisiche ma capace di nutrirsi di immondizia, resistere in mezzo
ad un letamaio ed infestare qualsiasi ambiente, aggressiva ma
vigliacca, indiscriminatamente promiscua e stolidamente pigra, dalla
socialità indebolita al limite del cannibalismo, con una
vita
media brevissima – scenario questo in cui pure un'ipotetica
selezione "naturale" umana, magari post-atomica (),
si esprimerebbe al meglio. Per esempio, pestilenze endemiche o
innalzati livelli di inquinamento chimico, radioattivo o biologico
–
sempre naturalmente che fossero almeno marginalmente compatibili con
la sopravvivenza della specie – accentuerebbero certo la
resistenza
media dei sopravvissuti a tali fattori, ma difficilmente potrebbero
essere considerati come un fattore di miglioramento della salute
della popolazione coinvolta.
Konrad
Lorenz rileva come negli animali la "domesticazione"
comporterebbe la perdita di caratteristiche comunemente considerate
"nobili", e in linea di massima la riduzione dell'acutezza
sensoriale, la tendenza all'obesità, l'accorciamento degli
arti, la cronicizzazione di atteggiamenti e comportamenti
infantiloidi, la diminuzione delle risposte immunitarie,
l'incapacità
di sopravvivere in natura ().
A fronte di ciò può essere opposto il fatto che
frutto
di una selezione del tutto artificiale sono non
solo i
barboncini e i conigli di allevamento, ma gli alani, i levrieri, i
tori da corrida, i gatti siamesi, i purosangue arabi ed inglesi,
certo più "delicati" in termini di generica
capacità
di sopravvivenza dei brocchi, dei bastardini randagi o dei coyote, ma
che è davvero difficile considerare "inferiori" a
questi ultimi sotto qualsiasi altro profilo.
L'alternativa
non è perciò tra una selezione "naturale"
–
che sarebbe comunque... artificialmente mantenuta – da un
lato, e
l'abolizione dei fattori selettivi dall'altro; ma tra una
programmazione cosciente e deliberata delle caratteristiche (anche)
genetiche della popolazione di riferimento (),
e la determinazione di tali caratteristiche da parte di fattori
deliberatamente incontrollati o randomizzati o comunque sottratti ad
una scelta umana e politica (il mercato, gli "effetti
collaterali del progresso", la volontà divina,
l'imperativo morale di un umanitarismo indiscriminato a favore dei
membri di certe fascie sociali ed etniche dei paesi occidentali...).
Un
altro modo di vedere la minaccia disgenica consiste
nell'interpretarla come complesso di condizioni che nascondono,
impediscono o modificano un'espressività, arbitrariamente
assunta come "naturale", dei geni implicati (ad esempio,
attraverso la somministrazione di insulina ai malati, di quelli che
predispongono al diabete); con la conseguenza di rendere inefficaci o
distorcere non solo le ordinarie pressioni selettive, ma
altresì
la cosiddetta "selezione sessuale", ovvero quella legata
alle scelte ed inclinazioni dei potenziali partner riproduttivi, ad
esempio tramite la modificata "leggibilità delle
caratteristiche genetiche della controparte" che di per sé
comportano l'abbigliamento o la chirurgia estetica, i trattamenti
cosmetici e farmacologici, e più in generale stili di vita
orientati e culturalmente determinati .
La consapevolezza di tali potenzialità in termini di
"falsificazione" è
molto antica, e la cosa può non essere estranea al
particolare
significato sessuale della nudità,
specie femminile, in molte
culture. Una misura apertamente eugenetica era del resto l'abitudine
spartana di imporre alle fanciulle di mostrarsi a torso nudo nel
ginnasio agli uomini destinati a sceglierle, e lo stesso naturismo
tedesco all'inizio del novecento muoveva originariamente da
premesse analoghe. Non è un caso che tale ordine di idee
collida
direttamente con l'atteggiamento, non solo eventualmente sessuofobico,
ma ancora più generalmente e radicalmente anti-eugenetico,
di tutte le religioni monoteiste.
Esistono
d'altronde problematiche anche più complesse. Appare ad
esempio perfettamente possibile che i prossimi anni vedano, come
è
negli auspici delle già citate correnti del life-extensionism,
l'affermazione di tecniche che consentano il raggiungimento magari
non dell'immortalità biologica, ma di una
longevità più
o meno estrema rispetto ai valori attuali ().
Se si accetta l'ipotesi sociobiologica, singolarmente
anti-darwiniana, che l'invecchiamento e la morte stessa degli
organismi superiori e sessuati sono caratteristiche geneticamente
programmate, e in particolare funzionali alla perpetuazione e
sviluppo dell'informazione genetica attraverso l'eliminazione
periodica dei relativi "veicoli" ed il rimescolamento
continuo consentito dalla successione degli accoppiamenti e delle
generazioni (),
anche una novità di questo tipo potrebbe essere interpretata
esattamente come un fattore disgenico, con conseguenze di enorme
portata non solo in termini culturali, ma rispetto alle dinamiche
demografiche, all'invecchiamento della popolazione,
all'identità
stessa della specie, specie in riferimento alle dinamiche tra i
gruppi che la compongono ().
La
questione della sostenibilità di un tale mutamento pone
problemi che è difficile risolvere restando nell'ambito dei
valori egualitari ed umanisti, ad esempio se le tecniche della
longevità si rivelassero di un costo tale da impedirne,
anche
nel breve periodo (),
l'applicazione generalizzata, e/o da sottrarre risorse che sarebbero
diversamente destinate ad altri progetti sociali, per esempio quelli
concernenti l'assistenza sanitaria di massa ().
Che fare? Vietare incondizionatamente le tecniche in questione
(arrogandosi implicitamente il potere di decidere della morte
anticipata degli interessati) ?
Tentare di sottrarsi alla responsabilità di scegliere cosa
farne delegando all'uopo meccanismi pretesamente "automatici"
come il mercato (cosa che com'è ovvio rappresenta ugualmente
una scelta, soltanto più "inumana" di altre in
quanto in sostanza basata sul censo)?
Su
scala molto inferiore, siamo già di fronte a questioni di
questo tipo con riferimento al problema della distribuzione dei
farmaci contro l'AIDS nei paesi "in via di
sviluppo". Abbiamo da un lato il
monopolio brevettuale esercitato dalle multinazionali farmaceutiche
in forza di una legislazione protettiva che si giustifica per la sua
"razionalità" economica, cosa che consente in certa
misura di evadere il problema della scelta di valore. Dall'altro,
esiste l'esigenza "umanitaria" di distribuire sottocosto
tali farmaci, anche se questo nella logica del sistema attuale mina
ovviamente la capacità di autofinanziarne l'ulteriore
sviluppo. Le cose sono poi peggiorate dal fatto che i farmaci
suddetti non guariscono l'infezione, ma si limitano (entro certi
limiti) a aumentare l'aspettativa di vita delle persone infette, e
pertanto, in ultima analisi,... aggravano i costi sociali
dell'infezione stessa, ne consentono l'ulteriore diffusione nelle
popolazioni coinvolte, e prevengono lo sviluppo selettivo di un
più
alto grado di immunità o resistenza geneticamente
determinata
alla malattia!
Resta
naturalmente l'argomento per cui anche l'estinzione della specie
potrebbe essere considerata un prezzo accettabile per il rispetto di
esigenze di carattere essenzialmente morale, che vietano appunto
all'uomo di rendersi "simile a Dio" e assumere su di sé
la scelta del destino biologico della specie, o, più
direttamente e praticamente, della propria concreta
popolazione di
riferimento.
Nessuna
Provvidenza garantisce in effetti la sopravvivenza della nostra
specie a prescindere dalle circostanze ().
I dinosauri dominavano la Terra, e sono scomparsi. L'Homo
sapiens non è stata l'unica specie intelligente
dell'universo; senza
scomodare altri sistemi solari, sappiamo ormai con certezza che i
Neanderthaliani erano intelligenti, e che non erano una razza di
uomini, ma una specie diversa ();
e tale specie meno di trentamila anni fa
si è del
tutto estinta, come del resto sono oggi estinte la stragrande
maggioranza delle specie che in un'epoca o in un'altra hanno abitato
il pianeta (). A
maggior ragione, ed ancora più facilmente, può
estinguersi del tutto – tranne forse negli studi di qualche
paleontologo o archeologo o filologo del futuro – la singola,
specifica popolazione cui ciascuno di noi appartiene.
Specie
e razze
Quando
si discute di "popolazione di riferimento", in campo umano
pare sia oggi obbligatorio parlare esclusivamente della specie
– cui corrispondono all'altro estremo soltanto gli individui
singolarmente considerati.
La
"specie", almeno tra gli esseri viventi sessuati, ha
certamente una rilevanza tassonomica particolare, in quanto
è
per definizione tutto e solo il gruppo di individui entro cui avviene
uno scambio genetico diretto, in particolare attraverso la
capacità
dei suoi membri di procreare tra loro prole feconda; ma questo
–
anche senza contare il prevedibile e progressivo sfumare di tale
confine ad opera dell'ingegneria genetica – non è
ovviamente
l'unico raggruppamento possibile. Ciò non fosse altro che
per
il fatto che il destino delle stirpi e linee germinali che la
compongono non è affatto necessariamente unitario;
così
come non è affatto unitario il destino delle singole
caratteristiche presenti in una data specie, e della loro relativa
dominanza all'interno della specie stessa ().
La
logica di rimozione già descritta trova però
un'espressione saliente nell'eliminazione dal vocabolario del
concetto stesso di razza, come substrato
propriamente
biologico dei popoli e delle culture che essi esprimono. In effetti,
c'è chi ha seriamente proposto di bandire tale termine,
curiosamente però soltanto per le accezioni che riguardano
la
specie umana. In altri termini, è accettabile definire
siamese
o soriano un gatto, ma è doveroso riconoscere che l'homo
sapiens sarebbe l'unica specie affetta
un'incapacità
costituzionale di suddividersi in "razze" che abbiano una
qualsiasi base empirica riconoscibile allo zoologo o all'antropologo
(se non eventualmente per il pregiudizio ideologico "razzista"
di quest'ultimo) ().
Il famoso musicologo ed indianista Alain
Daniélou diceva già negli anni ottanta:
«Il
timore di infrangere tabù concernenti l'uso blasfemo di
parole
proibite fa sì che i più grandi scienziati,
sociologi,
biologi, psicologi, storici, impiegano sbalorditive circonlocuzioni
per evitare di essere accusati di eresia razzista, cosa che farebbe
immediatamente condannare la loro opera» ().
Ma
ritorniamo al testo di Jacquard già
più volte citato: «Fin da quando si è
cominciato ad osservare un insieme complesso come quello degli
uomini, si è avvertita la necessità di mettere a
punto
classificazioni, raggruppamenti che riferissero ad una stessa
categoria gli individui che sembravano più simili.
Affinché
tale classificazione abbia un senso biologico occorre naturalmente
che i caratteri che permettano di rilevare le somiglianze siano
ereditari e che presentino una certa stabilità da una
generazione all'altra. I primi tentativi di classificazione erano
necessariamente basati solo sui dati forniti direttamente
dall'osservazione: le forme e il colore della pelle degli individui;
queste classificazioni potevano essere sottili, tener conto di
parametri complessi, ma, per il modo in cui erano costruite, non
potevano che riferirsi all'"universo dei fenotipi". [...] A seconda
delle caratteristiche studiate (),
le classi o "razze" [le virgolette dell'autore servono
forse ad esorcizzare la parolaccia] così definite potevano
variare e c'erano vivaci polemiche fra coloro che come H. Vallois
consideravano 4 razze principali e 25 secondarie e quelli che ne
contavano 20, o 29 o 40...».
Annotazione
questa certo storicamente interessante, ma poco utile a negare il
valore operativo del concetto che l'autore attacca, posto che
esistono tuttora simili dispute in biologia sul numero o sulla
unitarietà di famiglie o generi o phyla, che per definizione
dovrebbero essere legati a caratteristiche ben più radicali
e
meno elusive di quelle che distinguono le varie razze all'interno
della stessa specie.
Continua
Jacquard: «Le scoperte della genetica hanno finalmente
permesso
di precisare la problematica, fornendo la possibilità di
dare
un contenuto più oggettivo al concetto di razza: una razza
è
un insieme di individui che hanno in comune una parte considerevole
del loro patrimonio genetico. In questo caso, si tratta di
caratteristiche intrinseche dei diversi gruppi umani, indipendenti
dalle loro condizioni di vita: la classificazione riguarda
l'"universo dei genotipi". Si può così
sperare di ottenere risultati chiari, che riscuotano un generale
consenso. Sfortunatamente il comportamento delle persone di scienza
in questo campo è stato quello, denunciato dalle Scritture,
di
"mettere il vino nuovo nelle botti vecchie", cioè di
interpretare osservazioni nuove secondo concetti vecchi. Nonostante
progressi notevoli nella conoscenza, la confusione degli spiriti
è
solo cresciuta».
Il
prosieguo dell'esposizione resta sul medesimo tono predicatorio e
moralistico: «Non è inutile, per cominciare,
mettere a
confronto questi due termini, razza e razzismo:
-
uno si riferisce a ricerche scientifiche, legittime a priori (),
basate su dati oggettivi: lo scopo è di mettere a punto
metodi
di classificazione degli individui che permettano di definire gruppi,
le "razze", relativamente omogenei;
-
l'altro richiama un atteggiamento dello spirito, necessariamente
soggettivo: si tratta di mettere a confronto le diverse razze
attribuendo un "valore" a ciascuna e stabilendo una
gerarchia.
È
evidente che le due attività sono distinte: si
può
cercare di definire le razze senza minimamente essere "razzisti".
Il più delle volte, però, questa
possibilità
rimane del tutto teorica. Il bisogno di dare una definizione delle
diverse razze è raramente motivato da un puro spirito di
tassonomista meticoloso di voler mettere ordine tra i dati; risulta
dal desiderio, così sviluppato nella nostra
società
[sic!] di differenziare dagli altri il gruppo al quale si appartiene.
Corrisponde all'idea platonica di "tipo". Possiamo definire
la specie umana, ma è difficile precisare nei dettagli il
tipo
umano ideale; sono necessari tipi diversi: il Bianco, il Negro,
l'Indiano, l'Esquimese, etc. [...] Una classificazione è
basata il più delle volte su un insieme di criteri, alcuni
oggettivi, altri soggettivi, che raramente non porta alla
compilazione di una gerarchia: le razze sono diverse, quindi alcune
sono "migliori" di altre. Si sa dove, seguendo questa
strada, sono potuti giungere certi dittatori».
L'epistemologia
di Jacquard è superata ed ingenua. Una categoria scientifica
è
significativa per il suo valore descrittivo ed operativo, non per la
sua corrispondenza ad una verità "oggettiva". Dire
che i triangoli perfettamente rettangoli di cui tratta la geometria
"non esistono" è un'affermazione vera, ma banale,
che lascia del tutto intatta la loro utilità concettuale, o
la
validità del teorema di Pitagora. Altrettanto stupido
è
contestare il valore del concetto di quadrilatero sulla base del
fatto che talora viene invece fatto riferimento più
genericamente ai poligoni (che li comprendono) o più
specificamente ai parallelogrammi (che non li esauriscono).
Parimenti, il pendolo ideale, la macchina di Turing, i gas perfetti,
l'accelerazione esattamente costante, sono cose "inesistenti",
che però è perfettamente lecito, e proficuo,
studiare.
L'attacco
all'approccio tipologico in antropologia, cui si associa ad esempio Theodosius
Dobzhansky [alias]
(),
è perciò giustificato unicamente nella misura in
cui
l'antropologo criticato abbia un'idea "realista", ovvero in
qualche modo neoplatonica, dei tipi razziali proposti e studiati,
come era il caso degli antropologi positivisti ottocenteschi che
ipotizzavano che le varianti intrapopolazionali potessero essere
spiegate unicamente con la mescolanza e l'ibridazione di tipi "puri"
suppostamente preesistenti.
Risulta
invece perfettamente plausibile l'operazione consistente
nell'identificare, isolare, estrapolare ed esaltare un modello, un
"tipo", sulla base delle differenze tendenziali di
un gruppo di oggetti, o in questo caso di una popolazione o di sue
componenti individuate a priori, rispetto ad un background costituito
da una classe o popolazione inclusiva, ad esempio la specie ().
Tale tipo "puro" è certamente un tipo ideale,
ed in un certo modo arbitrario, ma le sue connotazioni risultano
ancora più significative con riguardo alle razze selezionate
artificialmente – quali almeno in parte possono essere
considerate comunque le razze umane, per
definizione successive
all'ominazione. Il mastino
napoletano perfetto può benissimo non essere mai
esistito,
ma questo non rende particolarmente più difficile il lavoro
dell'allevatore, o della giuria di una mostra canina (né,
quando esistono canoni ideali sufficientemente condivisi, risulta
così difficile quello della giuria di un ordinario concorso
di
bellezza femminile, a prescindere dal fatto che il modello di
bellezza preso a riferimento possa non essersi mai perfettamente
incarnato).
Ad
ogni modo, è proprio l'idea universalista di
un'Umanità
unica e per ragioni morali "inscindibile", di un unico
"tipo" ideale per l'intera specie, che consente
eventualmente di stabilire gerarchie di valori in funzione del grado
di somiglianza e vicinanza di ciascuna popolazione ed individuo al
tipo suddetto.
In
tal senso, il riferimento di Jacquard a "certi dittatori" è
del tutto fantasioso: l'antropologia ispirata al nazionalsocialismo
mira da un lato all'identificazione (e al tempo stesso promozione) di
caratteristiche biologiche assunte come "superiori" o
"desiderabili" o "identificanti" all'interno
di una prospettiva etnoculturale e popolare ben definita, e del tutto
relativa; dall'altro alla loro difesa, ed affermazione
concorrenziale, rispetto alle altre macrorazze. Nessun
teorico
od antropologo nazionalsocialista, e tanto meno Adolf Hitler, si
è
è mai sognato di immaginare che i medesimi tratti razziali
dovessero essere propugnati o considerati "superiori" dal
punto di vista di un arabo o di un masai o di un giapponese, o che
fosse opportuna la loro diffusione all'interno delle relative etnie
–
magari attraverso un processo di ibridazione con la razza europoide
()!
Questa non è altro che la proiezione dei fantasmi
dell'etnocentrismo universalista, che può variare nelle sue
versioni anglosassone e giacobina, ma resta invariabilmente
"missionario", "democratico" e "civilizzatore",
e non aspira ad altro se non a "benevolmente" rendere tutti
uguali .
Persino Julius
Evola,
quello tra gli autori del razzismo fascista cui può essere
con
maggior fondamento attribuita l'idea ambigua di una Verità o
di una Tradizione metafisicamente fondate ed indipendenti da una
identità e soggettività collettiva, finisce per
concludere: «[La
nostra mentalità] non si pone il problema di ciò
che
sia il vero e il bene, ma si chiede per quale razza
una data concezione può esser vera e una data norma
può
essere valida e "buona". Lo stesso si dica nei riguardi
delle forme giuridiche, dei criteri estetici, perfino degli ideali di
conoscenza della natura. Una "verità", un valore o
criterio che per una data razza può esser valido e salutare,
per un altra può non esserlo, sì da condurre,
quando da
essa sia accettato, ad uno snaturamento e ad una distorsione»
().
Del
resto, scriveva già l'autore tedesco che più di
ogni altro ha ispirato al riguardo Evola,
ovvero Ludwig Ferdinand Clauss: «è
privo di senso ed antiscientifico voler guardare la razza
mediterranea con gli occhi della razza nordica e valutarla secondo la
scala nordica dei valori, così come insensato ed
antiscientifico sarebbe l'inverso. Forse Dio conosce l'ordine
gerarchico delle razze. Noi no. [...] Il valore oggettivo di una
razza potrebbe essere conosciuto solo da quell'uomo che stesse al di
là di ogni razza» ().
È
significativo del resto che mentre tutti i movimenti protofascisti e
fascisti si pongono, in gradi differenti, il problema della
composizione etnica e del substrato biologico della comunità
di riferimento, ciascuno di essi si riferisce al problema in
modo
diversificato, e storicamente e localmente determinato in rapporto
alla comunità di riferimento (la "nordizzazione",
la "razza italica", la "razza turanica". etc.),
pur nella riaffermazione e nel riferimento al discrimine di una
comune identità (indo)europea fondamentale; così
che in
tal caso davvero l'"amore per la differenza" si spinge sino
alla dimensione nazionale e regionale, e mira, come parrebbe logico,
ad aumentare le differenze, non a negarle in attesa
(e nella
speranza) di annullarle prima o poi del tutto!
Ciò
detto, l'esistenza delle razze umane rientra in un dato evidente di
comune esperienza, e può essere negata unicamente per
pregiudizio ideologico. Tale intuizione condivisa da tutti è
ben definibile , come ammette Jacquard, anche in termini
rigorosamente biologici.
«Cosa
significa classificare? La tecnica che consente di farlo è
stata messa a punto dai matematici, e consiste nel calcolare una
"distanza": due individui sono tanto più simili
globalmente quanto più piccola è la distanza fra
di
loro. Le formule che permettono di effettuare un simile calcolo sono
numerose: a uno stesso insieme di dati possiamo far corrispondere
diversi insiemi di distanze fra gli individui, a seconda che si
ricorra alla distanza "euclidea", alla "distanza
Manhattan" o alla "distanza del chi quadrato".
Supponiamo che dopo aver scelto determinati criteri di
classificazione e una formula per calcolare le distanze, sia stato
possibile determinare tutte le distanze di ciascun individuo e ognuno
degli altri (per quattro miliardi di individui il numero delle
distanze a due a due è dell'ordine di otto miliardi di
miliardi). Le "classi" che cerchiamo di definire avranno un
senso se le distanze fra gli individui di una stessa classe sono,
almeno in media, nettamente inferiori a quelle tra individui di
classi diverse. Il metodo più semplice, che senza dubbio
resta
il più vicino al ragionamento intuitivo, è quello
di
costruire un "albero": prima di tutto si uniscono i due
elementi più prossimi per costituire una classe formata da
questi due elementi, poi si riuniscono le classi più vicine;
il numero delle classi viene così a poco a poco ridotto,
finché non ne rimane che una che comprende tutto
l'insieme».
Prosegue
Jacquard: «Come utilizzare tale albero per definire le razze?
Dobbiamo ancora compiere una scelta, quella del numero delle razze,
numero necessariamente compreso tra 1 (la razza e la specie sono
allora confuse) e n (tante razze quanti sono gli
individui, il
che toglie ogni senso ai nostri sforzi). Se vogliamo distinguere x
razze, dobbiamo tagliare l'albero ad una certa altezza.
L'altezza
a cui tagliamo l'albero ha un senso preciso: rappresenta la perdita
di informazioni che si deve accettare per sostituire i dati iniziali,
che riguardano gli individui, con i dati globali che riguardano le
classi definite come "razze"».
Tale
perdita dipende dal numero di classi con cui si desidera avere a che
fare. Per non perdere nessuna informazione bisognerebbe restare
all'altezza zero, ovvero non effettuare nessun raggruppamento; se si
raggruppa l'insieme in un'unica categoria si perde viceversa la
totalità dell'informazione. «Non si tratta di
negare
ogni valore al risultato di una classificazione, ma essere coscienti
della sua relatività», conclude Jacquard.
Di
nuovo, giova però notare che la coscienza della
"relatività"
[pacifica] del risultato ottenuto non toglie affatto
validità
al risultato stesso. Non solo.
Ricorda Dobzhansky [alias]:
«Immanuel
Kant, che fu naturalista prima di diventare filosofo, scrisse
con
notevole intuizione nel 1775: "Negri e bianchi non sono specie
diverse di uomini (presumibilmente appartengono perciò ad
uno
stesso ceppo), però costituiscono razze distinte,
perché
ognuna si perpetua in ogni area di distribuzione, e i figli nati
dagli incroci sono necessariamente ibridi, o mulatti. D'altra parte,
biondi e bruni non sono differenti razze di bianchi, poiché
un
uomo biondo può anche avere da una donna bruna soltanto
figli
biondi, pur se ognuna di queste caratteristiche si conserva per molte
generazioni nonostante vari trapianti". In altri termini, Kant
comprese con chiarezza maggiore di certi autori recenti la
distinzione tra variabilità individuale (intrapopolazionale)
e di gruppo (interpopolazionale). [...] Servendoci
della
terminologia moderna, possiamo così descrivere la
situazione:
con l'unica eccezione dei gemelli monozigoti ()
due individui qualsiasi si differenziano per alcuni, e forse per
molti, geni. Genitori e figli, fratelli, parenti stretti e persone
senza apparenti legami di parentela presentano, in media, un numero
di geni diversi via via crescente. Il genotipo di un individuo
è
unico, senza precedenti e aperiodico. La fonte prima della
variabilità genetica individuale è la
segregazione
mendeliana in popolazioni a riproduzione sessuata ed esogame. Un
individuo è eterozigote rispetto a molti (probabilmente
migliaia o decine di migliaia) dei suoi geni. È improbabile
che due qualunque delle cellule sessuali da lui prodotte contengano
esattamente lo stesso assetto genetico; ugualmente differenziate sono
le cellule del partner; gli zigoti (i figli) che daranno alla luce
saranno, di norma, eterozigoti e diversificati per lo stesso numero
di geni dei genitori» ().
Continua Dobzhansky [alias]:
«Con la variabilità di gruppo le unità
di
indagine non sono più i singoli, ma insiemi di individui
biologicamente e geneticamente imparentati, ovvero le popolazioni.
[...] Un individuo ha due genitori, quattro nonni, otto bisnonni, e
così via. Già in una trentina di generazioni il
numero
degli antenati di ciascuno di noi supera la popolazione mondiale
attuale. Naturalmente tali numeri non sono mai esistiti. Malgrado le
limitazioni agli incroci più immediati frapposti dal
tabù
dell'incesto, tutti i nostri progenitori sono parenti più o
meno alla lontana. Anche se siamo in grado di documentarlo solo in
pochissimi casi, tutti gli esseri umani sono imparentati. Se
riuscissimo ad elaborare un pedigree completo della specie umana, ne
risulterebbe un intricato reticolo sul quale ogni individuo sarebbe
più volte concatenato a tutti gli altri. Il genere umano
è
una popolazione mendeliana complessa, con un pool genetico comune. I
geni di ogni individuo discendono dal pool, e, a meno che muoia senza
prole, una parte vi farà ritorno».
E
ancora: «D'altronde, l'umanità non è
una
popolazione panmittica, cioè una
popolazione ove ogni
singolo membro ha l'identica probabilità di accoppiarsi con
qualunque altro individuo del sesso opposto e dell'età
adatta.
[Persino oggi,] è molto più probabile che un
ragazzo
nato in Canada sposi una ragazza canadese che una cinese o una
ugandese. Al pari di molte specie animali e vegetali a riproduzione
sessuata, gli uomini si differenziano [geograficamente e per altri
fattori] in popolazioni mendeliane secondarie; il matrimonio tra
consanguinei nell'ambito di una popolazione secondaria è
più
frequente che tra popolazioni diverse. L'umanità, come
specie
biologica, è la popolazione mendeliana inclusiva. Al suo
interno, troviamo una gerarchia di popolazioni mendeliane secondarie,
parzialmente isolate tra loro per motivi geografici e nel nostro caso
culturali. Soltanto le ripartizioni più piccole –
abitanti
di qualche villaggio, membri di una stessa classe sociale all'interno
di una piccola città – si possono considerare
approssimativamente panmittiche».
Le
razze corrispondono in questo senso all'astrazione delle
caratteristiche identificanti di popolazioni mendeliane secondarie
all'interno di una medesima specie ().
Ora,
un certo grado di segregazione riproduttiva
rappresenta
un elemento fondamentale per il mantenimento – se non di per
sé
sufficiente per la creazione – di tali popolazioni ().
Lo studio della differenziazione genetica di popolazioni
intraspecifiche resta comunque assai complesso. Sono stati in
particolare suggeriti tre modelli fondamentali. Il primo, il
più
maneggiabile da un punto di vista matematico, è quello
dell'"isola"; gli altri due sono il modello
dell'isolamento progressivo in funzione della distanza su
un'area
uniformemente abitata, e il modello del "trampolino".
Il modello dell'isola presuppone che la specie sia formata da colonie
discrete in cui prevale la panmissia, ma che ricevono una frazione m
di immigranti provenienti dal resto della specie. L'isolamento delle
isole può variare nel tempo e nello spazio, con m
oscillante da zero (isolamento completo) a uno (nessun isolamento).
Se gli "immigranti" provengono – come spesso si verifica
in pratica – da colonie vicine anziché
indistintamente dal
resto della specie, abbiamo il modello del trampolino. Nell'uomo si
riscontrano situazioni conformi a tutti e tre i modelli, e anche agli
stadi intermedi tra di essi ().
Gli
studi classici nel campo delle popolazioni umane restano quelli di Cavalli-Sforza [alias]
(),
cui è tra l'altro capitato di studiare la "migrazione
matrimoniale" tra città e villaggi della diocesi di
Parma, così come Harrison ha analizzato i dati disponibili
relativamente alle comunità dell'Oxfordshire inglese ().
Entrambi gli autori hanno constatato che nei dati disponibili la
probabilità di matrimonio è una funzione
esponenziale
negativa della distanza reciproca dei villaggi, ed è anche
una
funzione della dimensione dei villaggi stessi: più numerosa
è
la popolazione di un villaggio, maggiore è il numero dei
potenziali compagni ivi contenuti. Un altro fattore importante della
mobilità matrimoniale e sessuale, e di conseguenza del
flusso
genico tra popolazioni mendeliane, è non soltanto la
distanza
fisica, ma la facilità di spostamento. Nelle
comunità
studiate da Cavalli-Sforza,
ad esempio, è stato possibile mettere in relazione la
maggiore
mobilità, e anche la più elevata
densità di
popolazione, che si riscontra in pianura con la differenziazione
genetica degli abitanti dei vari paesi.
Nel
1969, Neel e i suoi collaboratori
effettuarono studi sulla frequenza di
venticinque geni differenti in trentanove villaggi della
tribù
Yanomama dell'Orinoco superiore in Venezuela ().
Per parecchi geni si registrarono differenze molto sensibili a
seconda del villaggio considerato. Cavalli-Sforza attribuisce tali
eterogeneità alla deriva genetica, non
essendo plausibile ipotizzare differenze locali a livello di
selezione naturale per popolazioni stanziate su un territorio
sostanzialmente identico. Secondo Neel,
«queste differenze riflettono principalmente il modo in cui
ebbero origine i nuovi villaggi», e ci raccontano
perciò
in sostanza la storia della regione.
Quelli
precedenti sono d'altronde esempi di differenziazione microgeografica
di popolazioni secondarie della specie umana. Certo, come osserva Dobzhansky [alias],
la differenziazione macrogeografica si distingue
quantitativamente più che qualitativamente: «Le
popolazioni umane vivono in un'ampia varietà di ambienti
fisici e culturali. Popolazioni insediate in differenti continenti e
porzioni delimitate dello stesso continente spesso presentano molti
geni dissimili; di conseguenza si diversificano in molte
caratteristiche morfologiche e fisiologiche. In altre parole,
l'umanità è un aggregato di popolazioni distinte
in
senso razziale».
La
genetica delle popolazioni porta un contributo originale
all'identificazione e definizione delle identità razziali
suddette; contributo che si aggiunge,
più che sostituirsi,
al modello tipologico già discusso. Le popolazioni
mendeliane
possono essere descritte in termini di incidenza di caratteristiche
separate, ed idealmente di alleli di geni varianti ().
In effetti, se si riportano su un grafico le frequenze di alleli
genici o di caratteristiche fenotipiche distinte, si osservano
regolarmente gradienti o clini di frequenze crescenti o descrescenti
verso qualche punto centrale, simili ad isobare genetiche.
Osserva
ancora Dobzhansky [alias]:
«L'allele 1B del sistema dei gruppi
sanguigni fondamentali (A, B, 0) raggiunge nell'Asia centrale
e
nell'India settentrionale frequenze comprese tra il 25 e il 30%. Le
sue frequenze declinano verso occidente al 20-25% nella Russia
europea, al 5-10% nell'Europa occidentale e si abbassano ancor
più
in alcune zone della Francia e della Spagna. Le frequenze
diminuiscono altresì in direzione sud-est, sino a giungere
praticamente a zero tra gli aborigeni australiani, e in direzione
nord-est sino al 10% tra gli esquimesi, per annullarsi di nuovo tra
gli amerindi puri. Il centro della pigmentazione chiara della pelle e
degli occhi si trova in Europa nord-occidentale: la pigmentazione si
scurisce verso est ma soprattutto verso sud, raggiungendo il massimo
nell'Africa sub-sahariana, nell'India meridionale e nella Melanesia.
L'indice di Roher (peso corporeo diviso per il cubo dell'altezza)
arriva ai valori massimi tra gli esquimesi ed è al minimo in
Asia meridionale, in Africa e in Australia».
Tali
dati meritano un'analisi più approfondita, che come abbiamo
detto aggiunge qualcosa di significativo all'analisi tipologica. Se
la risultante complessiva di tutti i possibili gradienti genici o la
variazione nella distribuzione delle caratteristiche fenotipiche
fossero uniformi, le frequenze geniche aumenterebbero o
diminuirebbero regolarmente di tante unità percentuali per
tanti chilometri percorsi in una data direzione. Con gradienti
uniformi i confini delle razze potrebbero essere soltanto arbitrari;
e le razze sarebbero unicamente un modello "ideale". Al
contrario, spesso i gradienti sono molto ripidi in alcune direzioni o
zone, e più dolci od assenti in altre.
Conclude Dobzhansky [alias]:
«Consideriamo due alleli genici, A1 e A2 in una specie con
un'area di distribuzione di 2100 chilometri. Supponiamo che per 1000
chilometri la frequenza di A1 declini dal 100 al 90%, per i
successivi 100 chilometri dal 90 al 10, e per i restanti 1000 dal 10
allo 0%. Chiunque vede che è ragionevole e conveniente
dividere la specie in due razze, rispettivamente caratterizzate dalla
predominanza di A1 e A2, e tracciare un confine geografico nel punto
in cui il clino è scosceso».
Ma
se ciò non bastasse, esistono tra le razze umane, oltre che
significativi ed improvvisi sbalzi quantitativi
nella
distribuzione dei geni – che nella loro risultante
complessiva
danno ragione della convergenza delle nostre intuizioni tipologiche
al riguardo, malgrado la presenza in ciascun individuo di un certo
numero di caratteristiche che sono dominanti in altre razze e invece
minoritarie nella sua –, differenze cosiddette qualitative,
che si definiscono come quelle in cui l'appartenenza ad una
data
popolazione si rileva del tutto determinante quanto alle possibili
caratteristiche individuali. Cosa che si verifica
evidentemente
quando un allele o un insieme di alleli genici si presentano nel
cento per cento di una popolazione, e sono del tutto assenti in
un'altra.
Un
carattere di questo tipo, che non a caso ha assunto storicamente una
valenza simbolica particolare, è il colore della pelle. Come
osservò già Darwin:
«Di tutte le differenze tra le razze umane il colore della
pelle è la più cospicua e una delle meglio
marcate».
Anche se il meccanismo soggiacente pare sia in realtà
più
complicato, tale carattere si comporta esattamente come se fosse
controllato da quattro coppie di geni con effetti addittivi. Ora,
è
ben vero che come nota André Langaney ()
si può passare senza discontinuità dagli uomini
più
chiari (gli europoidi del nord) agli uomini più scuri,
nell'esempio i Sara del Ciad, scegliendo gli intermediari solo in
altre due popolazioni, i Nordafricani e i Boscimani; ma non esiste
semplicemente nessuna possibilità che un
indigeno
dell'Africa subsahariana (a parte i casi di albinismo) nasca con una
pigmentazione chiara come un europeo, né che un europeo
etnico
nasca con la pigmentazione scura come un africano o un melanesiano, qualsiasi
possa essere la gamma di variazioni individuali presenti
nelle rispettive popolazioni di appartenenza per altre
caratteristiche. Anzi, pur essendo tutte le variazioni della
pigmentazione cutanea dipendenti in sostanza dalla quantità
di melanina prodotta, è
assai dubbio che le variazioni intrarazziali (le
variazioni di colore all'interno della stessa popolazione
genetica) siano comandate dagli stessi geni che governano le
variazioni interrazziali (ovvero le variazioni
stabilmente
esistenti tra una razza e l'altra).
Esistono
a quanto pare varie altre caratteristiche dello stesso tipo, o molto
simili, pur se meno vistose. Uno degli alleli del sistema
Rh (cDe) supera spesso frequenze del cinquanta in popolazioni
africane, ma ha percentuali tanto basse altrove da essere coerente
con la probabilità di progeniture africane recenti nei
pochissimi portatori. Aggiunge Dobzhansky [alias]:
«Un allele del locus
'Diego' sembra mancare tra gli Europei e presentarsi
regolarmente
tra gli Amerindi, pur non raggiungendo il 100%. Un allele del sistema
Duffy ha frequenze superiori al novanta per cento tra i negri
dell'Africa occidentale, e di nuovo è praticamente assente
tra
gli europei».
Certo,
è perfettamente vero che la maggior parte delle singole
caratteristiche si presentano distribuite in modo irregolare e
diversificato attraverso le razze, e che i determinismi genetici di
tali caratteristiche sono ancora nella maggior parte dei casi poco
noti, a cominciare da quelli che regolano il rapporto tra le
dimensioni della testa (determinando la "dolicocefalia" e
la "brachicefalia"). Altri caratteri, nonostante dipendano
rigorosamente dal patrimonio genetico, sono poco stabili, come
l'altezza; è noto infatti come il ventesimo secolo abbia
visto
un aumento molto rapido della statura media nei paesi
industrializzati, per ragioni non interamente chiarite, e del tutto a
prescindere dalla taglia media della razza di appartenenza delle
relative popolazioni.
Ugualmente,
rileva Jacquard,
«le popolazioni di pelle scura si trovano soprattutto in
Melanesia, ovvero nella parte sudoccidentale del Pacifico, nella
penisola indiana e nell'Africa a sud del Sahara. Indipendentemente
dalla comune vicinanza di tali regioni all'equatore, e dalla
questione se ciò possa costituire un argomento in funzione
di
una valenza adattativa di tale caratteristica (cosa su cui del resto
sono stati recentemente avanzati dubbi), va notato come queste tre
popolazioni non possono in alcun modo essere considerate come
costituenti una "razza"; a parte il colore della pelle,
tutto le differenzia: l'analisi dei loro sistemi sanguigni, ad
esempio, mostra come sia impossibile considerarle come tre rami
provenienti da uno stesso gruppo; il loro "albero filogenetico"
non può essere rappresentato da tre diramazioni di uno
stesso
tronco. Se così fosse, nell'ipotetica popolazione antenata
sarebbero presenti altri caratteri, oltre il colore nero, che si
ritroverebbero in questi tre insiemi di popolazione. Questa
constatazione mostra come una classificazione basata solo sul colore
della pelle non può avere un senso biologico; è
un
fatto molto irritante per chi ritiene possibile una definizione delle
razze fondata solo su questo criterio» (sarebbe d'altronde
facile obbiettare che resta però vero il contrario, ovvero
che la pigmentazione chiara degli europoidi rappresenta un
caso
sufficientemente unico, con l'eventuale modesta eccezione
rappresentata dagli Ainu [alias]
nel nord del Giappone – di cui comunque sono state ipotizzate
parentele protoindoeuropee).
Ma
anche qui lo studioso sceglie, a fini retorici, bersagli immaginari
per proclami di natura morale. Nessun antropologo
ha mai
davvero immaginato che un melanesiano ed uno zulu appartengano allo
stesso gruppo razziale per il fatto di essere ugualmente neri,
né
viceversa foss'anche il più sprovveduto militante analfabeta
del Ku
Klux Klan [alias]
ha mai considerato un negro albino come facente parte, per
"merito" di tale affezione, del suo gruppo razziale.
La
verità è che è l'esperienza quotidiana
a
confermare quanto sia facile indovinare almeno il grande gruppo
razziale di appartenenza di qualcuno a partire da una foto in bianco
e nero con un tempo di esposizione ignoto, o persino da un identikit,
pur essendo impossibile in tali condizioni appurare quanto sia scura
la pelle della persona ritratta, e rientrando invece in conto, in
tale valutazione, il soppesamento inconscio di una serie di parametri
quantitativi, che magari rientrano tutti nell'arco di
variabilità
interna delle singole razze che presentano le relative
caratteristiche, ma la cui convergenza non lascia dubbi nella maggior
parte dei casi neppure ad un osservatore non particolarmente
perspicace – e neppure ad un "sistema esperto" ben
addestrato in esecuzione su un elaboratore elettronico.
Sembra
perciò del tutto implausibile concludere, come fa Jacquard,
che «l'accumulazione di dati sempre più precisi,
la loro
trattazione con procedimenti sempre più complessi non porta
che a rendere più difficile la classificazione delle diverse
popolazioni che compongono la nostra specie». Semmai tale
classificazione diventa anzi più raffinata,
documentata e penetrante.
L'unica
ragione che motiva la opposta conclusione di chi la pensa come
Jacquard è la tesi che si vuole dimostrare, avanzata per
ragioni nient'affatto scientifiche.
Continua
infatti il biologo francese: «Così, la visione
tanto
chiara della geografia della nostra infanzia, i Bianchi, i Gialli, i
Neri, è adesso ingarbugliata: non si riscontra
più
alcuna linea direttrice. La ricerca scientifica, non sarà
forse stata fuorviata? In realtà, il ruolo della scienza non
è
quello di fornire infallibilmente risposte a tutti gli interrogativi.
A certe domande non si deve rispondere [corsivo
nostro]; dare
una risposta anche parziale o imprecisa a una domanda assurda
è
farsi complici di una mistificazione, essere colpevoli di un abuso di
fiducia. Se la classificazione degli uomini in gruppi più o
meno omogenei, che si possono chiamare 'razze', avesse senso
biologico reale, il ruolo della biologia sarebbe quello di stabilire
al meglio tale classificazione; ma questa classificazione non ha
senso. È vero che il mio amico Lampa, contadino Bedick del
Senegal orientale, è molto nero e io sono grosso modo
bianco,
ma alcuni dei suoi gruppi sanguigni potrebbero essere più
vicini ai miei di quelli del mio vicino di pianerettolo, il signor
Dupont. Il risultato messo in rilievo da Lewontin
[alias] ()
significa che la distanza biologica che mi separa dal Sig. Dupont
è,
in media, solo un quinto inferiore dalle distanze che mi separano da
Lampa [...] Questa piccola differenza merita tutta l'attenzione che
da secoli le accordiamo?».
Tale
chiusa ad effetto – che trascura di considerare che Jacquard,
se
per questo, come tutti gli esseri umani ha anche in comune il 98% del
proprio corredo genetico con gli scimpanzé (),
pure per tale risibile differenza percentuale pregiudizialmente
esclusi, immaginiamo, dal giro delle sue amicizie più intime
–
illustra esemplarmente il fenomeno psicologico della rimozione
già
più volte citato: se qualcosa è intollerabile,
non
esiste; e se anche esistesse è opportuno, doveroso, fare
finta
che non ci sia.
Capita
invece che l'esistenza delle razze, ovvero la relativa segregazione e
"tipificazione" delle varianze tra le popolazioni degli
esseri umani, così come di qualsiasi altra specie animale e
vegetale, è esattamente ciò che fornisce il
materiale
genetico per l'emersione, il mantenimento e la selezione di quella differenza
– ovvero ricchezza, flessibilità, polimorfismo
di tratti stabili di gruppo – al cui "elogio" Jacquard pure intitola con
involontaria ironia il suo pamphlet e cui, non a
torto, viene attribuita decisiva valenza con riguardo
all'adattabilità e alle chance di sopravvivenza a lungo
termine di una specie.
Deriva,
adattamento, differenziazione
È
grazie ad un italiano già citato, e precisamente a Luigi
Luca Cavalli-Sforza [alias],
che negli ultimi dieci anni conosciamo per la prima volta con
discreta precisione la storia delle razze umane negli ultimi
centomila anni, grazie ad uno studio imponente la cui portata
è ancora difficilmente apprezzabile, ed è
unicamente paragonabile a quella di Georges Dumézil per
ciò
che concerne i cinque o diecimila anni di storia
dell'identità
europea.
Da
cosa derivano d'altronde tali differenze? «Un secolo
fa»,
scrive Dobzhansky [alias],
«Darwin si sentiva frustrato in
tutti i tentativi di spiegare la differenza
delle razze umane». In particolare, riteneva difficile
chiamare
in causa la selezione naturale, perché «ci
scontriamo
immediatamente con l'obiezione che in tale modo possono conservarsi
unicamente le variazioni benefiche; e per quanto possiamo giudicare
(sempre soggetti ad errore) nessuna delle differenze esterne tra le
razze umane è di qualche diretto o particolare aiuto
all'uomo». Afferma in effetti Darwin testualmente in L'origine
dell'uomo: «Da parte mia, concludo che
tra tutte le
cause che hanno determinato le differenze nell'aspetto esterno tra le
razze umane, e in certa misura le differenze tra l'uomo e gli animali
inferiori, la più efficiente è stata di gran
lunga la
selezione sessuale» ().
Tale
punto di vista è naturalmente superato, in particolare nella
confusione tra la selezione intraspecifica e quella interspecifica
(in cui la selezione sessuale per definizione non può
giocare
alcun ruolo), ma soprattutto nell'artificiale distinzione tra la
selezione naturale in senso stretto (intesa come capacità di
sopravvivenza individuale) e la selezione sessuale (ovvero la
capacità di attirare partner fecondi, e i migliori possibili
tra di essi), che la sociobiologia
riduce ad un solo fattore, ovvero la capacità di un gene di
replicare efficacemente se stesso, la sopravvivenza individuale o il
sex appeal non essendo che presupposti tra altri in vista del
raggiungimento di tale "fine".
Ciò
che più interessa qui è però il fatto
che i
dubbi di Darwin e la sua incertezza al
riguardo non sono molto cambiati sino ad
un'epoca molto recente. Come osserva infatti Dobzhansky [alias],
«sino a meno di una generazione fa, i principali antropologi
ritenevano che le differenze razziali fossero per la maggior parte
adattativamente neutre e di conseguenza non si sforzavano
granché
per scoprirne gli eventuali valori selettivi. I radicali mutamenti
negli ambienti umani provocati dagli sviluppi culturali rendevano
particolarmente difficoltoso l'approccio al problema ():
un carattere genetico può aver giocato un milione di anni or
sono un ruolo adattativo completamente diverso da quello di diecimila
anni fa, a sua volta magari differente da quello attuale. Infine, con
una curiosa inversione di ragionamento, la dottrina dell'uguaglianza
umana pareva escludere la possibilità di un adattamento
(adaptedness) genetico differenziato», in
quanto
concetto pericolosamente suggestivo della possibile idoneità
degli uomini e delle razze a ruoli e modelli di vita diversi, secondo
quanto suggerito invece da un celebre passo di Aristotele [alias]
.
Lo
stesso significato adattativo di una caratteristica così
ovvia
come il colore della pelle è aperto alla discussione. La
nozione secondo cui un corredo genetico che provvede una
pigmentazione scura protegge dalle scottature solari e dai tumori
alla pelle – esattamente come il
meccanismo fisiologico che
governa la produzione di melanina,
e perciò l'"abbronzatura", nei singoli individui –
è molto antica, ed è resa plausibile, oltre che
dal
buon senso, dal fatto che le razze a pelle scura invariabilmente
abitano (o almeno abitavano) le zone tropicali ed
equatoriali
del pianeta.
Meno
chiara era l'utilità di una minor
dotazione di melanina
per chi fosse al contrario meno esposto alle radiazioni solari, ma
più recentemente è stato rilevato come il
maggiore
assorbimento della luce solare, in ipotesi scarsa, consenta una
migliore sintesi della vitamina
D, la vitamina antirachitica.
È
vero d'altronde che la pelle scura provoca un assorbimento maggiore
del calore convogliato dalla luce solare proprio là dove
tale
effetto sarebbe meno desiderabile; ed ancora, la regola della
distribuzione geografica della pigmentazione bruna non è
senza
eccezioni: gli indiani del Sudamerica equatoriale non sono
particolarmente scuri, e alcuni dei nativi della Siberia
nordorientale sono bruni almeno quanto quelli del Nordafrica.
Esistono però varie possibili spiegazioni delle "eccezioni"
in questione, sia fondate sulla supposizione che i popoli con pelle
abbastanza chiara nei paesi molto caldi (e forse quelli con
carnagione piuttosto scura nei paesi molto freddi) siano immigrati
relativamente recenti, sia sulla base di valutazioni più
penetranti delle relative realtà ambientali, che vedono ad
esempio gli abitanti dell'America meridionale dimorare all'ombra
delle foreste più a lungo che all'aperto, o gli abitanti
delle
regioni polari godere di una razione di UV moltiplicata dal riverbero
della neve e dalla lunghezza estrema delle giornate estive, tanto che
i "bianchi" in tali condizioni fanno oggi tipicamente uso
di prodotti anti-scottature.
Altri
hanno ancora rilevato la possibile valenza mimetica del colore della
pelle nella foresta tropicale: e in effetti, nelle diverse razze
delle specie animali allo stato selvatico (ad esempio, la tigre
siberiana rispetto alla tigre di Sumatra) questa è la chiave
di lettura più ovvia e frequente delle differenze di
pigmentazione riscontrate.
In
ogni modo, le ipotesi sul significato adattativo della pigmentazione
nelle razze umane non si escludono l'un l'altra, e la loro stessa
molteplicità rende tale valenza adattativa fortemente
plausibile.
Similmente,
una notevole massa di attente indagini sono state dedicate alla
fisiologia di popolazioni umane adattate a certi ambienti
particolarmente rigorosi, come per esempio gli indiani degli
altopiani andini (freddo, scarsità di ossigeno) e gli
eschimesi ().
Altri hanno confrontato le reazioni allo sforzo di giovani maschi
bianchi e negri in condizioni di caldo-umido estremo (). Tutte le
indagini hanno constatato differenze statisticamente
sicure nelle direzioni attese, a prescindere dall'adattamento
acquisito o meno nel corso della vita individuale. Più
empiricamente, è il negro primatista mondiale dei cento
metri
piani Ben
Johnson a notare, in risposta ad una domanda durante
un'intervista televisiva sulla assoluta dominanza di atleti di
origine africana nella sua specialità olimpica, come la
velocità nella corsa abbia per almeno una trentina di
generazioni conservato in Africa una valenza ben superiore, in
termini di probabilità di sopravvivenza e successo
individuale
(dalla caccia agli scontri tribali alla fuga dai predatori), a quanto
sia accaduto alle razze abitanti in altri luoghi.
Analoghe
considerazioni possono essere avanzate per un tratto quale il
cosiddetto "quoziente di intelligenza", che a tante
polemiche ha dato luogo, e che oggi sappiamo con certezza tanto
essere oggetto di una forte componente genetica, quanto presentare
curve di distribuzione nettamente differenziate su base razziale ().
La critica secondo cui i test non sarebbero culturalmente e
razzialmente neutri, in quanto predisposti da studiosi "occidentali"
e "bianchi", è infatti facilmente rovesciabile nella
constatazione che ciò in effetti i test misurano sono
esattamente... le caratteristiche selezionate nel medesimo ambito che
esprime i test, e che sicuramente potrebbero avere avuto un
significato adattativo diverso o nullo in un contesto diverso
– in
cui tratto razzialmente e selettivamente saliente poteva essere
invece, poniamo, la resistenza statistica alla malaria, o l'empatia
estatica con gli altri membri del gruppo nel corso di riti
sciamanici, o appunto la velocità nella corsa.
L'esempio
riporta per altro immediatamente alla constatazione già
ricordata che gli ambienti umani sono per definizione, a partire
dalla rivoluzione neolitica e dall'avvento del "secondo uomo", ambienti
culturalmente modificati e determinati, in cui il
valore adattativo in senso sociobiologico e le caratteristiche
plasmate attraverso pressioni selettive di tipo culturale si
mischiano inestricabilmente.
Ciò
ha rilevanza anche per la demistificazione della contrapposizione
"naturale"/"culturale", che sottintende
normalmente il sospetto che venga attribuito a caratteristiche
naturali, o comunque geneticamente programmate, ciò che in
realtà sarebbe dipendente dall'influenza della cultura in
cui
ciascun essere umano è cresciuto (se non dall'"educazione",
o dall'"ambiente sociale").
Infatti,
mentre la creazione di culture costituisce propriamente la natura
degli esseri umani, è ragionevole immaginare che gli stessi
tratti identificanti di una macrocultura determinata siano figli non
soltanto del "caso", ma di uno psichismo collettivo
che è espressione (anche) di un'identità
etnobiologica precisa; così che le caratteristiche
della
popolazione di riferimento – salvo il caso di individui
allevati al
di fuori della propria comunità di provenienza –
sono doppiamente determinanti quanto al fenotipo
individuale, e
cioè sia per ciò che attiene al bagaglio genetico
che
l'individuo condivide con il resto del gruppo, sia per ciò
che
attiene appunto alle pressioni direttamente plasmatrici,
nonché
geneticamente selettive, di un ambiente "culturale" che a
sua volta è espressione di tale popolazione e stirpe, e di
nessun'altra.
Una
conferma di tale circostanza l'abbiamo in particolare con riguardo ad
una caratteristica umana sufficientemente "discreta"
(ovvero con salti bruschi tra chi la possiede e chi no) come la
lingua, che è certamente ed eminentemente caratteristica culturale.
Sappiamo
infatti da Noam
Chomsky [alias]
e dalla linguistica moderna come la capacità di parlare sia
programmata geneticamente nella specie umana, grazie alla
disponibilità innata di una "grammatica universale"
che deve essere attivata al massimo entro i tre o quattro anni di
età
attraverso l'apprendimento di una serie di "parametri" (o
switch) che a loro volta definiscono la struttura di una
lingua
particolare tra tutte le altre. Sappiamo inoltre empiricamente che
qualunque essere umano, estratto dalla sua comunità di
provenienza, può essere allevato come madrelingua in
qualunque
idioma esistente. Come capita allora che sia una certa popolazione, e
non altre, ad avere sviluppato una data lingua? O, in altri termini,
perché le lingue non sono tutte uguali?
Pare
inevitabile concludere che esiste un legame tra le caratteristiche
che identificano la popolazione in questione rispetto a tutte le
altre e quelle che sono le caratteristiche
specifiche (pure per definizione oggetto non di
ereditarietà genetica,
bensì squisitamente culturale) della famiglia
linguistica
di cui la medesima popolazione sia stata la culla ()
– attraverso i consueti meccanismi, in questo caso solo
pseudobiologici, di segregazione, deriva e selezione.
Ciò
è altrettanto vero per quella che Darwin
definiva "selezione sessuale", ovvero quella operante
attraverso le preferenze dei potenziali partner riproduttivi. Mentre
la sociobiologia ha dimostrato tali preferenze essere a loro volta
dettate dalle "aspettative" dei geni del partner quando al
successo riproduttivo della prole comune, le stesse preferenze sono
fortemente determinate dalla conformità a ideali sociali,
estetici, morali, culturalmente determinati, conformità che
a
sua volta garantisce tendenzialmente maggiori probabilità di
successo riproduttivo alla propria prole all'interno della
comunità
in questione.
Tutto
ciò ha poco a che fare, già nelle specie animali,
con
l'adattamento o il "miglioramento" nel senso in cui li
interpretava Darwin.
Già Konrad
Lorenz notava come la selezione sessuale possa favorire
l'affermazione di caratteristiche fisiche o comportamentali che
provocano un pregiudizio ben identificabile con
riguardo alle
chances di sopravvivenza del singolo ().
D'altronde, le caratteristiche visive, olfattive, uditive,
comportamentali dei membri di un gruppo possono facilmente
determinare un fenomeno di "rinforzo" capace di enucleare
facilmente una razza distinta – se non alla fine persino una
specie
diversa. La preferenza geneticamente determinata per alcune
caratteristiche nei partner sessuali tende infatti ovviamente a
rafforzare la segregazione del gruppo in cui si manifesta, e a
rafforzare parallelamente la frequenza ed intensità delle
caratteristiche stesse nel gruppo medesimo, in cui a loro volta tali
preferenze diventeranno un vantaggio riproduttivo, in un circolo
vizioso o virtuoso che sia.
Tutto
ciò per la specie umana si colora di aspetti particolari,
perché, come abbiamo visto, tale specie già con
il
"secondo uomo" modella culturalmente il suo ambiente, con
riguardo a tutti i fattori che ne possono plasmare
l'identità
biologica. Nel "terzo uomo", il problema è reso
ancora più complesso dal fatto che, come già
visto in
relazione al "pericolo disgenico", le caratteristiche che
l'ambiente (artificiale) seleziona, o cessa di selezionare, possono
non corrispondere affatto a quelle astrattamente desiderabili,
foss'anche da un punto di vista umano, e non solo "darwiniano".
Gli stessi meccanismi relativi alla selezione sessuale vengono
d'altronde distorti nel caso della nostra specie in
modo del
tutto peculiare. Gli elementi tradizionali dell'abbigliamento, della
profumazione, della cosmesi, dell'utilizzo di ornamenti simbolici, si
compongono infatti sempre di più con i risultati ottenibili
mediante l'utilizzo di trattamenti farmacologici, mesoterapici e
chirurgici di vario genere, non esclusi i trapianti, che alterano
ovviamente la "lettura del fenotipo" da parte dei possibili
partner, ivi compreso per le caratteristiche che tendono ad
identificare i tratti razziali più vistosi, quali il
taglio degli occhi che le donne giapponesi si facevano cambiare
chirurgicamente alla fine della seconda guerra mondiale per
conformarsi ai caratteri somatici (e presumibilmente ai canoni
estetici) dei vincitori, fino ad arrivare oggi all'alterazione della
propria pigmentazione naturale richiesta ed ottenuta tra gli altri da
personaggi come Michael
Jackson.
Già
negli anni settanta Dobzhansky [alias]
notava comunque come secondo le vedute moderne la "selezione
naturale" e "selezione sessuale" non sono più
distinte nel senso in cui le vedeva Darwin.
Il coefficiente di selezione, ovvero la differenza tra le
idoneità
"darwiniane" di genotipi diversi, misura infatti unicamente
i tassi di trasmissione di certe componenti di questi genotipi da
generazione a generazione, restando relativamente trascurabile il
fatto che la trasmissione genica differenziale sia dovuta, in taluni
casi, ad un maggior successo nell'accoppiamento, mentre, in altri,
sia provocata da una mortalità o fertilità
differenziale, oppure da uno sviluppo più accelerato, o da
qualsiasi altro fattore. Le varianti genetiche favorite dalle
risultanze di tutti questi fattori aumenteranno la loro frequenza
nelle popolazioni, mentre quelle svantaggiate subiranno una
diminuzione. Un ridotto successo nell'accoppiamento può
essere
compensato da una maggiore vitalità o fertilità,
o
viceversa.
Benché
quasi tutti coloro che arrivano alla pubertà abbiano, nelle
società primitive ed ancor più nella
società
moderna, l'opportunità di accoppiarsi e procreare, alcuni
individui non soltanto possono accedere ad un maggior numero di
partner, ma a partner di qualità migliore, e sono in
aggiunta
spesso in grado di assicurare alla prole con esso concepita
condizioni migliori, che a loro volta ne aumentano la
probabilità
di sopravvivenza e successo riproduttivo. Abbiamo anche visto come
nella società moderna i tratti genetici di questi individui
possono benissimo non corrispondere affatto a caratteristiche
funzionali alla sopravvivenza in condizioni diverse, o anche solo
plausibilmente auspicabili ed accettabili per la maggior parte dei
nostri contemporanei; e comunque possono senz'altro non rispecchiare
nel loro insieme uno spettro di varianze razziali sufficienti a
mantenere la flessibilità o la ricchezza della specie.
Ciò
che però qui importa è in quale misura
la divergenza
razziale delle popolazioni sia provocata da una selezione
"direzionale"; ovvero il decidere se un dato tratto
genetico sia influenzato dalla selezione; e ancora (e questo
è
un problema di più difficile soluzione) perché in
differenti popolazioni siano favorite differenti varianti del
medesimo tratto.
Lo
stato delle nostre conoscenze in questo campo è tuttora
assolutamente rudimentale; non ultimo, in relazione a ciò
che
concerne specificamente le razze umane, per il clima di sospetto e la
scarsità di fondi che oggi ovviamente circondano le ricerche
nel settore.
Sappiamo
d'altronde che la risposta per ciò che concerne le razze di
animali domestici è molto più semplice: tali
tratti
sono consapevolmente selezionati dall'allevatore,
sulla base
del materiale genetico posto a sua disposizione dalle linee
germinali, di origine selvatica, presenti nella specie.
Ora,
anche se il primo formarsi di razze umane risale indubbiamente al
periodo dell'ominazione, ed è perciò molto
più
antico della nascita delle "culture spengleriane", è
lecita l'ipotesi che almeno a partire dalla rivoluzione neolitica le
razze umane come le conosciamo (o le abbiamo conosciute sinora) siano anche
il frutto di un gigantesco esperimento di
autodomesticazione umana, a sua volta oggettivamente mirante appunto
alla selezione direzionale di caratteristiche culturalmente
determinate. La "riscoperta" da parte di Platone di miti e norme in tal
senso, che lo stesso considera ancestrali e
già oscurati nella sua epoca, è al riguardo
eloquente
quanto alla antichità in ambito indoeuropeo della relativa
consapevolezza ();
ma prima ancora Esiodo,
o il Mahabharata [alias]
indiano, o i miti di fondazione, anteriori alla dispersione ed al
muro della scrittura, che ha messo in luce Dumézil,
ben riflettono il definitivo passaggio, avvenuto da migliaia di anni,
dai meccanismi "naturali" allo stadio cosciente e storico
– sino a giungere nella nostra epoca al passaggio
appunto allo stadio della autocoscienza o coscienza
superiore.
La
selezione direzionale non può d'altronde spiegare da sola
né
l'origine delle differenziazioni razziali, né esaurire la
descrizione dei relativi meccanismi, che vedono un ruolo altrettanto
importante giocato dalla deriva genetica. Tale
fenomeno è
stato studiato, con riguardo alla specie umana, soprattutto con
riferimento a popolazioni fortemente isolate, e rimaste
sostanzialmente al di fuori della rivoluzione neolitica sino alle
soglie della nostra epoca. Alcuni autori hanno studiato alcune
popolazioni amazzoniche (),
altri gruppi di aborigeni australiani ().
Al riguardo, in uno dei villaggi esaminati è stato
constatato
come addirittura un quarto della intera popolazione attuale
possa essere fatta risalire a soli due individui, presumibilmente
maschi dominanti o capitribù del passato ().
È
vero che in tali popolazioni, mentre le donne sono uniformemente
esposte alla probabilità di una gravidanza e di rado vengono
meno al compito assicurare la riproduzione, gli uomini sono
caratterizzati da una varianza sensibilmente più elevata
nelle
prestazioni riproduttive. Ma la cosa non è sufficiente a
spiegare il fenomeno, del resto ben descritto anche nelle popolazioni
animali e vegetali ove sussistano condizioni di sufficiente
segregazione. In particolare, la stessa identica situazione
è
stata osservata in... gruppi religiosi autosegregati negli Stati
Uniti ();
benché la gente che vi appartiene pratichi presumibilmente
una
rigorosa monogamia, inevitabilmente si hanno variazioni nel numero
dei figli per famiglia, e della percentuale di questi che resta
malgrado tutto celibe. Con il trascorrere del tempo le variazioni,
sommandosi, conducono alla diversificazione delle frequenze geniche,
ovvero alla diversificazione razziale incipiente.
In
contrasto con la selezione, che è un processo direzionale e
deterministico, siamo qui in presenza di processi genetici stocastici
o casuali: non solo tutta la popolazione umana attuale discende da
una popolazione che anche solo diecimila anni fa era di due ordini di
grandezza inferiore, ma innumerevoli linee genetiche in essa presenti
si sono nel frattempo estinte, e continuano ad estinguersi ad ogni
generazione. "Deriva genetica casuale", "cammino
casuale", "principio del fondatore" ed "evoluzione
non-darwiniana" sono alcuni dei molti nomi attribuiti a questi
processi.
Nota Dobzhansky [alias]:
«Le differenze razziali indotte ad opera della selezione
naturale hanno, da un punto di vista biologico, un significato molto
diverso da quelle imputabili alla deriva genetica. La selezione
naturale rende in ipotesi le popolazioni differenzialmente adattate
ad ambienti diversi. In altre parole, le differenze razziali che
insorsero per selezione sono – o ad un certo punto furono
–
armonizzate alla vita in un certo tipo di circostanze. La situazione
non è necessariamente identica con le differenze dovute alla
deriva. Almeno all'inizio, può darsi che due popolazioni
siano
adattativamente equivalenti – e ciononostante ampiamente
differenziate. Senza dubbio, è possibile che la selezione
agisca sulle differenze originariamente neutre, e le inserisca in
corredi ereditari adattivamente integrati. Selezione e deriva possono
intrecciarsi nel corso dell'evoluzione delle razze» ().
D'altronde,
per chi dubitasse che le relative questioni siano "ideologicamente"
indifferenti, basta ripercorrere i tempi del relativo dibattito.
L'importanza attribuita al fattore stocastico (e perciò, in
un
senso non del tutto metaforico, al "destino") ha seguito un
ciclo interessante. Il prestigio attribuito alla selezione naturale
come agente nella diversificazione delle razze, e più in
generale nell'evoluzione, toccò in particolare il fondo
nella
prima metà del Novecento, quanto la genetica cominciava ad
afferrare i suoi concetti fondamentali, tanto che persino Haldane o Wright,
i fondatori della cosiddetta teoria sintetica dell'evoluzione,
finiscono per riconoscre tra il 1926 e il 1932 l'importanza
fondamentale della deriva genetica casuale, talvolta addirittura
definita "principio di Sewall Wright".
Molti
altri autori, d'altronde, in particolare dell'Europa continentale,
riconobbero il ruolo della deriva genetica come ipotesi utile nella
spiegazione delle differenze tra organismi cui non possa essere
facilmente attribuito alcun particolare valore in termini di
sopravvivenza (o, più modernamente, in termini di successo
riproduttivo), categoria in cui rientrano certamente numerose
differenze razziali riscontrabili nella specie umana.
La
reazione si manifestò poderosamente negli anni cinquanta e
sessanta. Benché non potesse essere negato il ruolo teorico
della deriva genetica, se ne dichiarò trascurabile la
portata
nelle popolazioni naturali, e quindi nell'evoluzione delle razze e
delle specie, posto che a selezione ed adattamento viene attribuita,
per la loro essenza deterministica, una valenza in un certo senso
più
"tranquillizzante" e "progressista" (dopo tutto
le razze non sarebbero che conseguenze, seppure indirette e
geneticamente fissate, dell'"ambiente") rispetto ad una
identità emergente in quanto tale dall'intreccio tra il caso
e la scelta – e perciò appunto
dal destino.
Il
relativo dibattito concerne in particolare le caratteristiche
razziali, ma, come è ovvio, ha portata più
generale con
riguardo alla storia naturale. Ad ogni modo, già dalla fine
degli anni sessanta l'importanza della deriva genetica non ha
più
potuto essere negata, non da ultimo a seguito della constatazione di
come la maggior parte delle micromutazioni non abbiano alcun effetto
sull'adattamento degli organismi, e perciò la loro
diffusione
ed affermazione debba necessariamente avere a che fare con la deriva
casuale del pool genetico della popolazione ();
così che oggi il ruolo della deriva è unanimente
riconosciuto, in particolare dai biologi molecolari e da chi si
occupa della genetica delle popolazioni. Del resto, in questo senso
in Darwin
stesso si trovano sorprendentemente accenni che oggi sarebbero
considerati "non-darwiniani", come quando lo stesso scrive
nell'Origine della specie:
«Le variazioni non
utili né dannose non sarebbero influenzate dalla selezione
naturale e verrebbero lasciate quale elemento fluttuante, come forse
si osserva nelle specie definite polimorfe» ().
In
effetti, se come è vero in tutte le popolazioni di esseri
viventi sessuati la presenza di caratteristiche selettivamente neutre
è soggetta a fluttuazioni, tali caratteristiche sono
inevitabilmente soggette ad una possibile deriva genetica, ovvero al
fatto che alcune delle variazioni andranno perdute in certe
popolazioni, si fisseranno definitivamente in altre, e resteranno
fluttuanti in altre ancora, dato un numero di generazioni
sufficientemente lungo. Tale numero, più esattamente
definito
come il numero medio di generazioni comprese tra l'origine e la
fissazione di un gene mutante adattivamente neutro, come illustrato
da Kimura (),
è prossimo a 4N(e), essendo N(e) la popolazione efficace in
senso genetico.
Ciò
è importante perché anche tenuto conto
dell'incidenza
combinata dei fattori selettivi "naturali" i numeri in
questione richiedono, per giungere al grado di differenziazione
riscontrabile tra le razze umane (),
che le popolazioni dei "fondatori" si siano ripetutamente
ridotte a relativamente poche unità nel corso della storia
e/o
che la popolazione effettivamente partecipante al pool genetico delle
generazioni successive si sia mantenuta a lungo su valori molto
bassi. In altri termini, le razze presenti devono per forza derivare
da gruppi modesti e ben delimitati, e/o da gruppi il cui
differenziale riproduttivo dei vari membri era altamente
differenziato. Il che significa ovviamente segregazione
genetica (endogamia) ()
e selezione orientata, quali abbiamo già
visto
implicite nella diversificazione culturale dei gruppi razziali. Cosa
significa tutto ciò?
Oggi
la specie umana, come altre specie animali e vegetali sessuate,
è
divisa in razze principali (sottospecie), razze secondarie e
popolazioni locali. La suddivisione in questione è
strettamente legata inoltre, in modo complesso, ad altre
differenziazioni tipicamente umane (ovvero culturali), quali quelle
linguistiche, politiche, religiose, etc., che con essa interagiscono
nella definizione delle comunità concrete e diversificate di
cui l'umanità si compone. Tale situazione può
essere
"approvata" o "disapprovata", ma costituisce
incontrovertibilmente l'eredità di cui siamo portatori.
Chi
ritenga desiderabile il suo mantenimento e sviluppo
– o
anche semplicemente non accetti di ignorare stolidamente il prezzo da
pagare per ribaltare e rinnegare tale eredità, ad esempio in
termini di ricchezza della specie e di chances di sua sopravvivenza a
lungo termine – non può evitare di confrontarsi
con le
condizioni sulla cui base tale tipo di suddivisione abbia potuto
affermarsi e mantenersi in
passato.
È
facile ad esempio constatare che se la separazione geografica ha
sempre giocato un ruolo relativo in termini di segregazione (e di
riflesso di differenziazione) delle popolazioni umane il suo
ruolo
è oggi progressivamente vanificato.
In
aggiunta alla mobilità spaziale, l'entropia culturale, con
rimozione delle relative barriere, ad esempio linguistiche, non
è
solo oggetto di progetto ideologico preciso – che del resto
promuove apertamente il melting pot anche genetico (pur nella
contraddizione con la contemporanea affermazione di una supposta
"irrilevanza" delle differenze etno-razziali) – ma
costituisce un effetto diretto della
globalizzazione delle
comunicazioni, e di nuovo dell'eliminazione delle distanze.
La
crescente uniformizzazione dell'ambiente umano su scala planetaria
(dalla dieta, alla climatizzazione, alle abitudini di vita,
all'alterazione, in chiave uniforme e come abbiamo visto
potenzialmente disgenica, delle pressioni selettive) parimenti tende
a rimuovere gli effetti della selezione "direzionale", e
converge con la mescolanza generalizzata direttamente promossa
dall'"immigrazionismo" contemporaneo ().
D'altra parte, come nota Gregory
Stock [alias],
«noi siamo il
risultato di una complessa interrelazione tra i nostri geni e il
nostro ambiente, e i due sono interdipendenti. Le nostre tendenze
genetiche possono conformare il nostro ambiente pilotando le nostre
scelte, e le influenze ambientali possono attivare o meno certe
espressioni dei nostri geni. Ciò significa che tanto
più
una società elimina con successo variazioni estreme
nell'ambiente (ad esempio, fornendo a tutti accesso ad una
alimentazione ed educazione di base) tanto maggiormente i geni
diventeranno più, non meno,
importanti nella
nostra conformazione»
().
In
queste circostanze, non solo è chiaro che la ricchezza della
specie in termini di varianza tra le popolazioni sarebbe
"naturalmente" destinata, sia pure asintoticamente, a
scomparire; ma risulta altresì evidente
che nuove
razze non potrebbero mai più nascere (a parte
l'ipotesi
della dispersione della specie su pianeti diversi), se non in scenari
davvero post-atomici, ed ancora in tempi geologici .
La
questione non è più se è vero che "gli
uomini sono diversi e resteranno sempre tali", oppure se è
vero che "gli uomini sono uguali, o almeno lo devono diventare".
Il punto è che oggi la sopravvivenza e lo sviluppo
della
diversità sono oggetto di una responsabilità
unicamente
umana, e possono essere solo "artificiali", frutto di una
scelta autocosciente, di tipo fondamentalmente politico, affettivo ed
estetico. Opporsi davvero
alla globalizzazione
significa non solo uscire radicalmente dalla sfera mentale
ugualitaria ed umanista, ma anche dall'illusione di poter ritardare
per più di poche generazioni da posizioni puramente
reazionarie i processi in corso.
Cavalli-Sforza [alias],
la cui opera è assolutamente preziosa dal punto di vista
scientifico, ma la cui scelta di valori personale, malgrado le accuse
di cui è stato talora oggetto, è assolutamente
conforme
all'ideologia dominante, conclude Geni,
popoli e lingue ()
come segue: «L'avvenire genetico dell'uomo è molto
poco interessante [corsivo nostro], perché
è
probabile che non ci saranno grandi cambiamenti, e certo meno di
quanti ne siano avvenuti sinora ().
[...] La forza che cambia in modo più importante la nostra
biologia è la selezione naturale, che agisce tramite le
differenze di mortalità e fertilità tra gli
individui.
La medicina ha quasi abolito la mortalità prima
dell'età
riproduttiva, e la fertilità dovrà abbassarsi a
valori
molto modesti per dominare l'esplosione demografica che ci minaccia.
Se tutte le famiglie avessero due figli e nessuna mortalità
prima della riproduzione, la selezione naturale scomparirebbe
completamente. La deriva genetica – un'altra causa
dell'evoluzione
– è quasi completamente congelata, all'attuale
livello di
densità della popolazione. Le mutazioni
possono essere
considerate, in questo momento, pericolose, in quanto causa di
mutamenti del DNA potenzialmente nocivi, ed è
perciò
probabile che verranno limitate ed evitate per quanto possibile. A
questo punto la trasformazione biologica dell'uomo si arresta.
Ciò
sarà vero, naturalmente, se l'uomo non
avrà la
follia di cambiarsi volontariamente [corsivo nostro]. Per
fortuna
le possibilità dell'ingegneria genetica nell'uomo sono
ancora
pressoché nulle ().
Altrimenti, potrà esservi sempre qualche pazzo che voglia
creare razze migliori. In un futuro ancora più lontano ci
vorranno controlli speciali, come quelli attuali per le esplosioni
atomiche, per essere sicuri di risparmiare ai nostri discendenti gli
incubi del Mondo
Nuovo di Huxley [alias]
()? Per
fortuna [ed ecco che viene di nuovo
ripreso il tema
della fede in questa versione laica della Provvidenza, e nel fatto
che possa essere evitato ciò che in tutta evidenza
è
per l'autore moralmente "insopportabile"] sarebbe molto
difficile tenere a lungo nascosto un vivaio di
esseri umani destinati a
preparare un'umanità diversa per il mondo
nuovo».
E
ancora: «Vi è comunque un
grande cambiamento
genetico che sta per avere luogo nella specie umana, a causa
delle
migrazioni che portano ad una mescolanza continua e complessa.
Alla fine di questo processo, e se – come sembra
probabile –
esso continuerà, si avrà un'umanità
meno varia
in un senso molto preciso: diminuiranno le differenze tra i gruppi.
Vi saranno meno ragioni per il razzismo, il che
sarà un
vantaggio. In questo processo, comunque, ci sarà un
cambiamento del tipo medio della popolazione. Almeno oggi, i vari
gruppi etnici mostrano tassi di riproduzione molto diversi. Gli
europei sono demograficamente stazionari, o quasi, mentre le
popolazioni di molti dei paesi non industrializzati sta aumentando ad
una velocità che non si è mai vista sulla
Terra.
Il tipo europoide, dunque, diminuirà di frequenza
relativa»
()
A
tali conclusioni è facile opporre che è proprio
nel Mondo
Nuovo di un progetto di umanità
"normalizzata" su scala
planetaria che siamo oggi immersi sino alle narici;
e
che il controllo umano e politico
del destino biologico
della specie e delle sue popolazioni, sino alla manipolazione diretta
del corredo genetico e delle linee germinali, potrebbe certamente
agire in funzione di un'accelerazione del processo,
ma
parimenti potrebbe essere (e in un certo contesto ideale certamente
sarebbe) indirizzato a scopi esattamente opposti.
D'altronde,
a tale normalizzazione, e in particolare all'estinzione
(salvo
un modesto riassorbimento) di alcune componenti etniche
dell'umanità
contemporanea, in particolare la... nostra, non è possibile
opporre unicamente la "difesa" dei fattori tradizionali che
le hanno prodotte.
Il
genio è fuori dalla bottiglia. La tecnologia dei trasporti esiste,
così come l'uniformizzazione degli ambienti; le
barriere naturali hanno perso di significato, non solo grazie al
predominio globale dell'ideologia universalista, ma all'estensione
globale delle comunicazioni audiovisive, con le conseguenze che
abbiamo visto in termini di tendenza al monoglottismo planetario;
parimenti, difficilmente sono destinati a scomparire i portati della
medicina moderna o la disponibilità di metodi
anticoncezionali
sicuri e affidabili.
Va
del resto sottolineato che questo è non solo un frutto
diretto
del compimento dell'avventura del "secondo uomo", ma un
portato dello specifico europeo nel quadro di
quest'ultima. Scrive Spengler:
«La cultura
faustiana dell'Europa forse non è
l'ultima [tra le "culture superiori" del
secondo uomo] ma è certamente la
più potente. [...] E' anche la più tragica di
tutte.
[...] Una volontà di potenza, che irride tutti i limiti di
tempo e di spazio, che ha per meta lo sconfinato, l'infinito,
assoggetta interi continenti, e da ultimo abbraccia tutto il globo
con le forme del suo traffico e delle sue comunicazioni e lo trasforma
con la
violenza della sua energia pratica e i prodigi dei suoi processi
tecnici» ().
Perciò,
le razze e le popolazioni e le culture umane, se continueranno ad
esistere, non potranno come dicevamo che essere pienamente
artificiali, in un senso ulteriore
rispetto a quello già
insito nella "natura culturale" che abbiamo visto propria
in generale dell'uomo: potranno cioè esistere solo in
quanto,
come sottolinea Cavalli-Sforza, direttamente e deliberatamente progettate
e create, sulla base di criteri, non
"razionali", ma direttamente dipendenti dalla visione del
mondo, e dalle scelte affettive ed estetiche, dei loro artefici.
Tale
possibilità è ben presente anche a dichiarati
fautori
della fine della storia filosoficamente ben
più
attrezzati di Cavalli-Sforza.
E' così un autore di lucidità indiscutibile come Jürgen
Habermas a mettere in
guardia contro quello che egli considera lo "scenario spettrale"
di un "comunitarismo genetico", in cui diverse culture
potrebbero portare avanti una «auto-ottimizzazione genetica
del
genere umano in direzioni diverse, finendo così per mettere
in
discussione l'unità della natura umana come fondamento
rispetto al quale tutti gli uomini avevano potuto finora intendersi,
e mutuamente riconoscersi, quali membri di una stessa
comunità
morale» (anche se in realtà ciò che
Habermas
presenta qui come stato "naturale" e tradizionale è ciò
cui è semmai proprio il mondo contemporaneo a
tendere, per la prima volta nella storia) ().
La
"tentazione eugenetica"
La
"frattura" della storia che stiamo vivendo, e le scelte di
campo che questa impone all'uomo e alle società
contemporanei,
si manifesta prima come inquietudine, poi come possibile risposta con
la nascita ed affermazione della tendenza storica sovrumanista (),
ma tende a diffondersi generalmente nella prima metà
Novecento, ed in tale ambito è innegabile che essa si
presenta
variamente intrecciata con le espressioni direttamente politiche
incarnate, in vari stadi, nelle rivoluzioni fasciste e nelle loro
tendenziali aspirazioni a farsi carico dell'identità e
dell'avvenire "millenario" delle comunità di
riferimento (nazionale, culturale ed etnica) ().
In tal senso, non c'è dubbio che la teoria e la politica
nazionalsocialista, pur sotto vari profili più che ambigue
(),
rappresentano un punto di rottura, che conduce rapidamente ad una
polarizzazione delle posizioni (),
ed in parte ad un'oscuramento e rimozione di tutta la questione nella
seconda parte del ventesimo secolo.
Tali
elementi sono d'altronde regolarmente ripresi, a livello
propagandistico, come specifico anatema contro ogni possibile
approfondimento e dibattito pubblico sulle relative questioni; e
ciò
attravero il richiamo rituale a provvedimenti o prese di posizione
dell'epoca, tuttora evocati a distanza di oltre mezzo secolo come
interlocutori immaginari in un dibattito tra il Bene umanista,
egualitario e antifascista, e il Male in essi incarnato
esemplarmente, così da paralizzare e squalificare e rendere
"impresentabile" qualsiasi posizione eterodossa ().
In
effetti, l'azione governativa nazionalsocialista si occupa
già
di tutti o quasi gli aspetti e strumenti di intervento noti all'epoca
con riguardo al futuro della popolazione di riferimento,
dall'anamnesi familiare, all'orientamento dei matrimoni, alla
sterilizzazione ed aborto selettivi, all'assistenza alla
maternità,
alla politica demografica, alle politiche in materia di adozione,
concessione della cittadinanza o immigrazione, all'eutanasia, a tutte
le altre misure più in generale connesse alla autogestione
da
parte della comunità della propria dimensione anche
"biologica"; ivi compreso quanto finalizzato a promuovere o
rafforzare alcune caratteristiche, a rarefarne altre, a rimuovere o
controbilanciare paventati effetti disgenici (ad esempio, la
possibile selezione negativa di caratteristiche quali il coraggio o
lo spirito di servizio), a proteggere ed enfatizzare la relativa
identità collettiva nelle direzioni giudicate desiderabili.
È
durante l'era nazionalsocialista che Konrad
Lorenz scrive ad esempio nel 1940 (come i vincitori non
mancheranno più tardi di rimproverare al premio Nobel di
fisiologia e medicina, nonché padre fondatore dell'etologia
moderna): «Bisognerebbe, per la preservazione della razza,
considerare un'eliminazione degli esseri per noi moralmente inferiori
ancora più severa di quanto non lo sia oggi. [...] Dobbiamo
–
e ne abbiamo il diritto – affidarci ai migliori di noi e
incaricarli di compiere una selezione che determinerà la
prosperità o l'annientamento del nostro popolo» ().
Ed ancora: «Nei tempi preistorici la selezione in base alla
durezza, all'eroismo, all'utilità sociale era fatta solo dai
fattori esterni ostili. Bisogna che questo ruolo venga ripreso oggi
da un'organizzazione umana, altrimenti l'umanità, in
mancanza
di fattori selettivi, sarà annientata dalla degenerescenza
dovuta all'addomesticamento» ().
Nello stesso senso, Othmar von Verschurer, direttore dell'Istituto di
Antropologia, Ereditarietà Umana e Eugenetica di Berlino, il
cui prestigio scientifico non è messo in discussione neppure
da Jacquard che lo cita (),
notava nel 1943: «Il capo dell'etnoimpero [Volksreich]
tedesco è il primo uomo di Stato che abbia fatto dei dati
della biologia ereditaria un principio direttivo della condotta dello
Stato» ().
Quello
che è tra l'altro interessante dell'atteggiamento fascista
in
generale, e nazionalsocialista in particolare, su tali questioni,
è
l'antidogmatismo e l'empirismo
dimostrato sulle
questioni in oggetto, che vede dibattere, adottare, sospendere o
ripristinare misure diverse; finanziare ambiziosi programmi di
ricerca; e riprendere indifferentemente posizioni tradizionalmente
considerate "di destra" (così come l'esclusione
forzata delle devianze indesiderabili, o il rifiuto di mobilitare la
manodopera femminile ancora in una fase molto avanzata della guerra,
o la difesa della famiglia), o "di sinistra", come quando
Hitler nelle Conversazioni a tavola dichiara di
essere a
favore del "libero amore", quando qualche teorico ipotizza
l'abolizione a fini demografici ed eugenetici della monogamia nel
dopoguerra, o quando viene dal partito pubblicamente difeso il
diritto, e il dovere, delle donne tedesche di procreare figli alla
nuova Germania (il cosiddetto Führerdienst)
anche
fuori dal matrimonio – a costo di suscitare in quest'ultimo
caso
l'unica pubblica manifestazione antifascista di tutto il periodo,
segnatamente quella cattolica organizzata a Monaco dalla Rosa
Bianca.
La
questione propriamente razziale è più complessa,
ma
certamente centrale. Sin nel suo discorso al congresso del partito
tenutosi a Roma nel 1921, Benito Mussolini dichiara: «Intendo
dire che il fascismo si preoccupi del problema della razza. I
fascisti devono preoccuparsi della salute della razza, con la quale
si fa la storia»
().
Il
concetto fascista di "razza" è da un lato trattato
come un concetto squisitamente empirico, dall'altro –
particolarmente in ambito nazionalsocialista, ma non solo –
viene
assunto come mito politico-religioso utile a
definire
un'identità, ovvero in tale prospettiva a
scegliere delle radici cui appartenere in funzione
dell'avvenire che ci si
vuole creare ().
Del resto, è normale che a livello politico il "popolo"
significhi qualcosa di più e di diverso dalla "popolazione"
che studia il biologo o il demografo, così come è
cosa
diversa in senso politico la nazione rispetto al mero concetto
etnografico, o la classe rispetto al mero concetto sociologico.
In
tale contesto, il mondo fascista si riallaccia innanzitutto ad una
specificità ed identità europea, assunta sia
attraverso
il richiamo alle sue origini culturali ultime (la romanità
dei
primordi, la classicità, le tradizioni celtiche, germaniche
e
indoarie) che al suo substrato biologico (appunto europoide, o
"ariano") ().
In tale ambito, il nazionalsocialismo individua innanzitutto a
livello propriamente politico una comunità di riferimento
nazionale, tedesca, e più ampiamente etnoculturale,
germanica,
che costituisce al tempo stesso il soggetto e l'oggetto primario
dell'azione storica promossa. Nell'autodeterminazione e nel progetto
che in tale soggetto si incarna, la politica che si afferma durante
il nazionalsocialismo promuove poi la protezione e lo sviluppo
all'interno della comunità popolare tedesco-germanica della
componente "nordica" (Aufnordnung,
"nordizzazione"), definibile come una serie di
tratti genetici presenti in vari gradi all'interno della razza
europoide, che definiscono una sottorazza in tale ambito (),
e che vengono giudicati desiderabili o "nobili" per ragioni
di tipo sostanzialmente estetico, affettivo e culturale ().
Ciò lascia in sostanza impregiudicato il pieno
riconoscimento
delle altre componenti razziali presenti nella sfera
tedesco-germanica (e più in generale della razza europea di
cui questa è parte), del loro contributo storico
all'identità
comune, e della loro piena partecipazione alla comunità
popolare – come del resto è reso ovvio dal fatto
che la
classe dirigente nazionalsocialista stessa rappresentava uno spaccato
fedele della comunità stessa (con incluse componenti
razziali
alpine, faliche, dinariche, mediterranee), né alcuno dei
suoi
esponenti ha mai pensato che le cose stessero altrimenti ().
Che
questo fosse, al di là di pretese che gli stessi
nazionalsocialisti consideravano puramente propagandistiche, il
quadro di riferimento generale, è confermato anche dall'humus
culturale da cui il movimento nasce. Così Jünger
nell'Operaio
() parla
esattamente di una Wille
zur Rassenbildung, "volontà
di creazione di una razza" ().
Della
razza ariana polemicamente non sono considerati parte per definizione
gli ebrei (),
malgrado il fatto che in realtà i membri delle
comunità
ebraiche dell'Europa occidentale siano quanto meno razzialmente
misti. E ciò per ragioni essenzialmente
politico-culturali,
in relazione cioè al rifiuto che l'appartenenza alla
comunità
ebraica esprimerebbe rispetto a quella che il nazionalsocialista
considera identità europea, al di là della
proporzione
delle componenti genetiche che possono incarnarsi nel singolo
individuo; ovvero alla scelta che tale appartenenza
comporta
in termini di "comunità etnoculturale di riferimento"
().
Abbastanza
significativamente, il nazionalsocialismo considera viceversa
"ariana" ed europoide, benché razzialmente mista
quanto e più degli ebrei europei, almeno parte della
popolazione dell'India settentrionale; e non ha difficoltà a
riconoscere che la percentuale propriamente nordica della popolazione
norvegese è nettamente più significativa di
quella
presente nelle frontiere del Reich, o a ipotizzare la germanizzazione
di immigrati europei con caratteristiche desiderabili; ma non si
sognerebbe certo di considerare né "nordico", né
anche solo membro della comunità popolare germanica, un
ebreo
dolicocefalo, con gli occhi azzurri, i capelli biondi e il naso greco
– ebreo cui del resto basta talora una goccia di "sangue",
specie dal ramo materno, per sentirsi sufficientemente connesso alla
stirpe ed identità abramitica ().
Nell'ambito
del programma descritto, il ripristino o la creazione di un "orgoglio
di stirpe" e di una "coscienza razziale" nella
comunità tedesco-germanica, o nelle altre
comunità di
riferimento dei diversi movimenti fascisti europei, rappresenta come
è ovvio un tassello fondamentale, ed in effetti tutti i
movimenti in questione – che pure si mostrano sovente nei
propri
esponenti molto meno provinciali della media dell'epoca, e
profondamente interessati alle culture altrui – incoraggiano
apertamente l'etnocentrismo. Da qui la propaganda sulla propria
rispettiva "superiorità", che in realtà in
un contesto relativista ed antiuniversalista si risolve
integralmente nella prospettiva della comunità di
appartenenza; così che, a fronte di un'alta
considerazione
e ammirazione per il mondo arabo (altrettanto e più semita
nella sua composizione etnica di quello ebraico!) o per quello
giapponese ed orientale in generale, nessuno si sognerebbe di pensare
ad esempio che tali mondi dovrebbero promuovere il meticciato con la
razza (e la cultura) europea, o considerare quest'ultima come un
modello "superiore" di caratteristiche da imitare e
selezionare nei rispettivi ambiti.
Ciò
d'altronde spiega anche come il Reich ritenga "esportabile"
l'antisemitismo – che è ritenuto dai
nazionalsocialisti un
problema politico-razziale dell'intero "mondo ariano" –
mentre consideri unicamente affari interni alla comunità
tedesca (e poi germanica) su cui insiste gli orientamenti ed i
progetti relativi alla "autodeterminazione" razziale di
quest'ultima (appunto la "preferenza nordica" espressa
dalla maggioranza dei dirigenti tedeschi dell'epoca).
Il
tema della razza viene comunque declinato in modo diverso e variegato
dai vari altri movimenti tedeschi, dai vari ambienti politici e
scientifici del regime stesso, e dai vari movimenti e regimi fascisti
degli altri paesi, così che le eccessive generalizzazioni e
semplificazioni contemporanee appaiono sovente del tutto arbitrarie
().
Ciò
che giova però sottolineare ancora una volta è
come la
determinante influenza sovrumanista che a seconda dei casi è
più o meno consciamente presente in tali ambito ()
fa sì che le preoccupazioni di tipo etno-razziale ed
eugenetico vi vengano regolarmente declinate - a differenza di quanto
accadeva ed accade tuttora nella sfera culturale americana ed in
generale "democratica" - secondo la prospettiva,
intrinsecamente relativista, di una soggettività popolare e
di
un progetto storico collettivo miranti a competere
e ad affermarsi rispetto ad altre prospettive ed
identità
omologhe, piuttosto che a negarle.
Risulta
infine interessante come normalmente il piano biopolitico sia quello
dove allo Stato – certo ad esclusione del "problema ebraico",
specie in relazione al suo precipitare nella temperie bellica ()
– viene affidata essenzialmente un compito educativo,
più
che legislativo, amministrativo o repressivo. L'anamnesi familiare,
ad esempio, viene incoraggiata, ma esclusivamente nel caso delle SS i
suoi risultati in qualche modo influenzano direttamente la
libertà
di scelta in campo matrimoniale. La campagna contro il fumo,
all'epoca alquanto avveniristica, non si traduce in alcuna forma di
proibizionismo. La "dottrina delle razze" (Rassenkunde)
diventa materia di insegnamento scolastico, ma non si riflette in
alcuna diversificazione dei diritti politici o civili dei cittadini
del Reich sulla base della sottorazza di appartenenza, cosa che
avrebbe ovviamente compromesso la desiderata coesione della
comunità
popolare; e in Germania una siffatta diversificazione neppure si
verifica in materia demografica, a differenza della Roma augustea
(dove l'emancipazione femminile era legata alla nascita del terzo
figlio o della più modesta pressione esercitata al riguardo
nell'Italia fascista, in particolare a livello fiscale con la
cosiddetta "tassa sul celibato".
Più
sottilmente, un'idea diffusa era anche che la modificazione dei
valori dominanti e conseguentemente del successo relativo degli
individui all'interno della comunità (ad esempio, nello
spostamento dell'importanza sociale relativa della capacità
di
accumulare mezzi di scambio sotto forma di denaro rispetto a
coraggio, prestanza, lealtà, bellezza, spirito di servizio o
combattività) finisse per influenzarne la composizione anche
biologica attraverso un vantaggio riproduttivo differenziale delle
componenti genetiche favorite.
Se
questo schizzo tiene certo poco conto di contraddizioni, equivoci e
deviazionismi che è storicamente facile documentare, la
campagna propagandistica di parte antifascista relativamente
all'eugenetica e alla biopolitica nazionalsocialista resta d'altronde
molto dubbia sotto vari profili.
Fatti
salvi ulteriori possibili approfondimenti storiografici che esulano
dallo scopo di questo saggio, a tale operazione possono essere
opposte, con riguardo alle prese di posizione nazionalsocialiste (e latu
senso fasciste), alcune ipotesi di lavoro che
meriterebbero maggiore attenzione, e che vanno nel senso di una
"storicizzazione" delle posizioni stesse, non per invocare
dal punto di vista umanista improbabili giustificazioni o attenuanti
delle stesse, la cui condanna in tale prospettiva è del
tutto
giustificata, ma semplicemente per comprenderne meglio la natura e la
portata.
In
particolare, le analisi pubblicate sull'argomento raramente tengono
conto delle seguenti considerazioni:
-
quello che di tali posizioni e proposte (del resto alquanto
variegate) viene additato come ridicolo e superato anche al di fuori
da una scelta di valore pregiudiziale in senso antifascista
può
essere legato semplicemente allo "stato della tecnica",
ovvero rispecchiare le conoscenze, le mode e gli strumenti
scientifici e culturali dell'epoca; in tal senso meriterebbe di
essere meglio analizzato quanto in esse è propriamente
legato
a presupposti teorici nazionalsocialisti e fascisti e quanto
semplicemente alla temperie storica ed alle teorie degli anni venti e
trenta;
-
alternativamente, altre posizioni concretamente assunte da Tizio o
Caio possono talora non discendere affatto
dall'ideologia di
riferimento, ma anzi essere con essa in contrasto, e derivare da
influenze di altra matrice, influenze di cui ovviamente nessun regime
politico per quanto radicale e totalitario è immune;
-
altre scelte o progetti o preferenze (ad esempio la "preferenza
nordica" in Germania) ancora possono essere considerate
relativamente arbitrari nell'ambito della nuova prospettiva aperta al
riguardo, ciò che è essenziale consistendo invece
proprio nell'opzione storica e politica per il fatto di avere
scelte e progetti collettivi al riguardo anzichenò;
-
infine, talune posizioni, che apparivano a cavallo tra i due secoli
scorsi del tutto plausibili a personaggi di orientamenti politici e
filosofici disparati, vengono oggi percepite come "squalificate"
e "criminalizzate", più che per loro una
"intollerabilità" o "assurdità"
intrinseca, esattamente e soltanto per il legame che si è
stabilito tra esse e il nazionalsocialismo.
In
ogni modo, gli aspetti suddetti si inseriscono poi in un complessivo
progetto di creazione di un uomo nuovo che investe
integralmente anche gli aspetti "ambientali" del suo quadro
di vita, per esempio dal punto di vista ecologico, urbanistico,
psicologico, sanitario, sociale, educativo, etc., e di cui le
tematiche eugenetiche non sono che una componente ().
D'altronde,
in campo biopolitico vari temi sono suscettibili di letture diverse,
che i regimi fascisti non hanno mancato di sfruttare
propagandisticamente e tatticamente, magari facendo leva sulle
contraddizioni interne della tendenza umanista comunque culturalmente
dominante. La previsione di reati connessi all'aborto e alla
propaganda della contraccezione nel Codice Rocco (espressivamente
ricompresi sotto un titolo che fa espresso riferimento alla
"sanità
della stirpe"), sono ovviamente coerenti con una politica volta
al mantenimento ed allo sviluppo della demografia della
comunità
di riferimento, ma si trovano anche a soddisfare tradizionali
posizioni cattoliche, in cui tali pratiche sono condannate proprio in
quanto espressione... di un "blasfemo" controllo da parte
dell'uomo sulla sua propria biologia.
Similmente,
l'uso della sterilizzazione o dell'eutanasia per limitare il
perpetuarsi e la propagazione di caratteristiche suppostamente
disgeniche ben può essere difeso e promosso anche in
rapporto
a considerazioni di tipo "umanitario", edonista e
fondamentalmente individualista (quali quelle oggi avanzate dal Partito
Radicale),
che rappresentano il contrario esatto dei nuovi valori anche su tale
piano affermati.
La
percezione stessa delle questioni sopra discusse è oggi del
tutto oscurata da una rimozione, falsificazione e demonizzazione che
rende difficoltoso ripercorrere la storia delle idee sotto tale
profilo, che pure riserva a chi sia interessato a percorrerla qualche
sorpresa. Ma i documenti di tale storia ovviamente esistono ancora.
Jeremy
Rifkin, per "denunciare" le profonde radici delle
concezioni in discussione, apre deliberatamente il capitolo
intitolato "Una civiltà eugenetica" de Il
secolo biotech con una citazione "scioccante":
«Un
giorno noi tutti realizzeremo che il primo dovere di ogni buon
cittadino, uomo o donna, di giusta razza, è quello di
lasciare
la propria stirpe dopo di sé nel mondo; e che, nello stesso
tempo, non è di alcun vantaggio consentire una simile
perpetuazione di cittadini di razza sbagliata. Il grande problema
della civiltà è di riuscire ad ottenere, nella
popolazione, l'aumento degli elementi di valore rispetto a quelli di
poco valore o che risultano addirittura nocivi. [...] Per raggiungere
questo obbiettivo è indispensabile prendere piena coscienza
dell'immensa influenza esercitata dalla ereditarietà...
Spero
ardentemente che agli uomini disonesti venga impedito del tutto di
procreare; e che ciò avvenga non appena la cattiva natura di
questa gente sia stata sufficientemente provata. I criminali
dovrebbero essere sterilizzati e ai malati di mente dovrebbe essere
vietato avere dei figli. [...] È importante che solo la
brava
gente si perpetui».
Queste
frasi non sono messe in bocca da qualche film hollywoodiano ad un
ufficiale delle SS da fumetto, ma sono tratte da dichiarazioni del
1913 del ventiseiesimo presidente degli Stati Uniti d'America, Theodore
Roosevelt ()!
Del
resto, dalla fine dell'ottocento alla Depressione, quasi la
metà
dei genetisti degli USA, paese teoricamente più lontano, per
la propria stessa identità storica, dalle nuove idee erano
coinvolti in un modo o nell'altro, secondo quanto riporta Kenneth
Ludmerer (),
nel movimento eugenetico. Secondo Rifkin,
ciò è del resto facilmente spiegabile con la
convergenza da un lato delle preoccupazioni dell'élite Wasp,
white-anglosaxon-protestant, di trovare
giustificazioni
"ideologiche" al proprio potere nonché ricette per
perpetuarlo; dall'altro, con il tentativo di accademici e politici di
trovare spiegazioni al fallimento dei propri progetti di riforma
sociale.
Molti,
ricorda Rifkin,
erano già all'epoca allarmati per quello che consideravano
essere un «declino della qualità
dell'ereditarietà
del popolo americano», e gli scienziati assunsero ruoli
leader
nella causa genetica nella speranza di «poter aiutare a
invertire la tendenza». Michael F. Guaire giunse sino a
riconoscere che «il destino della nostra civiltà
dipende
da questo problema» ()
(impregiudicata la questione del fatto a quale "civiltà"
lo stesso potesse fare riferimento, e di che punto di vista che se ne
possa avere).
Il
famoso genetista Edwin
G. Conklin, ricorda sempre Rifkin, osservò che
«sebbene
la nostra riserva umana includa alcune delle persone più
intelligenti, morali e progressiste al mondo, questa include anche un
numero sproporzionatamente grande delle peggiori categorie di
persone» ().
Il Prof. Herbert
S. Jennings della John
Hopkins University ebbe a sua volta modo di far presente al
pubblico americano la sua opinione secondo cui «le
preoccupazioni del mondo e i rimedi a queste preoccupazioni risiedono
fondamentalmente nelle diverse costituzioni degli esseri umani. Le
leggi, le abitudini, l'educazione, l'ambiente circostante sono
creazioni degli uomini e riflettono la loro natura fondamentale.
Tentare di correggere queste cose è come curare solamente i
sintomi specifici. Per andare alle radici dei disturbi, deve essere
prodotta una stirpe migliore di uomini, una stirpe che non
dovrà
contenere le razze inferiori. Quando una stirpe migliore
sarà
stata creata, leggi, usanze, educazione e condizioni materiali si
prenderanno cura di se stesse» ().
Nel
1910, Charles
B. Davenport, del Dipartimento di
Genetica del Cold
Spring Harbor Laboratory, New York, spinse la moglie di un
famoso
industriale a fornire i fondi per istituire il primo ufficio
americano di registrazioni eugenetiche. Secondo Davenport,
l'entusiasmo della finanziatrice per il progetto era dovuto al fatto
di essere «cresciuta tra cavalli di razza, i quali la
aiutarono
ad apprezzare l'importanza dello studio dell'ereditarietà
e
di una riproduzione umana ben controllata» ().
A
partire dallo stesso anno, società eugenetiche sorsero nelle
città di tutti gli Stati Uniti. Fra le più
influenti,
ricorda sempre Rifkin, c'erano la Società Galliano di New
York
e le Società di Educazione Eugenetica di Chicago, St. Louis,
Madison (Wisconsin), Battle Creek (Michigan) e San Francisco. Nel
1913 venne fondata l'Eugenic Association e nel 1922 l'American
Eugenic Committee (più tardi noto come American
Eugenics Society [alias).
In
effetti, come sottolineano sia Jacquard che Rifkin,
tale movimento arrivò talora arimettere in discussione
alcuni
postulati fondamentali della società americana, come quando William
McDougall, studioso inglese poi divenuto direttore del
Dipartimento di Psicologia dell'Università
di Harvard, preoccupato che la democrazia politica
tradizionale
rappresentasse un fattore di affermazione delle «razze
inferiori» rispetto
a quelle "superiori", auspicò apertamente un sistema
di caste per gli Stati Uniti, basato su differenze biologiche
misurabili, in cui i diritti politici sarebbero dipesi dalla casta di
appartenenza, nonché la promulgazione di «leggi
che
limitino la riproduzione delle caste inferiori e i matrimoni tra
caste diverse» ()
Comunque,
negli Stati Uniti la "preoccupazione eugenetica" viene
ovviamente declinata secondo canoni moralistici, classisti,
riduzionisti ed universalisti:
se Bene e Male sono
assoluti garantiti dal Dio della Bibbia o da qualche suo
avatar secolarizzato come il Progresso, se
esiste un unico modello umano rispetto a cui la pluralità di
culture e razze non è che un accidente (o magari una
"punizione" divina, come nel mito della torre di Babele),
esistono allora effettivamente caratteri, individui ed etnie
"superiori" ed "inferiori" in senso assoluto,
così che il "paradiso in terra" coincide con
l'eliminazione dei secondi, e il buon cittadino, pronto a farsi
docile strumento della storia e a lavorare per la felicità
futura, deve prestarsi al genocidio non solo delle etnie diverse
("primitive" o "pagane"), ma anche semplicemente
dei "peccatori" all'interno della sua comunità, o
delle "classi inferiori" nell'ambito di questa ().
Lo stadio delle conoscenze dell'epoca e il positivismo
tradizionalmente imperante nella cultura americana fanno il resto.
Così,
con presunzione tipica, Charles
R. Van Hise, all'epoca preside dell'Università
del Wisconsin, scrive nel 1914: «Sappiamo
abbastanza
dell'eugenetica... Se le nostre conoscenze venissero applicate, le
classi imperfette [sic] sparirebbero nel giro di una
generazione»
().
Tali
posizioni erano del resto abbondantemente trasversali rispetto alle
tradizionali suddivisioni ideologiche e professionali nella
società
americana dell'inizio del secolo scorso.
Se Irving
Fischer, il famoso economista di Yale,
scrive nello stesso anno che «l'eugenetica è
sicuramente
la più grande preoccupazione della razza umana» (),
nel 1928 sono più di tre quarti i college
e le
università statunitensi in cui sono attivi corsi
specialistici
sull'eugenetica. Fra gli insegnanti ad Harvard
c'era il criminologo Ernest A. Hooton, che predicava che «il
crimine è il risultato dell'impatto dell'ambiente sugli
esseri
umani di grado inferiore», e che «la soluzione del
crimine è l'estirpazione dell'incapace fisico, morale e
mentale e (se questo sembra troppo severo) la sua completa
segregazione in un ambiente socialmente asettico» ().
Come nota Rifkin,
il mondo dei media e della cultura popolare era ampiamente sulla
medesima lunghezza d'onda: «Potrebbe essere interessante per
gli odierni abbonati di prestigiosi giornali della sinistra liberal
come The
Nation o The
New Republic che i fondatori di entrambe le
pubblicazioni
erano crociati delle riforme eugenetiche. Edwin
Laurence Godkin, fondatore di The Nation,
credeva che
solamente gli appartenenti ai gruppi biologicamente superiori
avrebbero dovuto partecipare agli affari del paese, ed Herbert David
Croly di The New Republic era convinto che i negri
siano "una
razza in possesso di qualità intellettuali e morali
inferiori
a quelle dei bianchi". Immaginate, se vi riesce, un futuro
presidente degli Stati Uniti che sulla rivista Good
Housekeeping scrive che: "ci sono considerazioni
razziali troppo gravi per essere ignorate per qualsiasi ragione
sentimentale". Secondo il presidente
Coolidge, le leggi biologiche ci dicono che ci sono razze
differenti che non si mischieranno o non si integreranno mai.
Coolidge conclude che "i popoli nordici si sono diffusi con
successo, mentre, con altre razze, il risultato mostra un
deterioramento in entrambi i sensi"» ().
Altri
americani famosi non si esprimevano diversamente. Alexander
Graham Bell, che contende a Meucci l'invenzione del telefono
ed il cui nome è all'origine della Bell
Company, parlando all'American
Breeders Association nel 1908, afferma: «abbiamo
imparato
ad applicare le leggi dell'ereditarietà allo scopo di
modificare e migliorare le razze dei nostri animali domestici.
Può
con la conoscenza e l'esperienza che sono state così
ottenute
restare l'uomo incapace di migliorare la specie al quale esso stesso
appartiene?». Bell credeva così che «gli
studiosi
di genetica sono in possesso delle conoscenze per [...] migliorare la
razza» e che fosse necessaria «l'educazione
dell'opinione
pubblica per acquisire l'approvazione delle politiche
eugenetiche»
().
Nemmeno
l'allora nascente movimento dei Boy
Scouts rimase insensibile a tali idee. David Star Jordan, che
fu
vicepresidente del movimento nei primi anni di vita, esprimeva in
ogni occasione il suo convincimento che il programma scoutistico
avrebbe potuto aiutare a coltivare il "nuovo uomo eugenetico" .
Aggiunge
ancora Rifkin:
«Molte femministe dei nostri giorni saranno dispiaciute
nell'apprendere che Margaret
Sanger [alias],
leader nella lotta per i programmi per il controllo delle nascite,
era una profonda credente nella superiorità ed
inferiorità
biologica di gruppi diversi. La Sanger, usando parole tra le
più
forti che siano mai state usate dal movimento eugenetico,
rimarcò
che "è un fatto curioso, ma da non trascurarsi, che
proprio a coloro che in tutta carità dovrebbero essere
cancellati dalla razza umana sia stato permesso di riprodursi e
perpetuare il proprio gruppo, grazie alla politica di indiscriminata
carità di 'cuori caldi' non controllati da 'menti fredde'".
La Sanger aveva le sue idee su come sbarazzare la società
dai
problemi della contaminazione biologica e per promuovere una razza
migliore. Così scrisse: "Tra le persone intelligenti
esiste una sola risposta alla richiesta di una maggiore
qualità
di nascite e questa risposta bisogna richiederla al governo, prima di
caricarci sulla schiena il fardello dei matti e dei deficienti. [...]
La soluzione è la sterilizzazione" (Birth Control.
Facts and Responsibilities, Williams & Williams Co.,
Baltimora 1925)».
In
effetti, se i fascismi puntano soprattutto sulla differenziazione del
successo riproduttivo attraverso l'educazione a valori nuovi e lo
stabilirsi di nuove gerarchie sociali, e i razzisti e darwinisti
sociali inglesi e francesi sulla rigida separazione sociale delle
classi e delle etnie, «gli eugenisti americani»,
ricorda
sempre Rifkin, «guardavano alla sterilizzazione di massa come
principale strumento per i loro sforzi volti all'eliminazione
biologica dei gruppi inferiori dalla popolazione americana».
Nel
1914, Harry
H. Laughlin [alias]
in un rapporto per l'American
Breeders Association – nel quale, davvero
sorprendentemente
per un americano, esprime l'idea propriamente fascisteggiante che
«la
società deve considerare il germoplasma come
appartenente alla società e non solamente all'individuo
che
ne è il portatore» –
concludeva che almeno il 10%
della popolazione era costituita da
«varietà
socialmente inadeguate» che avrebbero dovuto essere segregate
dalla popolazione della federazìone e sterilizzate ().
Tali
posizioni si tradussero del resto in misure concrete. All'inizio del
Novecento decine di migliaia di cittadini americani furono
sterilizzati contro la loro volontà grazie a una serie di
leggi emanate dai singoli Stati. Nel 1907 l'Indiana emanò la
prima, che prevedeva la sterilizzazione obbligatoria, nelle
istituzioni statali, di criminali recidivi, idioti, imbecilli e
altri, e che fu preso successivamente come modello sotto il nome di "idea
dell'Indiana" ().
Nel
periodo tra il 1907 e la prima guerra mondiale altri quindici Stati
emanarono leggi in tal senso. L'avvio della "mania della
sterilizzazione" venne in particolare segnalato da un curioso
disegno di legge, presentato in Missouri, che richiedeva la
sterilizzazione forzata di tutti i soggetti «accusati di
omicidio, rapimento, furti sulle strade, furti di galline, per i
dinamitardi o per i ladri di automobili» (!) ().
È
facile per personaggi come Rifkin,
ai fini della condanna moralistica di qualsiasi intervento umano
sulla propria identità biologica, ironizzare sull'idea,
abbastanza bizzarra anche all'epoca, che esistesse una cosa come...
il gene per il furto delle automobili. Resta il fatto che nell'ambito
del sistema di valori egualitario, non sono neppure oggi in
discussione gli scopi originari di una tale legislazione –
l'affermazione, in chiave moralistica anziché culturale,
universale anziché particolare, di un'ideale "civilizzazione
americana" cui è attribuito il ruolo di redimere il mondo
().
La
costituzionalità di queste leggi non venne presa in esame
fino
al 1927, anno in cui la Corte
Suprema decise, in un caso proveniente dalla Virginia, che la
sterilizzazione era positivamente ricompresa nei poteri di polizia
dei singoli Stati. Uno dei più grandi nomi della storia
giuridica americana, Oliver
Wendell Holmes Jr. [alias]
scrisse: «Abbiamo visto più di una volta come il
bene
pubblico possa richiedere ai migliori cittadini la loro vita. Sarebbe
strano se esso non potesse ormai chiedere a coloro che hanno
indebolito lo Stato un sacrificio minore, allo scopo di prevenire noi
stessi il fatto di essere sommersi dall'incompetenza. Sarebbe molto
meglio, per il mondo intero. se invece di aspettare i risultati della
loro imbecillità, la società potesse prevenire
quelli
che manifestamente sono incapaci dal continuare i loro piaceri... Tre
generazioni di imbecilli sono sufficienti» ().
Ora del 1931, trenta Stati
avevano promulgato leggi
sulla sterilizzazione forzata.
Nel
1925, pubblici funzionari tedeschi avevano nel frattempo contattato
le amministrazioni di vari Stati americani per acquisire appunto
informazioni sulle loro leggi in materia di sterilizzazione. Pare
anzi che uno dei sostenitori dell'eugenetica nella Germania
dell'epoca ebbe a rimarcare: «Quello che viene promosso dagli
igienisti razziali non è per niente nuovo o qualcosa di mai
sentito. In una nazione colta e prim'ordine come gli Stati Uniti
d'America, alla quale noi ci sforziamo di somigliare, questo concetto
è stato introdotto molto tempo fa. È tutto molto
semplice e chiaro» ().
Se è vero, la cosa dovrebbe far riflettere gli esponenti del
terrorismo ideologico militante con riguardo alle vere origini di
certe influenze presenti nel pensiero europeo dell'epoca!
Che
questo ordine di idee, pure nelle intenzioni ispirato ai più
autentici valori americani, finisse per cortocircuitare il sistema
ideologico relativo (),
è d'altronde dimostrato con riguardo alla storia successiva,
ed in particolare al dibattito incentrato sulla legge
federale in materia di immigrazione [alias, alias]che
promulgata nel 1924 resterà in vigore sino al 1965; e
ciò
foss'anche negli aspetti di tale dibattito che è legittimo
considerare caricaturali, e che certamente sono tali più di
qualsiasi analoga letteratura di fonte fascista.
Anche
in Europa, la "trasversalità" delle problematiche
aperte dalle scoperte della genetica e dalla coscienza nascente del
"terzo uomo" è del resto totale. Nota Eric Delcroix,
trattando della letterale illegalità
contemporanea di quest'ordine di idee: «in
Austria, il più intransigente dei partigiani dell'eugenetica
fu senza dubbio Karl
Kautsky [alias]
(1854-1938), parallelamente marxista ortodosso. Prima di lui, il
tedesco Woltmann (1871-1907) ()
aveva tentato di riconciliare marxismo, darwinismo e razzismo ariano.
In Germania, ancora vari anni dopo la prima guerra mondiale, un buon
numero di eugenisti erano ebrei e dunque poco sospettabili di
"nazismo", come Kallmann (che voleva sterilizzare
il 10% della popolazione tedesca), il
genetista Goldschmidt, o il medico Löwenstein (vedi Paul
Weindling in L'hygiène
de la race,
Editions de la Découverte, Parigi 1998, pag. 32 [version
originale: Health,
Race and German Politics between National Unification and Nazism])»
().
È
d'altronde non a caso nel contesto americano che il sociologo liberal
Edward
A. Ross [alias]
pubblica, dopo uno studio durato sedici mesi, un rapporto ()
in cui rileva tra l'altro che i popoli mediterranei sarebbero
«dediti
al sesso e alla violenza ed irrazionali per natura; gli slavi, un
popolo passivo imbevuto di ignoranza e superstizione, tendente
all'alcolismo ed alla violenza sulle donne; gli ebrei, riuniti in
clan, infidi e segreti negli affari». Un altro eugenista, Madison
Grant, cui gli USA tuttora intitolano scuole,
aggiunse all'analisi gli indiani, che «per anni sono stati a
contatto con le migliori civiltà ma non ne hanno tratto
alcun
giovamento, né intellettualmente, né moralmente,
né
fisicamente» e i negri, «che sono volontari seguaci
dei
nordici e che chiedono solamente di obbedire e di assecondare gli
ideali e i desideri della razza padrona» (!) .
D'altronde,
fu il ministro del lavoro dell'amministrazione
Coolidge, James
J. Davis, a "fare il punto" sulla discussione in questi
termini: «l'America è sempre stata orgogliosa di
avere
alle sue origini la razza definita nordica. [...] Dovremmo bandire
dalle nostre coste tutte le razze non naturalizzabili e [comunque]
tutti gli individui, di tutte le razze, che fisicamente, moralmente e
spiritualmente sono indesiderabili, e che costituiscono una minaccia
per la nostra civiltà» ().
Lo
House Committee on Immigration and Naturalization nominò da
parte sua Laughlin [alias]
come esperto di questioni eugenetiche, e ne ottenne queste
conclusioni: «Facendo tutte le concessioni alle condizioni
ambientali [...] il recente fenomeno dell'immigrazione, considerato
nella sua interezza, presenta un'alta percentuale di qualità
innate socialmente inadeguate rispetto alla immigrazione
passata»
(ovvero quella, in sostanza, degli antenati di Laughlin stesso e dei
suoi connazionali di terza o quarta generazione ed oltre) ().
Ciò condusse ad una legislazione sull'immigrazione per quote
etniche che rimase come abbiamo detto in vigore sino al 1965.
Se
quest'ordine di idee non poteva durare, a pena di rimettere in
discussione i miti fondanti e la stessa ragione d'essere degli Stati
Uniti, nati come sfida e rifiuto delle sovranità e
identità
collettive e dell'autodeterminazione popolare che queste implicano,
resta il fatto che gli Stati Uniti, anche dopo il tramonto del
tentativo Wasp di difendere il proprio ruolo particolare nel paese,
continuano a permettersi, come "centro dell'impero", un
controllo sui flussi (im-)migratori e sulla loro composizione etnica
che va ben al di là di quello che il Sistema consente agli
altri paesi "occidentali" (Israele ovviamente escluso).
Secondo
Rifkin, la crisi del 1929 da un lato, e l'affermazione del fascismo
in Europa furono i fattori che contribuirono a "polarizzare"
le posizioni gettando il "movimento eugenetico" americano
in una profonda crisi di identità ().
D'altra
parte, Mark Adams, nel suo studio comparato sull'eugenismo in diverse
parti del mondo, prende giustamente di mira quello che definisce i
"quattro miti" dell'eugenetica «Il
primo consiste nel ritenerla un movimento omogeneo, in sé
coerente e riconducibile esclusivamente al modello tedesco o
angloamericano; il secondo sta nel pensare che essa si
sviluppò
solo dove crebbe la genetica mendeliana, mentre in realtà
paesi come la Francia, la Russia o il Brasile, dove fu dominante il
lamarckismo, ebbero i loro, ed anche forti, movimenti eugenetici; il
terzo mito è che l'eugenetica si affermò come una
pseudoscienza, mentre in realtà almeno fino a tutti gli anni
venti essa fece un tutt'uno con la genetica; il quarto mito consiste
nel pensare all'eugenetica come ad una scienza reazionaria, mentre
essa fu invece un fenomeno storico molto più articolato,
legato anche a politiche considerate "progressiste" o
"riformiste"». ().
Del
resto, la valenza prettamente ideologica e biopolitica
delle scelte di campo rispetto all'eugenismo viene sottolineata
dall'erosione crescente, con il progresso tecnico, dei costi
soggettivi delle pratiche
eugenetiche, in costante diminuzione, in particolare nel momento in
cui all'esposizione dei neonati ed allo stretto controllo parentale o
comunitario sugli accoppiamenti subentra la sterilizzazione chimica o
chirurgica dei ritardi gravi e la riproduzione orientata; e a queste
l'anamnesi prematrimoniale in chiave mendeliana; e a questa ancora la
diagnosi prenatale e lo screening genetico; ed a queste infine la
fecondazione artificiale e la manipolazione diretta e "terapeutica"
in senso proprio delle linee germinali; interventi questi ultimi
rispetto a cui la naturale empatia nei confronti dei soggetti
coinvolti milita interamente in senso favorevole,
al punto da renderne imbarazzante il rifiuto preconcetto in relazione
agli stessi valori umanitari ed invidualisti della visione del mondo
egualitaria ().
La
seconda guerra mondiale, e la fondazione consapevolmente
"antifascista" del Mondo
Nuovo che da essa è uscito, finirà
comunque per
rappresentare lo spartiacque definitivo, specie in relazione alla
demonizzazione esemplare proprio degli aspetti "biopolitici"
delle dottrine e prassi fasciste. D'altronde, se oggi è lo
spauracchio dell'eugenetica e del razzismo che risulta utile per
confermare la definitiva condanna morale del fascismo in generale, e
del nazionalsocialismo in particolare, ancora nel dopoguerra
è
invece... l'accusa di fascismo che serve a scomunicare consapevolezze
biopolitiche che ancora alla fine degli anni quaranta e negli anni
cinquanta risultavano diffuse e quasi ovvie.
Naturalmente,
l'onda lunga della demonizzazione tarda ad arrivare soprattutto
là
dove sospetti di "filofascismo" sarebbero apparsi ridicoli.
Così Charles
De Gaulle una volta al potere poteva ancora permettersi di
dichiarare: «Va
benissimo che vi siano francesi gialli, neri e bruni. Mostrano che la
Francia è aperta a tutte le razze ed ha una vocazione
universale. Ma a condizione che restino un'infima minoranza.
Diversamente la Francia non sarebbe più la Francia. Noi
siamo
comunque prima di tutto un popolo europeo di razza bianca»
().
Ed ancora, in una direttiva al ministero francese della giustizia:
«Sul piano etnico, conviene
limiare l'afflusso degli orientali e dei mediterranei che da mezzo
secolo hanno profondamente modificato la composizione della
popolazione francese. Senza giungere sino ad utilizzare come gli
Stati Uniti un sistema rigido di quote. è opportuno che la
priorità sia accordata alle naturalizzazioni nordiche
(belgi,
lussemburghesi, svizzeri, olandesi, danesi, inglesi, tedeschi,
etc.)»
().
Di conseguenza, l'Alto Comitato per la Popolazione gollista proponeva
un'immigrazione strettamente limitata, e regolata secondo questa
"ricetta" ottimale: «50% di nordici, 30% di latini
del nord, 20% di slavi» .
Al
di là delle preoccupazioni etno-demografiche, anche il
movimento eugenista in senso stretto continua comunque il suo
cammino. È del 1971 la pubblicazione di un numero di Nouvelle
Ecole, la rivista diretta da Alain
de Benoist, integralmente dedicato all'eugenetica (),
che contiene l'ultimo e più ampio studio in materia
anteriore
all'"era biotecnologica", e che crea un profondo scandalo
nella Francia post-sessantottina e tra la borghesia benpensante e di
destra.
La
rivista ripercorre con Jean-Jacques Mourreau le radici e i rami del
pensiero eugenetico europeo, dalle tradizioni antiche di cui abbiamo
già discusso a Rabelais, Montaigne,
Moro,
Campanella, Buffon,
sino agli albori dell'eugenetica scientifica e filosofica con Frank,
Mai, Lucas, de
Gobineau [alias] Morel, Galton,
Ploetz [alias], Molinari, Vacher
de Lapouge, [alias], Schwalbe, Lenz,
Richet, Mjoen [alias],
e proseguire poi sino a giganti come Alexis
Carrel e Jean
Rostand [alias]
e alle legislazioni eugenetiche dei paesi scandinavi e mitteleuropei,
per giungere a descrivere le posizioni eugeniste espresse... in
Unione Sovietica, dove Riazanov,
il presidente dei sindacati di Pietrogrado nonché direttore
dell'Istituto
Marx-Engels, cita nel 1929 con approvazione nell'opera Comunismo
e matrimonio un intellettuale di partito come Evgenij
Preobrazenskij laddove lo stesso sostiene «il diritto
imprescrittibile della società di intervenire nella vita
sessuale al fine di perfezionare la razza [corsivo
nostro]
tramite selezione sessuale artificiale» ().
La
conclusione dell'articolo principale, di Jean-Yves Christen (),
centrato invece sullo "stato dell'arte" dell'epoca,
annuncia già del resto la rivoluzione di questo secolo.
«Possiamo dare per scontato che l'uomo deterrà ben
presto una "potenza biologica" che non ha mai avuto e che
questo stadio (dobbiamo rammaricarcene?) sarà raggiunto
prima
che egli abbia risolto i suoi problemi etici correlati, e quelli che
concernono il suo comportamento al riguardo. È una ragione
in
più per prospettare in termini cinetici
il futuro
deliberato. Le possibilità eugenetiche attuali
saranno
presto rese caduche, o superate. Il certificato prenuziale
migliorato, l'aborto terapeutico, il family planning
organizzato, la sterilizzazione delle tare più notorie, le
inseminazioni artificiali programmate, appariranno molto in fretta
come nulla più di misure di bricolage, o
d'urgenza, dal
momento in cui le prospettive eugenetiche lasceranno intravedere la
prospettiva della programmazione dei tipi desiderabili.
Ci si
può allora chiedere se le concezioni etiche si
"adegueranno",
o se si produrrà un inquietante scollamento,
a livello
di maggioranza o di alcuni. [...]».
L'ideologia
contemporanea non è in grado di gestire
le novità
che tutto ciò comporta. «Ma, anche nella peggiore
delle
ipotesi», continua Christen, «meglio correre il
rischio
che la specie umana si riveli incapace di superare i limiti del
passato, piuttosto che cadere nella decadenza genetica. La vita non
è
fatta di assoluti, ma di occasioni prese qui e là. Di rischi
consapevolmente accettati e calcolati, il più grande rischio
essendo sempre quello di non far nulla. La termodinamica, la biologia
molecolare, la genetica, l'etologia, risolvono tante equazioni quante
ne restano di sconosciute. Bisogna scegliere».
Trent'anni
dopo, gli oppositori della "tentazione eugenetica" non si
fanno più illusioni, se non forse in esorcismi di sapore
ormai
rituale. Il bioetico George
Annas dell'Università
di Boston, uno dei primi a proporre la messa al bando
dell'ingegneria genetica da parte dell'ONU,
è giunto ad affermare, durante...
una visita al museo
dell'Olocausto a Washington: «La
genetica moderna è eugenetica» (). Gilbert
Meilaender, un altro membro
del Concilio
Presidenziale sulla Bioetica americano,
ha scritto sin nel 2001: «La nostra presente condizione
è
questa: siamo entrati nuovamente in un'era eugenetica. La scienza che
tenta di migliorare le caratteristiche ereditarie della specie e che
è diventata tanto improvvisamente fuori moda dopo la seconda
guerra mondiale e i medici nazisti ora si riaffaccia prepotentemente
alla rispettabilità» ().
In
tale contesto, dire come fa Ramez
Naam, che «la connessione
qui con la Germania del periodo della seconda guerra mondiale
è
piuttosto esplicita» (),
pare in effetti un eufemismo. Senonché, il richiamo
incapacitante a passate esperienze "totalitarie" appare
abbastanza problematico per gli "antieugenetici". Nota
infatti l'autore nella stessa pagina: «è
interessante
che nel dibattito in questione, sono oggi proprio quelli che
vorrebbero vedere le tecniche in questione proibite a propugnare un
ferreo controllo di Stato sulla "sacralità" del pool
genetico della popolazione. [...] Sono coloro che si oppongono ad
ogni scelta al riguardo che hanno in sostanza deciso che esiste una
certa "corretta" eredità genetica per l'umanità
(quella che abbiamo oggi) e che al "popolo ignorante" non
dovrebbe essere data alcuna voce in capitolo».
La
manipolazione del vivente
L'obiezione
morale di matrice umanista contro la manipolazione del vivente
è
ben espressa da un dialogo tratto da Jacquard ()
da una sua conversazione con un giornalista: «Domanda:
Lei pretende che non sia possibile migliorare la specie umana;
tuttavia, l'Uomo è riuscito a migliorare numerose specie
animali o vegetali; non può mettere in dubbio, per esempio,
il
miglioramento delle razze equine. Risposta: Se
fosse un
cavallo, penserebbe davvero che si tratti di un
miglioramento?».
La
risposta ovviamente è: l'allevatore, il "secondo uomo",
ha fatto esattamente la scelta di tenere conto del suo
punto
vista, e non di quello del cavallo, perché è in
rapporto a questo punto di vista che si definisce il suo
essere-nel-mondo, la sua umanità intrinseca.
Di
converso, è anzi legittimo ritenere che tale
"soggettività",
e il processo di domesticazione della realtà e di se stesso
che essa implica, costituisca proprio lo specifico umano,
uno
specifico forse tragico, ma che certo può venir giudicato,
specie nella prospettiva indoeuropea, ineluttabile e/o da perseguire.
Abbiamo
già visto d'altronde come la "naturalità" del
mondo del secondo uomo, quella che pure oggi è in crisi, sia
ampiamente sopravvalutata, per l'ovvia ragione che la troviamo come
un dato ricevuto, spesso immutato da secoli. Non c'è niente
di
naturale ad esempio in un campo di grano, e il disboscamento
dell'Italia centrale o l'eliminazione di alcune specie di predatori
nella stessa zona non è frutto della rivoluzione
industriale,
ma era già ad uno stadio avanzato in epoca pre-romana.
La
domesticazione degli animali ha seguito di poco la comparsa
dell'agricoltura organizzata; quella del cane, specie come aiutante
del cacciatore, sembra addirittura averla preceduta, perché
sarebbe avvenuta almeno dodicimila anni fa. Quella dei cavalli, degli
ovini e dei bovini pare più recente, e non andare oltre
seimila anni fa; è stata d'altronde ampiamente preceduta da
quella del maiale, primo animale da carne che ha poi finito,
circostanza interessante, per costituire l'oggetto di complessi
significati simbolici ed interdetti religiosi ().
Come
ammette Jacquard,
questa domesticazione è stata sin dall'inizio accompagnata
da
un'azione mirante ad accrescere le caratteristiche che gli allevatori
giudicavano utili o piacevoli; anzi, sembra che gli sforzi per
conservare tratti eccezionali considerati piacevoli abbiano
largamente preceduto quelli tendenti a migliorare i "rendimenti"
in termini di lavoro, carne, latte o lana.
Un'azione
sistematica per migliorare certe caratteristiche utili del bestiame
tramite incroci diretti risale per i bovini almeno al diciottesimo
secolo. È certamente vero che vi sono conseguenze indirette
"sfavorevoli" della selezione mirata, in particolare in
termini di "fragilità" degli animali e/o accresciuta
incapacità di sopravvivere o riprodursi autonomamente, che
rende necessario rinnovare indefinitamente tale processo ().
A partire dagli anni trenta, grazie ai progressi della genetica delle
popolazioni, i metodi messi a punto in modo empirico nel corso dei
secoli hanno potuto ricevere una solida base teorica. Dalle iniziali
analisi di Fisher [alias]
(),
è tutto un fiorire di modelli che permettono di guidare in
modo più ragionato le scelte del selezionatore, e la cui
diffusione non è estranea all'interesse per l'eugenetica
umana
venuto in luce proprio nello stesso periodo.
Come
ammette Jacquard,
i risultati raggiunti già in epoca pre-biotecnologica non
possono essere messi in discussione: «Il rendimento in latte
delle mucche, il ritmo di crescita dei maiali, la produzione di uova
dei polli, tutte le caratteristiche degli animali da cui dipende la
nostra alimentazione sono state migliorate in modo talvolta
spettacolare: se in una nazione "tradizionale" [e la cui
popolazione bovina è già e dappertutto
frutto di una domesticazione e selezione secolare, N.d.A.] una vacca
fornisce 400 litri di latte all'anno, negli Stati Uniti il rendimento
medio raggiungeva nel 1955 i 4725 litri, e nel 1967 aveva superato i
5500». Risultati altrettanto indiscutibili sono del resto
raggiunti nella selezione di caratteristiche quali le prestazioni dei
cavalli da corsa, o la specializzazione ed addestrabilità
dei
cani.
I
risultati nella manipolazione delle specie vegetali, ad esempio nella
coltivazione dei cereali, sono ancora più spettacolari ().
Esistono
per la verità ragionevoli teorie per cui gli esseri umani
non
sono realmente adattati ad una dieta basata sugli amidi – che
presuppone semina, coltivazione, lavorazione e soprattutto cottura
(un uomo nudo in un campo di grano muore di fame), così che
l'assunzione di tali alimenti è entrata nelle abitudini
della
nostra specie, attestata da almeno trecentomila anni (),
solo da una manciata di millenni. Anzi, i portati della paleopatologia tendono a
dimostrare che una serie di malattie (dalla carie al
diabete, alle disfunzioni cardiovascolari, a certi tipi di cancro,
alla tendenza all'obesità), che si tende facilmente ad
attribuire alla "vita moderna", sono molto più
antiche e risalgono in effetti al mutamento di dieta seguito
all'avvento dell'agricoltura, mentre lasciano pressoché
indenni le popolazioni che nello stesso periodo o anche
successivamente continuano a vivere in società di caccia e
raccolta ().
Anche qui, è del resto interessante notare come le
aristocrazie della società del "secondo uomo"
tendono regolarmente a perpetuare modi di vita arcaici, tramite una
dieta in media molto più ricca di proteine e verdure fresche
che di cereali ().
Sia
quel che sia, una società basata in via generale su
un'economia di caccia e raccolta necessita di un territorio immenso
per sostentare una popolazione minima, e costringe di fatto
quest'ultima al nomadismo, così che è appunto il
passaggio ad una dieta basata per la gran parte della popolazione sui
carboidrati che ha consentito la prima grande esplosione demografica,
ed il cambiamento di abitudini culturali insito nella nascita di
agglomerati urbani e nella vita stanziale. Ed è sempre
l'agricoltura che ha accompagnato lo sviluppo esplosivo della
popolazione mondiale negli ultimi due secoli, dalla rotazione delle
colture sino a giungere alla "rivoluzione verde" del
secondo dopoguerra.
Un
esempio notevole è quello del grano e dei risultati ottenuti
dal Centro Internazionale di Miglioramento del Grano dell'Università
di Chapingo, in Messico .
In tale paese la coltivazione del grano non aveva da secoli compiuto
alcun progresso, sino all'istituzione di tale centro alla fine degli
anni quaranta. All'epoca il rendimento raggiungeva appena i 9
quintali per ettaro; la raccolta annuale di 3 milioni di quintali non
copriva neppure metà del fabbisogno nazionale. Norman Burla,
responsabile del centro, cercò, tra le circa cinquemila
varietà coltivate nella regione, quelle che offrivano la
migliore resistenza alla ruggine dei cereali; le incrociò
con
una varietà giapponese a culmo corto, effettuò
decine
di migliaia di tentativi di ibridazione e ottenne nuove
varietà
che avevano tutte le caratteristiche desiderate dai coltivatori: una
pianta sufficientemente corta per non allettare, in grado di
resistere alla siccità, capace di tollerare una forte
concimazione azotata e di sfruttarne l'apporto per produrre chicchi
più grossi e più numerosi. In condizioni ideali,
fu
possibile ottenere 75 quintali per ettaro. Dal 1965 la quasi
totalità
dei coltivatori messicani utilizza le sementi messe a punto
dall'Istituto, e già in tale anno la locale "battaglia
del grano" portò ad un raccolto superiore ai 22 milioni
di quintali.
Gli
sforzi di ricerca mirati di altri paesi hanno presto raggiunto
analoghi successi, consentendo ad esempio di raggiungere rendimenti
vicini ai 20 quintali per ettaro in condizioni semidesertiche. I
risultati raggiunti non sono stati del resto solo quantitativi. Ad
esempio, ricercatori indiani sono riusciti già negli anni
sessanta, grazie a mutazioni indotte con raggi X, a ottenere nuove
varietà di grano più ricche di proteine, e in
particolare di proteine contenenti lisina, in modo da limitare i
danni di un'alimentazione largamente basata sul cereale in questione,
ad esempio sotto forma di pane.
Altre
piante hanno beneficiato di simili ricerche. Le diverse
varietà
di riso coltivate nella stazione di ricerca dell'Università
agricola del Pendjab indiano avevano, sempre nel 1965, un
rendimento medio di una tonnellata per ettaro; la creazione e
diffusione di varietà semi-nane ha fatto passare tale
rendimento a 1,8 tonnellate nel 1970 e 2,6 nel 1975. Tutti conoscono
lo straordinario sviluppo della coltivazione del mais; prima ancora
delle varietà OGM, le stazioni sperimentali dell'Iowa e del
Wisconsin non solo avevano già rendimenti che in altre
epoche
sarebbero stati ritenuti miracolosi, e superiori a 50 quintali
all'ettaro, ma un'uniformità tale da renderne possibile la
raccolta meccanizzata.
La
manipolazione di tali specie comporta inevitabilmente rischi e
problemi sia dal punto di vista strettamente biologico ed umano, che
da quello politico-economico e culturale, come vedremo in particolare
con riguardo ai cosiddetti "organismi geneticamente modificati"
();
ma giova notare sin d'ora come rispetto ad essa siano difficilmente
sostenibili risposte neo-primitiviste, o ingenuamente "di
destra".
Dal
punto di vista egualitario, sussiste un ovvio conflitto tra la
"peccaminosità" intrinseca di tali, pure
tradizionali, manipolazioni e la preoccupazione umanitaria legata
alla "fame nel mondo". Da altri punti di vista, non è
possibile ignorare il significato che l'adozione o meno di tali
tecniche assume in chiave di autosufficienza alimentare, e
perciò
in ultima analisi di indipendenza politica, ed in
termini di capacità delle società che
ne fanno uso di sostenere
una demografia radicalmente diversa a parità di territorio,
esattamente come è successo all'epoca della rivoluzione
neolitica e dell'avvento dell'agricoltura, e di nuovo con conseguenze
ovvie in termini di sopravvivenza a medio-lungo termine della
comunità di riferimento e della sua base biologica, rispetto
alle altre con cui si trova in concorrenza riproduttiva.
Abbiamo
visto come sia d'altronde ugualmente inadeguato l'approccio
progressista ingenuo, da Ballo
Excelsior [alias],
che considera gli effetti della manipolazione del vivente ed il
progresso delle tecniche al riguardo in chiave indiscriminatamente
"ottimista" ed universalista, come stadi in un percorso di
graduale miglioramento, inteso in termini essenzialisti ed assoluti,
destinato a portarci dritti dritti nel paradiso terrestre
dell'abbondanza, e della fine dei conflitti e dell'alienazione ().
Anzi, proprio l'acquisita consapevolezza
dell'insostenibilità
di tali visioni si trasforma oggi, specie da sinistra, in argomento
di condanna e "dubbio" sistematico rispetto alla
manipolazione del vivente, alla luce anche di una aumentata presa di
coscienza della sua portata prometeica, nel momento in cui tale
manipolazione viene a sfociare in una determinazione globale
dell'uomo e del suo ambiente da parte dell'uomo stesso.
Scrive Jacquard:
«Ad ogni tappa dei loro sforzi i selezionatori hanno
migliorato
per esempio le razze di fagioli; non si tratta di mettere in dubbio
l'interesse di ciascuno dei progressi realizzati, ma il risultato
finale è davvero un miglioramento? Le varietà
ottenute
hanno rendimenti meravigliosi nelle condizioni molto particolari in
cui le coltiviamo; sono incapaci di sopravvivere nelle dure
condizioni che il più delle volte offre l'ambiente naturale.
[...] Non abbiamo migliorato né il grano né i
cavalli:
abbiamo migliorato la capacità del grano di utilizzare certi
concimi, la capacità delle mucche di produrre latte, la
capacità dei cavalli di correre rapidamente. [...] Il
patrimonio genetico di queste qualità è migliore
del
patrimonio ancestrale? O, al contrario, gli è inferiore? A
questa domanda non può essere fornita alcuna risposta. Il
risultato dipende dalle condizioni in cui effettuiamo il
confronto»
().
Ciò
è assolutamente vero, ed anche ovvio.
Ciò che è invece del tutto immaginaria
è
l'esistenza di un patrimonio ancestrale, di un ambiente naturale, cui
sia oggi possibile fare riferimento. Il granoturco,
o mais, è stato selezionato ed incrociato per
migliaia di
anni, prima che dagli agronomi e dai genetisti, dagli indiani
Maya; ancora prima della scoperta dell'America, le
varietà
coltivate erano già così lontane dall'avere le
caratteristiche naturalmente necessarie alla riproduzione da non
potersi affatto perpetuare senza un intervento umano. Oggi, se un
cataclisma provocasse l'estinzione della specie umana,
contemporaneamente scomparirebbe dalla faccia della terra anche il
mais; ne rimarrebbe probabilmente una sola specie, la teosinta,
inadatta alla coltivazione ed oggi considerata un'erbaccia, ma che a
quanto è stato ipotizzato sarebbe la lontana antenata del
mais, o almeno una discendente selvatica di un antenato del mais.
Cos'ha di "naturale" il mais con cui da secoli viene
preparata la
polenta nelle valli alpine e nella bergamasca, e da millenni
le
pappe o le pannocchie abbrustolite delle popolazioni andine?
La
verità è che qualunque
giudizio sulla validità
di un corredo genetico non può che essere relativo; ma la
relatività del giudizio in questione non lo rende meno
"vero",
a partire naturalmente dal contesto e dalle scelte di valore cui lo
stesso fa riferimento.
Ugualmente,
se la varietà e ricchezza della biosfera sono oggi
minacciate,
la loro conservazione futura non può che essere frutto di
una
scelta deliberata, politica, e del tutto artificiale,
così
come la conservazione nel patrimonio genetico delle specie vegetali
ed animali, uomo compreso, di caratteristiche "ancestrali"
e/o prive di un significato adattativo nelle concrete condizioni
ambientali in essere, ma che è possibile scegliere
di
mantenere, per lungimiranza – in vista della sopravvivenza
nel caso
di un mutamento profondo di tali condizioni ambientali –,
oppure
per ragioni estetico-affettive e culturali. La raccolta,
classificazione e protezione del selvatico e delle razze locali, per
il relativo patrimonio genetico, è anzi una prospettiva
moderna, o meglio post-moderna, che ben può porsi
in
contrasto con pratiche millenarie volte invece alla riduzione
e specializzazione, specie delle varietà
vegetali, a
favore di quelle utili, e tra queste a quelle qualitativamente e
quantitativamente preferibili per il contadino e i suoi padroni o
clienti. In questo senso sembra problematico rappresentare
l'agricoltura tradizionale, decantata in questo senso ad esempio da Giovanni
Monastra (),
come "custode" di una varietà biologica che essa
storicamente non ha mai fatto altro che ridimensionare e combattere.
Naturalmente,
la prima manipolazione della biosfera avviene, prima ancora che
tramite la selezione o lo sterminio (o... la conservazione deliberata
ed artificiale) di specie e razze vegetali ed animali,
indirettamente, attraverso l'alterazione dell'ambiente, alterazione
che costituisce il marchio del "secondo uomo" rispetto al
primo.
Tale
alterazione oggi non fa altro che giungere a compimento:
prima
dell'industria, dell'inquinamento industriale, delle grandi
monoculture, dell'effetto serra, il panorama del pianeta è
stato radicalmente trasformato dal disboscamento, dal pascolo, dalla
seminatura, dall'insediamento artificiale di specie al di fuori al di
fuori del loro habitat originario. Se tutto ciò nell'Europa
centrale e meridionale e nel bacino del Mediterraneo è in
atto
da migliaia di anni, la radicale trasformazione di zone periferiche
come Islanda o Australia si è compiuta integralmente nella
nostra era. E tutto ciò va certamente nel senso di una
diminuzione della ricchezza biologica della Terra. Le specie e le
razze si sono sempre estinte, e conservare specie destinate
all'estinzione è altrettanto "manipolatorio" che
accelerare quest'ultima; ma se è vero come sostengono alcuni
autori che all'epoca dei dinosauri si estingueva circa una specie
ogni mille anni, all'inizio dell'era industriale una ogni dieci, ed
oggi saremmo al ritmo di tre
specie estinte all'ora (),
è lecito porsi il problema, in particolare quando
non sono
affatto chiarite le condizioni e modalità della (possibile)
apparizione di nuove specie, ed è addirittura
rimesso in
dubbio, e non solo da parte dei fondamentalisti biblici, il fatto
che processi di speciazione siano oggi tuttora in corso ().
La
varietà e ricchezza della vita sulla Terra riguarda del
resto
tanto il grado di varianza all'interno delle
popolazioni,
quanto il grado di varianza delle popolazioni
l'una
rispetto all'altra; e per quanto riguarda le popolazioni
umane,
parrebbe naturale che la sua difesa debba riguardare innanzitutto la
difesa appunto della differenza della popolazione interessata,
e la lotta all'entropia etnoculturale da cui tale differenza
è
inevitabilmente minacciata. Entropia che abbiamo visto agire
attraverso una crescente eliminazione dei fattori di segregazione
(immigrazione, monoglottismo, sradicamento, panmissia, etc.) e di
selezione orientata (uniformizzazione dell'ambiente e dei modelli
culturali a livello planetario).
La
manipolazione del vivente verificatasi dalla rivoluzione neolitica
non si è fermata comunque all'alterazione dell'ambiente,
alla
domesticazione ed alla selezione orientata. Clonazione, innesti,
ibridazione, monocultura, fecondazione artificiale, fanno ugualmente
parte di un repertorio di strumenti tradizionale, anche se a lungo
principalmente vertente sul mondo vegetale. Nel diciannovesimo secolo
l'oidio,
la pebrina e la filossera hanno messo in ginocchio
in pochi anni l'allevamento dei bachi e la
coltivazione della vite nel continente europeo a seguito appunto
dell'utilizzo esclusivo, da secoli, di ceppi poi rivelatisi
vulnerabili ().
Come sanno anche i bambini, il mulo
che accompagnava e talora accompagna ancora oggi l'alpino è un ibrido
sterile prodotto deliberatamente ad ogni
generazione tramite l'incrocio "contronatura" di due specie
diverse, per gli scopi del medesimo alpino.
Ciononostante,
la frattura epocale cui siamo oggi confrontati non può
essere
sottovalutata, e le sue conseguenze sono politiche
ed
esistenziali ad ogni livello. Siamo di fronte non solo a scelte di
civiltà, ma a scelte che decideranno dell'egemonia futura
sul
pianeta e della nostra capacità di cambiare, o secondo i
casi
conservare, i modi di vita che abbiamo conosciuto sino ad ora.
Nota
Kempf, a proposito che quella che definisce da parte sua la rivoluzione
biolitica: «L'umanità
ha compiuto l'impresa di affermare la sua signoria sulla natura
aperta con la rivoluzione neolitica; essa si impegna ora in
un'impresa di affermazione della sua signoria sugli organismi
biologici al livello individuale e di trasferimento di
proprietà
biologiche alla materia inerte ().
L'effetto delle potenti tecniche che cominciamo ad impiegare per
manipolare il vivente e per animare l'artificiale rende cruciale per
la nostra generazione riattualizzare le questioni di ciò che
sono e l'uomo e la vita. Non cambiamo di mondo, cambiamo di
essere»
().
E
ancora: «La mia
ipotesi è che le ricerche contemporanee manifestino, al di
là
delle loro preoccupazioni immediate e dei loro metodi, una coerenza
globale. Il loro avvento non ha luogo come un'insorgenza disordinata,
ma come il prodotto di una volontà comune di agire
dall'interno sul vivente, trasformando l'organismo biologico,
animando costruzioni minerali o logiche, o avvicinando i due tipi di
tecnica. Tale volontà pare abbastanza antica
perché se
ne possano cogliere le traccie in diverse mitologie. Ma mai aveva
preso una espressione così manifesta come oggi. Offrendogli
i
mezzi della sua realizzazione, le nuove tecniche forgiano un
cambiamento del rapporto dell'umano con il mondo così
profondo
da apparentarsi ad una rottura, una rottura di cui si trovano pochi
esempi equivalenti nella storia umana»
().
L'esempio
paradigmatico è quello che abbiamo già discusso:
«Qualche migliaio di
anni fa, le società umane hanno cominciato a passare da un
modo di sussistenza basato su caccia e raccolta a un'economia fondata
sull'agricoltura e l'allevamento – in breve, dal saccheggio
allo
sfruttamento. La costituzione di riserve alimentari ha permesso di
affrancarsi dalle costrizioni ecologiche immediate. Questa mutazione,
che ha definitivamente trasformato l'organizzazione delle
società
umane, fu battezzata rivoluzione neolitica dall'archeologo
australiano Gordon
Childe negli anni trenta. Se l'archeologia ha
precisato la descrizione del fenomeno – un processo disteso
su vari
secoli e millenni, ed affermatosi in circa sette focolai geografici
principali – ne ha conservato l'idea generale. L'entrata
nell'era
neolitica ha marcato un cambiamento radicale del rapporto tra l'uomo
e la natura. Prima, bisognava sottomettersi ad una potenza
incommensurabile che dispensava arbitrariamente gli alimenti della
sopravvivenza; presto, divenne possibile mettere sotto controllo
queste forze minacciose o misteriose per asservirle alla
soddisfazione dei bisogni umani. [...] Oggi, fortificata dai nuovi
poteri usciti dalla conoscenza scientifica, la civiltà
neolitica ha compiuto la sua impresa: non esiste più una
natura "selvaggia". Come ha constatato la rivista Science,
"non vi sono più posti sulla terra che non siano
nell'ombra dell'umanità". L'umanità influenza
oggi
totalmente la biosfera, per trasformazione diretta o tramite modifica
dei suoi equilibri biochimici. Non che essa ne padroneggi i processi,
ma non ne esiste più alcuna parte che sia immune dalla sua
influenza. [...] Ebbene, come i nostri antenati sono entrati in
un'era nuova quando hanno cominciato la conquista della natura
selvaggia, nello stesso modo, trasformando il vivente e tentando di
proiettarne le caratteristiche nella materia inerte, noi entriamo in
una nuova era, dominata dalle tecniche che sposano il vivente
(βίος, bios) al
minerale (λύθος, lithos)
e che è appropriato chiamare biolitica»
().
Pur
se declinato nell'ambito di limiti mentali americani ed economicisti,
è interessante quello che scrive al riguardo di questa
rivoluzione il più volte citato Jeremy
Rifkin: «I grandi cambiamenti nella storia
avvengono quando
forze culturali, economiche e tecnologiche si uniscono per creare una
nuova "matrice operativa". Ci sono sette elementi che
compongono la matrice operativa del secolo delle
biotecnologie».
Questi
i sette elementi individuabili secondo l'autore:
«Innanzitutto,
la possibilità di isolare, identificare e ricombinare i geni
fa del pool genetico una nuova materia prima. Le tecniche del DNA
ricombinante e altre biotecnologie consentono agli scienziati di
individuare, manipolare e sfruttare le risorse genetiche per fini
specifici. In secondo luogo, la concessione di brevetti sui geni,
sulle linee cellulari, sui tessuti, sugli organi e sugli organismi
manipolati geneticamente, nonché sui processi usati per
alterarli, crea i presupposti per lo sviluppo e lo sfruttamento
economico delle relative risorse. In terzo luogo, la globalizzazione
rende possibile una ricostruzione complessiva della biosfera mediante
una seconda genesi concepita in laboratorio, la creazione di una
natura bioindustriale prodotta artificialmente e costruita per
rimpiazzare gli schemi propri dell'evoluzione. Un'industria mondiale
delle scienze della vita sta per acquisire un potere senza precedenti
sulle vaste risorse biologiche del pianeta. In quarto luogo, la
mappatura dei circa centomila geni che fanno parte del genoma umano,
le nuove scoperte nel campo dello screening genetico, i bio-chip, la
terapia genica a livello di cellule somatiche e di manipolazione
genetica degli ovuli, degli spermatozooi e delle cellule embrionali
umane, stanno aprendo la strada all'alterazione della specie umana e
alla nascita di una civiltà eugenetica pilotata dal
commercio.
In quinto luogo, una serie di nuovi studi scientifici sulle basi
genetiche del comportamento umano e la sociobiologia, che privilegia
la natura rispetto all'educazione, forniscono un contesto culturale
per l'estesa accettazione delle nuove idee e tecnologie. In sesto
luogo, il computer fornisce il mezzo di comunicazione e di
organizzazione per gestire le informazioni genetiche che
costituiscono la materia delle biotecnologie. In tutto il mondo, i
ricercatori usano comunemente i computer per decifrare, scaricare,
catalogare e organizzare le informazioni genetiche, e ciò
permette loro di creare un nuovo magazzino di capitale genetico da
usare nell'era bioindustriale. Le tecnologie del calcolo e quelle
genetiche si stanno fondendo in una potente nuova realtà
tecnologica ().
In settimo luogo, un nuovo atteggiamento culturale nei confronti
dell'evoluzione sta cominciando a rimpiazzare l'impostazione
neo-darwiniana con una visione della natura che sia compatibile con
gli assunti delle nuove tecnologie e della nuova economia
globale»
().
Parte
di ciò che Rifkin descrive, e denuncia, è un
"incubo"
solo per chi sia legato ai pregiudizi ideologici egualitari e
umanisti dell'autore, e per altri potrebbe anzi contenere gli
elementi di un sogno di scala fino ad oggi impensabile. Per il resto,
ovvero per la parte più genericamente pessimista, lo
scenario
ipotizzato è certo perfettamente possibile, ma non
è
che una delle alternative che si aprono al "secolo
biotech"; e ciò che unicamente può evitarlo non
saranno certo atteggiamenti di luddismo primario, proibizionismi
improbabili, o "denuncie" di questo tipo, ma solo una volontà
tragica, di natura politica e culturale, che
raccogliendo la sfida della postmodernità trasformi la crisi
che si annuncia nell'opportunità di una rifondazione
ed
una rinascita dei destini storici dell'uomo. Come
insegna Hölderlin,
«dove il pericolo è più
grande, là
nasce ciò che salva» ().
Il
secolo biotech
Il
secolo che Jeremy
Rifkin definisce "il secolo della biotecnologia" è
quello cominciato pochi anni fa, ma in realtà i suoi primi
passi li muove attorno la metà del Novecento. Per la
verità
già dal 1914 Hermann
Müller aveva provocato le prime mutazioni
artificiali in un animale
sottoponendo mosche della frutta ai raggi X. «Per
la prima volta, una forza artificiale, una macchina ai raggi X, aveva
cambiato la struttura fondamentale di un animale. Questo era un
impatto pratico, tangibile, non un trucco, non un cambiamento
provocato da un incrocio vecchio stile. I media riportarono
l'esperimento e dissero che un giorno, forse presto, gli scienziati
avrebbero creato individui progettati»
().
Ma all'epoca nessuno aveva idea di quale fosse esattamente la base
biologica dei geni.
All'origine
potremmo invece porre forse la scoperta del ruolo degli acidi
nucleici con riguardo all'ereditarietà da parte di Oswald
Avery. Avery pubblicò la sua scoperta nel febbraio
1944,
in un articolo nel Journal
of Experimental Medicine. «Non
fu, come un profano potrebbe aspettarsi, intitolato "Eureka!
Rivelato il segreto della vita sulla Terra! I geni sono fatti di
DNA!". Il codice tribale della scienza, specie negli anni
quaranta, richiedeva ai ricercatori di attenersi strettamente ai
fatti, e sperare che i loro colleghi potessero vedere attraverso il
gergo anodino e rendersi conto, cosicché all'articolo di
Avery
fu dato il titolo impenetrabile di "Studi sulla natura chimica
della sostanza che induce trasformazioni nei tipi di pneumococco.
Induzione di una trasformazione da parte di una frazione di acido
desossiribonucleico isolato da uno pneumococco di tipo III"»
().
Tale
scoperta costituisce anche una prima premonizione del matrimonio
annunciato tra genetica ed informatica. Certo, la genetica di Mendel
era "digitale" nel suo essere particolata rispetto agli
assortimenti indipendenti di geni attraverso i pedigree. Ma la base
fisica dei geni era sconosciuta, ed essi avrebbero ancora potuto
essere elementi con qualità, varietà, incidenza,
variabili in modo continuo ed inestrecabilmente connessi alla loro
manifestazione fenotipica. Quello che diventerà la genetica
di Crick [alias,
alias]
e Watson è intrinsecamente
digitale e discontinua, sino al suo
cuore stesso, la famosa doppia elica. La dimensione di un genoma
può
essere esattamente misurata in gigabasi con la stessa precisione con
cui la capienza di un disco per computer può essere misurata
in gigabytes. «Oggi
la genetica è pura tecnologia dell'informazione. E'
esattamente per questo che un gene antigelo può essere
copiato
da un pesce artico ed incollato in un pomodoro»
().
La
prima base per ricadute pratiche venne comunque alla luce verso
metà
degli anni cinquanta, quando i citologi riuscirono a trovare dei
metodi per la costruzione del "carotino", ovvero per la
separazione dei cromosomi dal resto della cellula, così da
consentirne lo studio al microscopio elettronico. Per la prima volta,
fu così possibile correlare le anomalie dei cromosomi con le
malattie genetiche, facendo nascere «la genetica medica,
ovvero
quel ramo della genetica che abbraccia lo studio delle malattie
genetiche sia a livello cromosomico sia a livello del
paziente»
().
Nel
1968, due ricercatori svedesi, Torbjörn
O. Caspersson e Lore
Zech, scoprirono poi che ogni gene ha una diversa
quantità
delle quattro basi azotate che formano i nucleotidi, e cioè
guanina, adenina, timina, e citosina, nonché individuarono
un
composto, la mostarda di acridina e chinarcina, che ha
affinità
con la guanina, e consente perciò di colorare i cromosomi
evidenziando le quantità di guanina, rendendo per la prima
volta possibile l'identificazione di singoli cromosomi umani. Con
l'aggiunta di altre simili tecniche di colorazione, verso la fine
degli anni settanta i genetisti si trovarono già in grado di
collegare tratti genetici specifici a malattie note, tanto che al
primo convegno nel 1972 sulla mappatura genica venne annunciata la
mappatura di circa cinquanta geni supplementari, portando il numero a
centocinquanta, destinati ad arrivare a circa millecinquecento nel
1986.
Nel
1988 venne quindi lanciato il Progetto
Genoma [alias],
promosso da Watson e Crick [alias,
alias]
()
e che vide coordinati tutti gli enti pubblici di ricerca statunitensi
in uno sforzo miliardario e pluriennale volto alla mappatura
dell'intero DNA umano ().
Poco dopo altri governi lanciano progetti analoghi, ma sarà
una società commerciale, la Celera
Genomics, a completare il progetto nell'aprile del 2000,
circa un
decennio in anticipo sul previsto, lavorando a partire dai dati
già
resi pubblici e sviluppandoli sulla base dell'impiego massiccio di
risorse di calcolo computerizzato, e richiedendo alcune migliaia di
brevetti in relazione ai risultati conseguiti ().
Naturalmente, la mappatura del codice genetico è solo
l'inizio
per identificare il ruolo e la funzione di ciascun singolo gene, ma
costituisce il presupposto per giungere a capire il funzionamento
dell'intero corredo genetico di
un dato organismo. A
questo punto sono del resto da tempo in corso analoghi "Progetti
Genoma" per piante, microorganismi ed altre specie animali, per
un investimento mondiale complessivo di miliardi di dollari ().
Richard
Dawkins ha d'altronde recentemente provveduto ad estrapolare
nel
futuro l'andamento di tempi e costi per la mappatura genetica,
notando come nel 1965 è costato circa mille sterline per
"lettera", o coppia di basi, sequenziare l'RNA di alcuni
batteri, che nel 1975 sequenziare il DNA del virus .X174 è
costato circa dieci sterline per coppia; e che nel 1995 eravamo
già
a una sterlina nel caso del nematoda Caenorhabditis
elegans. Quando è
stato completato il progetto Genoma Umano nel 2000, eravamo
già
a 10 pence. Ora, anche
ammettendo che tale evoluzione si assesti su una progressione simile
a quella dettata dalla legge
di Moore (),
la previsione più prudente parrebbe indicare che al
più
tardi nel 2050 saremo in grado di sequenziare l'intero genoma di un
singolo individuo umano (o, se per questo, animale o vegetale) con
tempi e prezzi simili a quelli oggi applicabili ad un banale esame
del sangue ().
Craig
Venter ritiene invece che
entro il 2008 il suo Center for Advancement of Genomics (oggi J.
Craig Venter Institute)
sarà in grado di sequenziare l'intero genoma individuale di
un
uomo per circa mille dollari, ed altri fanno previsioni ancora
più
aggressive ().
Naturalmente,
conoscere il codice genetico di un organismo non significa ancora
capire tutto di quell'organismo, e come nota Dawkins
ci sono tre passi ulteriori da fare. Il primo, difficile ma ormai
completamente risolto, è calcolare la sequenza di aminoacidi
nella proteina prodotta dal gene dalla sequenza di nucleotidi di
quest'ultimo. Il secondo, è calcolare la forma
tridimensionale
della proteina dalla sequenza degli aminoacidi che la compongono. Il
terzo, è calcolare che embrione il gene è
destinato a
produrre tenuto conto del suo "ambiente" (costitutuito in
primo luogo dagli altri geni compresenti, ma anche dalla cosiddetta
informazione perigenetica) ().
L'idea è che sempre nel 2050 sia possibile imputare in un
computer il codice genetico di un mammifero, ed ottenere il calcolo
del tipo di embrione che tale codice è destinato a produrre.
E' possibile d'altronde che stante l'irriducibilità dei
calcoli necessari, il programma e l'hardware più efficienti
per effettuare tale calcolo restino, come vedremo,... il gene stesso
ed un utero ().
A
sua volta, il calcolo delle differenze tra il genoma di specie
diverse, per esempio gli esseri umani e gli scimpanzé,
consente di individuarne i tratti distintivi, e magari ricostruire
specie diverse ed estinte imparentate con entrambi ().
Altra questione non irrilevante è la prospettiva
dell'introduzione di alterazioni importanti negli animali superiori:
«I bioetici discutono
frequentemente le possibili sfide di un'intelligenza umana
incrementata», nota Gregory
Stock [alias],
«senza rendersi conto che
tali possibilità saranno necessariamente precedute da
incrementi su animali, dato che non esistono altri modi per
sviluppare e testare interventi di questo tipo. Raddoppiare
come è stato fatto l'arco di vita di un verme o di un topo
può
non minacciare le nostre nozioni di identità umana, ma
incrementare sostanzialmente l'intelligenza di un topo è
un'altra questione. Qualsiasi sostanziale modifica o miglioramento
dell'intelligenza di una scimmia superiore o di un cane solleverebbe
ulteriori questioni, specialmente se la loro intelligenza venisse ad
avvicinarsi alla nostra»
().
Scriveva Faye
già
nel 1998: «Una delle tesi centrali della nozione di
archeofuturismo che cerco di promuovere è la seguente: in
modo
paradossale la tecnoscienza del XXI secolo sta mettendo alle
corde
la modernità. Essa rischia di riabilitare
concezioni
inegualitarie e arcaiche. Un semplice esempio in materia di genetica:
la mappatura del genoma umano, lo studio delle malattie ereditarie,
la messa a punto delle terapie genetiche, le ricerche sulla chimica
del cervello, sull'AIDS e sulle malattie virali,
etc., cominciano già a far apparire
concretamente, nei suoi fattori determinanti, l'ineguaglianza
dell'uomo. La comunità scientifica
è presa tra
l'incudine e il martello: come al tempo stesso obbedire alla censura
del politically correct, cedere al terrorismo
intellettuale
dell'egualitarismo, e proclamare verità scientifiche che
potrebbero rivelarsi terapeuticamente utili ()?
Ci sarà conflitto, e conflitto grave. Già ora i
genetisti, i sessuologi, i virologi, hanno sempre più
difficoltà a nascondere che uno dei mitemi canonici della
religione dei Diritti dell'Uomo, cioè il postulato della
"sostanziale" uguaglianza genetica dei diversi gruppi umani
e quello dell'individualizzazione genetica degli uomini è
scientificamente insostenibile» ().
E
aggiunge: «D'altra parte, è chiaro che le
biotecnologie
(procreazione assistita, impianti biotronici, organi artificiali ed
addizionali, clonazione, terapie geniche, manipolazione del genoma,
tutte tecnologie che senza osare pronunciare la parola rispondono ad
una logica eugenetica), non saranno accessibili a tutti né
rimborsabili dal sistema sanitario nazionale, né applicabili
altrove che nei grandi paesi industrializzati. Un eugenismo di fatto,
proposto ad una minoranza la cui aspettativa di vita ne
uscirà
in più rafforzata: il colmo dell'ineguaglianza sta per
scivolare come un virus nel cuore della civiltà egualitaria
e
moderna. Altro problema seccante: come reagiranno i nostri umanisti
quando saranno prodotte chimere (ibridi uomo-animale) e cloni per
creare banche d'organi e del sangue, migliorare lo sperma, testare
medicine? Tenteranno di vietarlo? Non ci riusciranno. Per sopportare
lo choc globale della genetica del futuro, occorrerà una
mentalità arcaica». Una mentalità
non-umanista,
che sia in grado di orientare, legittimare e integrare il nuovo
potere dell'uomo su se stesso nel quadro della costruzione di un
destino collettivo di razza e di specie, e che appare oggi
alternativa necessaria alla disumanizzazione che la
paralisi e
la resa dell'ideologia dominante finiscono per comportare.
Infatti,
nel corso del periodo esaminato e sino ad oggi, l'accumulo con
velocità crescente di nuovi dati e lo sviluppo di nuovi
metodi
per isolare ed identificare i geni si sono costantemente affiancati
alla scoperta di una complessa serie di tecniche di manipolazione e
trasformazione dei geni stessi. Uno dei più notevoli di
questi
metodi è quello del DNA ricombinante. Nel 1973 venne
realizzata da due biologi di Stanford, Paul
Berg e Maxine
Singer, un'impresa che, come nota Rifkin, «secondo
alcuni
esperti di biotecnologia, nel mondo della materia vivente, è
paragonabile per importanza alla scoperta del fuoco» ().
I due ricercatori spiegarono di aver preso due organismi non
correlati tra loro, ossia che non si accoppiano in natura, di aver
isolato un frammento di DNA da ciascuno, e quindi di aver ricombinato
i due frammenti di materiale genetico ().
Se
per più di diecimila anni gli uomini hanno manipolato la
biologia del mondo vegetale ed animale, e più o meno
indirettamente la propria, le tecnologie in questione rappresentano
un salto di qualità evidente. L'austera e conservatrice Enciclopedia
Britannica, già nel 1976 scriveva al riguardo:
«come
in passato abbiamo manipolato la plastica e i metalli, adesso stiamo
costruendo materiali viventi» ().
In effetti, le tecniche tradizionali di ibridazione possibili tra
specie diverse incontrano limiti severi in campo vegetale, ed ancor
più in campo animale, dove tali limiti sono stati indeboliti
solo in modo minimo dalla fecondazione artificiale. L'ingegneria
genetica supera invece radicalmente le costrizioni imposte dai
confini di specie.
Lo
stesso concetto di specie come entità riconoscibile, unica,
e
stabile per sua natura, diventa un anacronismo quando cominciamo a
ricombinare i tratti genetici superando i confini
dell'interfecondità
"naturale o quasi". Rifkin cita al riguardo tre dei
primissimi esempi pratici dei risultati
raggiungibili.
«Nel
1983, Ralph
Brinster dell'Università
della Pennsylvania inserì in embrioni di topo i
geni umani
che regolano l'ormone della crescita. I topi espressero i geni umani,
si svilupparono con una rapidità più che doppia
del
normale e raggiunsero una taglia più che doppia di qualsiasi
altro membro della stessa specie, trasmettendo la relativa
caratteristica alla propria discendenza. A tutt'oggi esistono
discendenti di questo esperimento, in cui geni umani sono stati
permanentemente incorporati nel corredo cromosomico di questi
animali. Agli inizi del 1984, alcuni scienziati lavorarono su cellule
embrionali di capra e pecora, trasferendo l'embrione che ne
risultò
in un animale che diede alla luce una chimera capra-pecora, che
costituisce il primo esempio di fusione di due animali assolutamente
non correlati. Nel 1986 altri scienziati presero il gene che codifica
l'emissione della luce nella lucciola e lo inserirono nel codice
genetico di una pianta di tabacco. Risultato: le foglie di tabacco
brillavano al buio!» ().
Questi
primi risultati, sia pure inutili o vagamente orrendi, naturalmente
non sarebbero stati realizzabili utilizzando le tecniche di
riproduzione o ibridazione tradizionale. Nei moderni laboratori
biotecnologici le possibilità di ricombinazione sono al
contrario virtualmente illimitate. Le nuove tecnologie consentono di
combinare materiale genetico di qualsiasi provenienza, in vista di
qualsiasi possibile scopo. Le caratteristiche genetiche degli
organismi viventi si avviano perciò a divenire frutto
unicamente di scelte e preferenze
esplicite.
Giova
sottolineare anche che tale radicale trasformazione del nostro
rapporto con la natura non è data dall'applicazione
delle tecniche in questione, ma dall'esistenza stessa della
possibilità di applicarle. È
perfettamente
possibile sparare con una mano davanti agli occhi, e lasciare che "il
destino segua il suo corso", ma nel momento in cui ci vedo, o
posso vederci se lo desidero, la responsabilità di dove vada
la pallottola resta comunque mia, così come resta mia quella
di piantare varietà vegetali meno produttive, o non
rimediare
ad un difetto genetico in un embrione. Mentre conservare immutate
specie antiche, o addirittura resuscitare specie estinte (),
rientra tra le opzioni possibili, tutto questo non è
più
frutto ormai che di un (possibile) gusto o interesse o scelta in tale
senso, esattamente come lo sarà il permettere la nascita di
un
bambino con malformazioni di origine genetica.
La
declinazione dei primi impieghi delle acquisizioni suddette, nel
clima culturale contemporaneo e in mancanza di qualsiasi ispirazione
storico-politica, è ovviamente mercantilista, nel quadro di
una dialettica limitata alla contraddizione tra moralismo impaurito e
"mercato". Gli equilibri di forze, nel panorama finanziario
mondiale e nei rapporti tra i singoli paesi, ne sono comunque
già
significativamente toccati.
Centinaia
di aziende di bioingegneria si contendono posizioni di mercato,
cervelli, brevetti e capitale di rischio (in particolare nelle borse
note come "Nuovi Mercati" e dopo l'esplosione della bolla
speculativa della New Economy della fine anni novanta), con nomi come Amgen,
Organogenesis,
Genzyme,
Calgene,
Mycogen;
ma
guerre di posizione rilevanti coinvolgono pressoché tutte le
multinazionali farmaceutiche, della chimica e del comparto
agricolo-alimentare, tra cui Novartis, DuPont,
Monsanto,
Pfizer,
Eli
Lilly, Dow
Chemical, Ciba-Geigy, Bayer,
Pharmacia,
etc. ()
Le
applicazioni sono praticamente illimitate, e verranno ad incidere
progressivamentesulle risorse e sull'indipendenza e potere economico
dei paesi coinvolti.
Nell'industria
mineraria, i ricercatori stanno sviluppando nuovi microorganismi
capaci di rimpiazzare i minatori e le loro macchine nell'estrazione
dei metalli. Già dall'inizio degli anni ottanta sono stati
testati microorganismi che consumano metalli come cobalto, ferro,
nickel e manganese. Una società ha riferito di aver
introdotto
con successo un batterio «in composti a bassa concentrazione
di
rame, nei quali ha prodotto un enzima che ne elimina i sali,
lasciando una forma di rame quasi pura» ().
Per i metalli a bassa concentrazione, difficili da estrarre con
metodi tradizionali, saranno i microorganismi a fornire lo strumento
utile a renderne possibile l'estrazione e la lavorazione. Simili
applicazioni sono già in atto per degradare i minerali nei
quali è presente oro metallico, prima della sua estrazione
chimica, così da incrementare la resa di quest'ultima.
Rileva
Rifkin: «Si pensa che in futuro l'industria mineraria
incrementerà notevolmente l'uso di microorganismi, come la
via
più economica per utilizzare rocce metallifere a bassa
concentrazione e quei minerali che normalmente verrebbero
scartati»
().
Tra
le applicazioni utili a minimizzare l'impatto dannoso dell'uomo
sull'ambiente e i pericoli insiti in alcune lavorazioni viene citata
altresì la progettazione di microorganismi che consumino il
gas metano presente nelle miniere, una delle maggiori cause di
incidenti, a seguito della sua tendenza ad esplodere ().
Le biotecnologie vengono considerate effettivamente uno strumento
promettente per la bonifica ambientale, e in particolare per la
sostituzione delle sostanze tossiche con sostanze utili o quanto meno
innocue da parte di funghi, alghe e batteri appositamente modificati
().
L'Institute
for
Genomic Research ha d'altronde sequenziato il genoma di un
microbo caratterizzato da una elevata capacità di assorbire
radiazioni, e conta di utilizzare le conoscenze acquisite per creare
nuovi metodi atti alla gestione delle scorie radioattive.
In
realtà, a seconda dei casi, risulta interessante tanto la
capacità di aumentare quanto quella di ridurre
l'assorbimento di scorie chimiche o radioattive da parte di una data
specie vegetale, così come di qualsiasi altro elemento.
Mentre
una specie coltivata a scopo di bonifica è immaginabile
debba
immagazzinare quanto più possibile degli elementi
indesiderabili, il contrario è vero per una specie allevata
a
fini alimentari, magari sul medesimo territorio inquinato, in cui al
più andrà incrementato l'assorbimento di
oligoelementi
che ne migliorino le caratteristiche nutrizionali, e in particolare
la loro collocazione nella parte edibile della pianta (ad esempio, il
frutto, o le foglie). Ma il concetto può essere spinto
ancora
un po' più in là. Per esempio, la Purdue
University in Indiana sta studiando l'alterazione
dell'assorbimento vegetale di metalli pesanti non solo a scopo di
bonifica, ma di addirittura di riciclaggio dei metalli stessi ().
Alcune specie di alberi, in particolare pioppi geneticamente
modificati, sono in grado da soli di pompare tramite il loro sistema
radicale, concentrare e biodegradare pericolosi composti organici,
rimpiazzando un'intera filiera di bonifica industriale ().
Le società di silvicoltura stanno inoltre esaminando la
possibilità di isolare geni che possano essere inseriti
negli
alberi per farli crescere più velocemente, in tal caso non
solo a fini di rimboschimento, ma produttivi. La Calgen ha
già
negli anni novanta isolato il gene dell'enzima che controlla la
produzione della cellulosa nelle piante, in vista di un'utilizzo per
ottenere piante maggiormente efficienti per le industrie della pasta
di cellulosa e per le cartiere.
Altri
esperimenti, industrialmente ancora più rilevanti, sono in
corso per quello che riguarda il settore energetico, con particolare
riguardo alla ricorrente proposta di sostituire i combustibili
fossili con l'etanolo, il normale alcool presente nelle bevande e nei
disinfettanti, ad esempio come carburante per i veicoli, o per la
produzione di energia elettrica. A tale fine sono in corso
esperimenti volti ad aumentare la produttività specifica
delle
risorse vegetali, come la canna da zucchero. Un batterio del ceppo Escherichia
coli è stato reso capace di consumare i
residui
agricoli, gli scarti di produzione alimentare, i rifiuti solidi
urbani, convertendoli direttamente in etanolo. Sempre in vista della
sostituzione del petrolio, una ditta britannica chiamata ICI pare
abbia sviluppato batteri in grado di produrre plastica con varie
caratteristiche, mentre nel 1993 Carlo Sommerville, del centro
di botanica del Carnegie Institute di Washington ha inserito
un
gene in una pianta di senape che la rende ugualmente capace di
produrre sostanze plastiche, che la Monsanto
si ripromette di utilizzare industrialmente.
La
suddetta Monsanto,
una delle maggiori multinazionali attive nel settore chimico, ha
liquidato integralmente nel 1997 la sua divisione attiva nel campo
della chimica tradizionale, ed ha integralmente ancorato i propri
programmi di ricerca, sviluppo e marketing alle biotecnologie.
Ricorda ancora Rifkin: «Nel campo dell'agricoltura, la
bioingegneria viene considerata una parziale alternativa
all'industria chimica e ai suoi prodotti. Gli scienziati sono
impegnati a creare nuove coltivazioni che possano prendere l'azoto
direttamente dall'aria, piuttosto che essere obbligati a fare
affidamento sui costosi fertilizzanti petrolchimici attualmente in
uso. Inoltre si fanno esperimenti per trasferire le caratteristiche
genetiche da una specie all'altra al fine di migliorare il valore
nutrizionale delle piante e aumentarne il raccolto e il rendimento.
[...] Le prime varietà alimentari geneticamente trattate
furono piantate nel 1996. Più di tre quarti dei campi di
cotone dell'Alabama sono stati modificati geneticamente al fine di
combattere gli insetti nocivi. Già nel 1997 negli Stati
Uniti
soia geneticamente modificata veniva piantata in più di otto
milioni di acri e grano dal genoma ugualmente modificato in
più
di tre milioni e mezzo di acri; nel 1998, siamo ai 28 milioni di
ettari su scala mondiale» ().
Batteri
e vegetali non sono certo gli unici organismi coinvolti. «In
Florida, nel 1996, è stato realizzato il primo insetto
geneticamente modificato, un acaro predatore. I ricercatori
dell'Università
della Florida sperano che possa mangiare gli altri acari che
danneggiano le fragole e gli altri raccolti. Gli scienziati
dell'Università
della California a Riverside hanno svolto invece la
sperimentazione per inserire un gene letale nel corredo cromosomico
dell'antonoma rosa del cotone, un parassita che causa ogni anno nei
campi danni per milioni di dollari. Il gene killer si attiva in
primavera, uccidendo i giovani parassiti prima che essi possano
danneggiare il cotone, accoppiarsi e riprodursi. L'idea dei
ricercatori Thomas
Miller e John
Peloquin è quella di allevare fino a
maturità
milioni di questi antonomi geneticamente modificati, in modo da
rilasciarli pronti ad accoppiarsi con quelli del ceppo selvatico. La
progenie conterrà il gene letale e di conseguenza
morirà
in massa per effetto di questa nuova forma di peste volutamente
creata» ().
Se
la rivoluzione del secondo uomo presto o tardi vede sempre
nell'avvento dell'agricoltura un elemento caratterizzante, non
è
detto che tale situazione sia destinata a restare immutata, a meno
che non sia la politica a decidere che
l'agricoltura stessa
vada conservata per ragioni sociali o di altro genere. Se la
fantascienza ha da tempo preconizzato l'avvento delle colture
idroponiche, vi è chi ritiene che a breve termine la maggior
parte dei prodotti agricoli potranno effettivamente essere fabbricati indoor
e industrialmente.
Già
alla fine degli anni ottanta, la Escagenics annunciava di essere
riuscita a produrre vaniglia in laboratorio. La vaniglia è
l'essenza più diffusa in America, ed è contenuta
in un
terzo dei gelati venduti, senza contare gli altri utilizzi in
pasticceria, profumeria e cosmetica, ma ha un costo di produzione
elevato, richiedendo un'impollinazione manuale e delicati processi di
raccolta. La tecnologia proposta dalla Escagenics, basata sullo splicing
genetico, dovrebbe consentire di ottenere la vaniglia
da colture batteriche modificate con il gene della pianta relativa,
in grandi serbatoi, eliminando d'un colpo la necessità del
seme, della pianta, del terreno di coltura, della sua concimazione,
della coltivazione, del raccolto e del contadino. Analogamente,
vescicole di aranci e limoni sono stati fatti crescere da colture di
tessuti, anticipando il momento in cui la spremuta verrà
fatta "crescere" in grandi vasche, senza alcuna necessità
di piantare agrumeti ().
Similmente, secondo un articolo del Washington
Post (),
il Dipartimento
dell'Agricoltura degli Stati Uniti ha persuaso cellule di
cotone
a riprodursi in serbatoi pieni di sostanze nutritive; essendo tale
ambiente privo di microbi, l'idea sarebbe di utilizzare tale
procedura inizialmente per la produzione di garze sterili, per poi
generare le economie di scala utili a stabilire un'offerta
competitiva per il settore tessile in genere.
Due
biologi dello stesso dipartimento, che all'epoca avevano
l'amministrazione dell'attività di ricerca, nel 1994 hanno
rilasciato un'intervista ()
in cui prevedono che ai campi verrà lasciata unicamente la
coltivazione di biomasse perenni, senza altro scopo che quello di
intercettare l'energia solare mediante fotosintesi. Il prodotto
potrebbe poi essere convertito mediante enzimi in una soluzione
zuccherina, da sfruttare come sostanza nutritiva per la produzione
industriale di pasta di cellulosa ricavata da colture di tessuti, che
potrebbe a sua volta venire ricostituita ed elaborata in forme e
consistenze diverse per imitare quelle associate alle coltivazioni
"cresciute sul terreno", in ambienti altamente
automatizzati, e con minimo impiego di manodopera.
L'impatto
sociale esplosivo di tutto ciò è facilmente
immaginabile.
OGM
ed altri mostri
In
attesa di tali rivoluzionari sviluppi, è anche assolutamente
vero che conosciamo pochissimo sugli effetti imprevisti ed
indesiderati delle modificazioni genetiche già attuate
nell'agricoltura "normale", in particolare per ciò
che concerne gli alimenti, con riguardo alla salute dei consumatori.
Le
questioni in materia di OGM ("organismi geneticamente
modificati") sono comunque radicalmente mal poste, a partire
dalla polemica che vede insieme opposti gli Stati Uniti (principali
produttori di OGM) e i paesi "in via di sviluppo"
(principali consumatori, almeno potenziali) all'Unione Europea,
serrata dai patti GATT sulla globalizzazione dei commerci, riguardo
ai rischi degli stessi per i consumatori ().
Se
è per questo, infatti, non sappiamo molto neppure sugli
effetti a lungo termine delle sostanze chimiche utilizzate in
agricoltura o dall'industria alimentare.
Anzi,
in effetti, solo oggi cominciamo ad avere un'idea dei contenuti
nutritivi e tossici delle stesse pochissime varietà vegetali
"naturali" utilizzate a fini alimentari, e di una parte di
quelle invece deliberatamente ibridate e selezionate che sono da
sempre utilizzate in agricoltura; ma tuttora il numero di
composti che esse contengono, nonché gli effetti a
medio-lungo
termine di una loro ingestione a scopi alimentari, restano incerti e
oggetto di dibattito, così come le differenze al riguardo
legate alle diverse varietà disponibili. Ai difensori
anti-OGM
dell'agricoltura "tradizionale" gioverebbe ricordare come
la medesima agricoltura tradizionale in realtà si sia sempre
basata su null'altro che l'empirismo del "ciò che non
uccide ingrassa" ().
Neppure
sappiamo che succede a mangiare animali che sono stati allevati a
mangimi transgenici, o del resto nemmeno con alimenti molto
più
tradizionali, quali quelli ricavati dalle carcasse, per nulla
transgeniche, cui è (presumibilmente) attribuibile la
diffusione della sindrome
della "mucca pazza" ().
Altrettanto poco sappiamo cosa succede con l'assunzione di farmaci
derivati da organismi transgenici, pacificamente diffusi
anche in
Europa.
Ed
è probabile che continueremo a saperne meno di quanto
sarebbe
possibile, ed auspicabile, sinché la rivoluzione biologica
in
questione sarà governata dalle prospettive di profitto
immediato della società per azioni coinvolta, o peggio
dall'andamento dei suoi titolo in borsa nel corso della settimana
successiva ();
o sino che addirittura ogni ricerca al riguardo sarà, come
in
Europa, scoraggiata o vietata.
In
realtà, la maggior parte degli alimenti di origine vegetale
provengono da millenni da versioni "geneticamente modificate"
di varietà selvatiche, realizzate in particolare attraverso
ibridazioni di specie non naturalmente interfeconde, innesti,
mutazioni provocate, selezioni orientate, clonazioni tramite talea,
etc. Negli stessi Stati Uniti, dove sono più forti non solo
la lobby
agricolo-industriale ma anche il pregiudizio ideologico
avverso a queste pratiche (),
la soglia di attenzione resta semmai particolarmente elevata per le
nuove tecniche, e in fin dei conti, come nota Bernard Schwetz,
«quando si ha a che
fare con colture biotech, sono giusto uno o due geni ad essere
cambiati nella struttura della pianta, con l'ibridazione vi sono
molti più geni coinvolti e certamente più
incertezze
sul risultato» ().
Le
principali differenze degli "OGM moderni" sono due, e
nessuna delle due ha direttamente a che fare con la salute di chi se
ne nutre: la prima, il fatto che la modifica al corredo genetico
della pianta avviene attraverso il trapianto diretto di porzioni di
DNA; la seconda, che viene oggi riconosciuta un'esclusiva ventennale
e soprattutto internazionale a chi le sviluppa, attraverso un titolo
brevettuale.
Ha
così perfettamente ragione Enzo
Caprioli quando scrive: «Per assumere adeguate
posizioni
[riguardo agli OGM] non occorre e non basta sapere tutto di genetica,
occorre invece riconoscersi in una visione del mondo che sappia dare
alle cose il loro giusto valore e ai valori il loro giusto
riconoscimento» ().
Resta però ancora da capire quali comportamenti
pratici
immediati tali valori debbano in effetti dettare, e comunque
che
sorte possa attendere chi non disponga delle
relative
tecnologie – tenuto anche conto che specie geneticamente
modificate
possono comunque liberare materiale genetico nella biosfera, senza
alcun riguardo per le frontiere nazionali e le normative locali. E
qui esiste effettivamente un aspetto politico nel
senso più
immediato del termine. Il problema non è infatti l'utilizzo
in
sé degli OGM in agricoltura, che sono pericolosi o meno come
qualsiasi altra varietà vegetale commestibile o velenosa
"naturale", ma chi oggi detiene (o meglio, riesce a
farsi legalmente tutelare) posizioni oligopolistiche,
privative e
segreti industriali al riguardo. Già nel 2002,
infatti,
più di un quinto dell'area coltivata nel mondo a granoturco,
soia, cotone o cannella era già occupata da
varietà
transgeniche, con un aumento da cinque a sei milioni dei coltivatori
che in sedici nazioni piantavano tali varietà rispetto
all'anno precedente; e il processo sta accelerando (),
checché ne pensi un ministro italiano come Alemanno,
che pare quasi sorpreso di poter assumere una posizione che risulta
in qualche modo connotata in un senso che la sua parte politica
ingenuamente considera "nazionalista" o "tradizionalista"
o "europeista", ma i cui esiti finali appaiono
profondamente incerti.
Nota
al riguardo Rifkin:
«Le prime dieci industrie agrochimiche, tutte multinazionali
amministrate dagli USA, nel 1996 controllavano già l'81% dei
29 miliardi di dollari del mercato agrochimico. Le prime dieci
industrie farmaceutiche controllano il 47% dei 197 miliardi di
dollari del mercato farmaceutico. Similmente, dieci aziende
multinazionali controllano oggi il 43% dei 15 miliardi di dollari del
mercato farmaceutico veterinario. Al top della lista ci sono dieci
compagnie alimentari internazionali i cui guadagni superavano di gran
lunga i 211 miliardi di dollari nel 1995. [...] Alcune delle
più
grandi società operanti nel campo delle scienze della vita
si
stanno posizionando strategicamente al fine di controllare la maggior
parte del mercato bioindustriale globale nel secolo [oggi appena
iniziato]. La Novartis,
un gigante mondale risultato dalla fusione della farmaceutica Sandoz
e dell'agrochimica Ciba-Geigy, è un esempio tipico di
concentrazione industriale della nuova era. La Novartis risulta oggi
la più grande società agrochimica del mondo, la
seconda
nel campo delle sementi, e la quarta nel campo dei prodotti
veterinari. Sta inoltre accampando diritti nel nuovo settore della
genetica umana. Nel 1995 la Sandoz, poi confluita nella Novartis,
aveva comprato la Genetic Therapy Inc. per 295 milioni di dollari,
ditta che detiene il brevetto sulla tecnica usata per espiantare
cellule da un paziente, modificarne la struttura genetica e
reimpiantarle nel paziente. [...] La Monsanto
ha acquistato la Holden Foundation Seeds nel 1997 per 1,2 miliardi di
dollari. Più del 35% delle piantagioni di mais degli Stati
Uniti deriva dal germoplasma sviluppato dalla Holden. La Monsanto
detiene inoltre il 40% della quota di una seconda grande industria di
sementi, la DeKalb.
Le recenti acquisizioni includono la Asgrow,
industria leader nella soia, la Agracetus e la Calgene, due ditte
di biotecnologia agricola di notevole
levatura. La Dow
Elanco ha acquistato il 65% del capitale della Microgen,
una società con un numero di brevetti di potenziale valore
in
campo agricolo. La DuPont, quinta ditta agrochimica del mondo, ha
acquistato nel 1997, per 1,7 miliardi di dollari, il 20% della Pioneer
Hi-Bred,
l'industria di sementi più grande del mondo. La DuPont ha
inoltre acquisito la Protein Technology International dalla Alston
Purina per 1,5 miliardi di dollari».
E'
facile tirare le conclusioni di questa situazione, che dall'epoca del
quadro di Rifkin si è ulteriormente e notevolmente evoluta
nella direzione indicata. E il fatto che l'interesse in materia di
OGM non rappresenti un'esclusiva delle multinazionali, ma di chiunque
si renda conto dello scontro di potere che va delineandosi con
riguardo alla detenzione delle relative tecnologie, è
attestato dalla posizione di relativa avanguardia della Cina, per non
parlare della Cuba di Fidel Castro, che sta investendo in questo
campo buona parte delle sue (scarse) risorse, e ha da tempo
costituito un Centro
di Ingegneria Genetica e Biotecnologia all'Avana ().
In
questo quadro, per la discussione sugli OGM non ha alcuna
importanza se e quali varietà attuali mantengano
le
promesse, se questa o quella ricerca darà esito positivo, se
gli OGM siano sempre e davvero economicamente più
vantaggiosi
delle varietà non modificate, se questo o quel prodotto
sarà
rifiutato dai consumatori, etc. Ciò che è
impossibile,
o non funziona, o è economicamente sconveniente, o fallisce,
o
è organoletticamente sgradevole, non ha ovviamente bisogno
di
essere vietato ().
Ciò che crea un potenziale problema è invece tutto
quello che alla fine successo ce l'abbia, e si riveli
drasticamente competitivo da un punto di vista economico (e
biologico!), condizionando l'indipendenza agricola e le stesse
prospettive di autosufficienza alimentare dei paesi e delle aree
coinvolte ().
La
preoccupazione per l'impoverimento genetico connesso alla spinta
verso la monocultura generata dal mercato (per altro da secoli)
è
legittima, così come quella per il fatto che le
società
menzionate stanno liberando nella biosfera migliaia di nuove specie,
alterate geneticamente, con conseguenze ecologiche imprevedibili. Ma
tutto ciò sta già succedendo,
e non sarà
certo sufficiente l'introduzione di una nuova forma di
proibizionismo, foss'anche su scala continentale, a impedirlo. Solo
maggiori investimenti europei, da un lato nella preservazione delle
varietà naturali ancora disponibili e nel loro incremento,
dall'altro in una ricerca concorrenziale con quella
statunitense, possono limitare tali rischi.
Più
immediati ancora sono gli spostamenti di potere che ciò
comporta. Mentre come abbiamo visto non esiste alcuna garanzia che
effettivamente non avvenga scambio genetico al di fuori dei territori
coltivati con specie transgeniche (ivi compresi con le coltivazioni
pretesamente naturali o addirittura "biologiche", e con le
specie selvatiche), le pur legittime preoccupazioni per la sicurezza
convergono purtroppo... con l'interesse economico delle
società
in questione a rendere naturalmente non-riproducibili le
varietà
vegetali commercializzate, nell'attribuire alle multinazionali in
questione un monopolio di fatto nell'economia globalizzata, che tende
a rendere definitiva la dipendenza economica dal Sistema dei singoli
paesi e spazi continentali asserviti ().
Ciò
si aggancia con la questione della proprietà industriale sui
portati delle biotecnologie. Rileva ancora Rifkin:
«La restrizione commerciale sui semi del mondo è
avvenuta in poco meno di un secolo. Appena un secolo fa, centinaia di
milioni di contadini sparsi in tutto il pianeta controllavano i
propri rifornimenti di semi, commercializzandoli liberamente tra i
propri amici e vicini. Oggi, quasi tutti i rifornimenti delle sementi
sono stati comprati, manipolati e brevettati dalle società
attive nel settore e considerati come proprietà
intellettuale»
().
A loro volta, tali sementi tendono ad essere le uniche compatibili
con i prodotti (diserbanti, insetticidi, concimi,...) fabbricati
dalla medesima società, e con gli equilibri ecologici
modificati dall'utilizzo intensivo di tali prodotti, così
che
l'area e la stessa possibilità economica dell'agricoltura
tradizionale ne viene progressivamente ristretta, prima ancora di
ritrovarsi fuori mercato non appena esposta alla concorrenza dei
nuovi metodi integrati.
La
questione della proprietà intellettuale sulla biotecnologia
non può d'altronde essere risolta facilmente, se non nel
quadro di soluzioni radicali e di drastica rottura. Se il
riconoscimento di un monopolio brevettuale consente ad un pugno di
multinazionali di rafforzare il proprio potere su risorse essenziali
a qualsiasi ipotesi di indipendenza politica, lo stesso monopolio
brevettuale è anche quello che risulta necessario, almeno da
parte del settore privato ed in un regime economico liberale, per
consentire il finanziamento locale delle ricerche utili a combattere
tale potere, in particolare attraverso una disponibilità
indipendente delle conoscenze e delle tecnologie coinvolte. In altri
termini, alcuni tipi di ricerca possono essere finanziati a livello
privato solo ove il finanziatore abbia la certezza di poter
godere
in esclusiva i relativi risultati per un consistente lasso di tempo.
L'accanita
resistenza "ideologica" del parlamento europeo ai brevetti
biotecnologici ,
ha in questo senso svolto un ruolo profondamente ambiguo, nella
misura in cui ha anche pregiudicato la capacità
dell'industria
europea di finanziare (attraverso l'aspettativa dei ritorni generati
dal periodo di monopolio garantito dal brevetto) programmi di ricerca
concorrenziali con quelli delle grandi multinazionali americane.
Ciò
è tanto più grave in mancanza di qualsiasi tutela
nazionale della "materia prima" rappresentata dal materiale
genetico autoctono (rappresentato dalle varietà locali,
domestiche e selvatiche, per lo più predate nei paesi in via
di sviluppo, specie equatoriali, ma che è ovviamente
presente
anche in Europa) ();
e nel quadro di un'integrazione mondialista nel "sistema
economico della globalizzazione incondizionata", portato ad
ulteriori conseguenze dall'Uruguay
Round dell'Accordo Generale sulle Tariffe e sugli Scambi (GATT).
Perciò,
per chi fa dell'Europa la propria comunità di riferimento,
il
problema non può certo essere risolto limitandosi a tentare
velleitariamente di ritardare (del resto, solo per i prodotti
alimentari) la messa in commercio nell'Unione Europea dei derivati di
organismi geneticamente modificati altrui, o ritardare la produzione
locale degli stessi, ma solo tentando di raggiungere un
livello
tecnologico autonomo in tale settore che sia equivalente e superiore
a quello americano, cosa indispensabile non solo con
riguardo
ad una "concorrenzialità" nell'ambito di un sistema
globalizzato (che si può ritenere comunque da superare ed
abbattere), ma in termini di indipendenza, sovranità,
e addirittura in termini di protezione, per quanto
possibile, dagli esiti potenzialmente
catastrofici del dispiegarsi puramente mercantilistico delle
biotecnologie ().
Solo in tale contesto, che a questo stadio dovrebbe necessariamente
prevedere un'incentivazione ed agevolazione della ricerca europea, la
deliberata creazione di cartelli pubblici o sotto stretto controllo
pubblico, ed accordi diretti con il Terzo Mondo per lo sfruttamento
congiunto ed esclusivo del pool genetico delle rispettive ecosfere,
può avere senso un protezionismo semi-autarchico in
contrasto,
ad esempio, alla diffusione di metodi di agricoltura integrata che
sfuggano dal controllo politico ed economico della comunità
di
riferimento; o ancora può prendere significato l'adozione di
politiche di licenza obbligatoria quanto a tecnologie e trovati in
mani estere la cui disponibilità si riveli necessaria per
l'economia nazionale/europea.
Il
controllo delle tecnologie in questione appare cruciale anche al di
fuori di una prospettiva "concorrenziale", o quale garanzia
di effettiva sovranità dei paesi coinvolti, e riveste
significato in termini di tutela del territorio e della
comunità
di riferimento in una chiave che trascende del tutto i pur opportuni
controlli e cautele in materia di organismi geneticamente modificati,
o la capacità di "combattere il fuoco con il fuoco"
in caso di sviluppi incontrollati e distruttivi di questi ultimi. In
realtà, infatti, l'inquinamento genetico è un
rischio
presente da sempre, e con cui l'Europa fa purtroppo
i conti da
secoli, ben prima che la biotecnologia si affacciasse all'orizzonte.
Quando
gli europei riportarono dall'oriente nuove spezie e fibre tessili,
introdussero in Europa anche un pacchettino di geni chiamato Yersinia
pestis. L'Y.
pestis a sua volta si spostò
in un altro pacchetto di geni appartenente ad un organismo della
famiglia Siphonaptera
comunemente noto come pulce. Questo a sua volta fece il giro
dell'Italia e dell'Europa in groppa ad un altro pacchetto di geni di
varie specie di ratto. Tale "inquinamento genetico", ben
prima che Crick [alias,
alias]
e Watson scoprissero il DNA,
condusse all'esplosione di quella che è
nota come peste bubbonica, o anche "morte nera", che in
quattro anni sterminò un terzo dell'intera
popolazione europea dell'epoca.
Similmente,
se oggi chiedessimo ad un biologo americano di indicare le quattro
peggiori infestazioni per vegetali, insetti ed altri animali,
è
probabile che lo stesso citerebbe il kudzu,
le "api
assassine"
africanizzate, e i ratti ().
Nessuna di queste specie è nativa del nordamerica.
Il
kudzu fu portato negli Stati Uniti nel 1876 come dono del governo
giapponese. Durante la Grande Depressione il Soil Conservation Office
promosse la pianta per controllare l'erosione. I contadini venivano pagati
per seminare
quest'erba. Ora copre circa sette milioni di acri nella parte
meridionale del paese, e spazza via qualsiasi pianta osi crescere sul
suo percorso. Il ratto norvegese è arrivato quasi certamente
sulle navi. Ma la storia dell'"ape assassina" è la
più interessante, perché mostra i rischi inerenti
alle
tradizionali pratiche di selezione ed ibridazione che oggi gli OGM
vanno in parte a rimpiazzare. Alcuni allevatori brasiliani di api
tentarono in effetti di combinare l'"intraprendenza" e la
resistenza delle api africane con la produttività delle
varietà europee. Al contrario, ottennero api
super-aggressive
che consumano il miele alla stessa velocità con cui lo
producono, non lasciando niente da raccogliere agli allevatori. Gli
insetti poi cominciarono un viaggio verso nord che produce ogni anno
dozzine di vittime umane, e che mette in pericolo l'apicoltura in
tutti gli
USA, dato che gli stessi soverchiano e schiacciano
rapidamente le più mansuete api da miele tradizionali.
Ugualmente, il flagello dei ratti trae origine dalla Norvegia, e tali
animali sono sono sbarcati in America dalle navi insieme con gli
immigranti europei.
Uno
studio federale su settantanove specie nocive negli Stati Uniti
calcola il danno arrecato da questi immigranti indesiderati in circa
novantasei miliardi di dollari, mentre un articolo apparso nel 1998
su Bioscience
calcola i costi relativi in centotrentasei miliardi di dollari
all'anno. Neppure un dollaro ha qualcosa a che fare con
specie transgeniche (),
e diventa sempre più evidente che è il diretto
controllo della biologia del territorio l'unica risorsa in grado di
garantire davvero la sicurezza nazionale al riguardo a qualsiasi
paese.
D'altro
canto, le illusioni che sia semplicemente possibile "tenere il
diavolo biotecnologico fuori dalla porta" sono, ancor più
che nel caso della proliferazione nucleare, destinate a breve durata.
Per chi non sia convinto di ciò con riguardo al caso
già
discusso dell'agricoltura, basti pensare all'aspetto, sempre
decisivo, della tecnologia militare.
Alcune
applicazioni, tipicamente quelle rese pubbliche, sembrano abbastanza
innocenti. Per esempio, l'esercito americano sta inserendo in alcuni
batteri vari geni artificiali simili a quelli responsabili nei ragni
tessitori della produzione della ragnatela: capita infatti che il
filo di ragno sia una delle più robuste fibre esistenti a
parità di peso. Gli scienziati sperano di utilizzare i
batteri
per produrne quantità arbitrarie secondo specifiche
variabili,
in modo da poterlo adibire a vari utilizzi, dall'ingegneria
aerospaziale alle protezioni fisiche dei soldati impegnati in
operazioni sul campo ()).
come è ovvio con particolari ripercussioni sull'efficienza
degli stessi in scenari "antiterrorismo", o di occupazione
e controguerriglia.
Altre
ricerche sono molto più minacciose. Le medesime banche dati
e
tecnologie sviluppate per l'ingegneria genetica commerciale nel campo
dell'agricoltura, dell'allevamento e della medicina è
facilmente convertibile, ed è certamente già
utilizzata, per lo sviluppo di una vasta serie di nuovi agenti
patogeni che possano attaccare le piante, gli animali e gli uomini.
La
guerra biologica, come noto, è quella che implica l'utilizzo
di organismi viventi e composti organici per scopi militari. Le armi
biologiche tradizionali consistono sostanzialmente in virus, batteri,
funghi, protozoi e tossine, che in quanto tali non sono mai stati
usati finora su larga scala. La ragione storica del ristretto
utilizzo di tali strumenti è inerente tra l'altro ai costi e
ai pericoli che comporta il trattamento e lo stoccaggio di grandi
quantità di agenti patogeni e la difficoltà di
indirizzarne la diffusione, ma anche la tracciabilità
relativamente facile di attacchi biologici e la probabilità
che il vantaggio connesso venisse annullato dall'inevitabile
ritorsione nemica. Ora tale panorama è radicalmente
cambiato.
In
un rapporto risalente al maggio 1986, presentato al Committee
on Appropriation della Camera
dei Rappresentanti, il Dipartimento
della Difesa americano già sottolineava come la
biotecnologia sta rendendo molti tipi di guerra biologica realistici
e vantaggiosi ().
Nel rapporto tra l'altro si legge: «Le conquiste fatte nel
campo della biotecnologia permettono l'elaborazione di un'estesa
varietà di nuovi materiali che possono essere usati nella
guerra biologica. [...] I nuovi agenti sono il prodotto della recente
capacità di modificare, migliorare o produrre grandi
quantità
di materiali naturali o di organismi che in passato erano considerati
di nessuna importanza militare a causa di problemi quali la
disponibilità, la stabilità nel tempo, il potere
infettivo e la riproducibilità». Continua il
rapporto:
«Potenti tossine che sino ad ora erano disponibili solo in
piccole quantità, e solo grazie all'estrazione delle stesse
da
enormi quantità di materiali biologici, adesso possono
essere
preparate in quantità industriali in un tempo relativamente
breve. Questo processo deriva dall'identificazione dei geni che
codificano la produzione della molecola desiderata e consiste nel
trasferimento della sequenza in un microrganismo ricevente che in tal
modo acquista la capacità di produrre la sostanza.
L'organismo
ricombinante può quindi essere allevato e riprodotto in
qualsiasi scala desiderata. [...] Composti che precedentemente erano
disponibili solo in quantità infinitesimali in questo modo
diventano producibili in grande quantità a costi
notevolmente
bassi. [Con la tecnologia del DNA ricombinante è ora
possibile
sviluppare] una quantità pressoché infinita di
ciò
che potrebbe essere definito come "agente modellante".
[...] I nuovi sviluppi dell'ingegneria genetica rendono possibile il
rapido sfruttamento delle risorse della natura per scopi di guerra
biologica che erano impensabili dieci o quindici anni fa».
Solo
pochi mesi dopo, nell'Agosto dello stesso anno, il sottosegretario
alla Difesa Douglas
Feith dichiara al comitato parlamentare americano sui servizi
segreti: «Adesso è possibile sintetizzare agenti
per la
guerra biologica pensati appositamente per scopi militari. La
tecnologia che rende possibile i cosiddetti farmaci su misura rende
possibile modellare tali agenti. [...] E' piuttosto semplice produrre
nuovi agenti, anche se resta ancora un problema trovare degli
antidoti, che possono richiedere anni, mentre gli agenti possono
essere prodotti in poche ore» ().
In
effetti le tecniche biotecnologiche possono essere usate per una
varietà di scopi militari, dal terrorismo di stato, alle
operazioni controinsurrezionali, alle campagne su vasta scala per
distruggere le economie dei paesi nemici o la loro popolazione
civile, e richiedono l'allocazione di un potenziale industriale e di
investimenti molto minore rispetto alla guerra convenzionale o alle
armi nucleari. Un utilizzo banale degli strumenti disponibili
è
ad esempio quello volto a creare deliberatamente ceppi batterici
alterati in modo da aumentarne la virulenza, renderne facile la
conservazione, e incorporare una resistenza agli antibiotici. Un
approccio più raffinato è quello di introdurre
geni
letali in microorganismi naturalmente innocui, che non generano
alcuna risposta immunitaria negli animali o negli uomini da colpire.
L'ingegneria genetica può ancora essere specificamente
mirata
alla distruzione di specie o ceppi specifici di piante coltivate ed
animali, e persino allo sfruttamento della sensibilità
diversa, geneticamente programmata, dei gruppi etnici umani a
malattie specifiche. Inutile dire che ancora più facile
è
concepire "cavalli di troia" genetici, in particolare in
campo agricolo, ovvero varietà coltivabili, alterate
geneticamente e destinate a soppiantare le varietà
autoctone,
di cui sia attivabile l'autodistruzione. Ancora, è possibile
produrre e liberare specie animali o vegetali modificate capace di
sconvolgere l'equilibrio ecologico del territorio nemico, ma con
incorporati meccanismi di controllo utili ad evitare l'interferenza
con le proprie coltivazioni.
Naturalmente,
ciò che traspira di queste ricerche riguarda sempre la
"difesa" dalla guerra biologica. D'altronde, come nota uno
studio dell'International
Peace Research Institute di Stoccolma, «alcune
comuni forme
di produzione di vaccini sono tecnicamente molto vicine alla
produzione di agenti utili come armi biologiche, offrendo
così
facili opportunità di conversione e copertura» .
In particolare, come ammetteva Richard Goldstein, già
professore di microbiologia ad Harvard,
il Dipartimento
della Difesa degli USA «può oggi
giustificare il
fatto di lavorare con gli agenti più patogeni al mondo,
producendo ceppi alterati e molto più virulenti, al fine
della
ricerca di vaccini e sieri per proteggere le proprie truppe contro un
utilizzo ostile di tali agenti [...], e allo stesso tempo studiando
sistemi di diffusione degli stessi fino a quando non sia in grado di
proteggersi contro qualsiasi simile forma di diffusione.
Così,
quello che il Dipartimento della Difesa si ritrova in mano alla fine
è un nuovo sistema di armi biologiche, composto da un
organismo virulento, un vaccino contro di esso e un sistema per
diffonderlo. Come è facile rilevare, esiste una linea molto
sottile tra un tale sistema di difesa (permesso dalle convenzioni
internazionali) e un vero e proprio sistema (proibito) di
attacco»
().
Tali
programmi sono sostenuti da una propaganda capillare e costante.
Già
nella prima guerra del Golfo, fonti americane attribuivano all'Iraq
la disponibilità di quello che il "dittatore pazzo",
noto anche come Saddam Hussein, avrebbe definito il "grande
livellatore", ovvero un arsenale di venticinque testate di
missili Scud per complessive cinque tonnellate di agenti biologici,
tra cui la tossina
botulinica e i germi del carbonchio,
ed altre quindici tonnellate da collocare in dispositivi destinati al
bombardamento aereo. Uno studio dell'Office
Technology Assessment del 1993 segnalerà poi che
la
liberazione di soli cento chili di spore di carbonchio da un aereo
sopra la città di Washington avrebbe potuto uccidere
più
di tre milioni di persone ().
L'apocalisse non si scatena, scopriremo, solo perché il
Segretario di Stato James
Baker avrebbe riservatamente fatto presente al presidente
Saddam
Hussein, "in toni cortesi ma fermi", che l'uso effettivo
delle armi pretesamente approntate per difendere la
sovranità
irachena, nel momento appunto in cui questa era oggetto dell'attacco
occidentale, sarebbe stata fronteggiata con "misure estreme",
ovvero lo sgancio di ordigni nucleari su Bagdad .
Questo
tipo di affabulazioni fantapolitiche, ovviamente non "ufficiali",
ma accreditate da stampa prestigiosa, non spiegano come sia possibile
che un'efficace arma di deterrenza in mano ad un "pazzo"
non abbia sortito alcun effetto sull'avventurismo militare americano
nella regione, o come il pazzo in questione avrebbe potuto essere
intimidito da minacce... su una popolazione civile dal medesimo
dittatore notoriamente disprezzata e tiranneggiata. Simili leggende
restano nondimeno utili, da più di dieci anni, a creare un
vantaggioso clima di paranoia (vedi il martellamento propagandistico
sulle "armi di distruzioni di massa", di cui per altro
Stati Uniti ed altri paesi dispongono indisturbati sin dagli anni
cinquanta), clima che giustifica a sua volta gli enormi finanziamenti
dispiegati per preparare la guerra biologica .
Già in uno studio del 1995, la CIA attribuiva a diciassette
paesi ricerche di biotecnologia militare, e precisamente a Iraq,
Iran, Libia, Siria, Corea del Nord, Taiwan, Israele, Egitto, Vietnam,
Laos, Cuba, Bulgaria, India, Corea del Sud, Sudafrica,
nonché
ovviamente Cina e Russia ().
D'altronde,
secondo un rapporto pubblicato nel 2002 dalla National
Academy of Science americana «sarebbero sufficienti
pochi
individui dotati di competenze specialistiche e di un laboratorio
adeguato per produrre, in modo economico e semplice, un'intera serie
di armi batteriologiche mortali in grado di costituire una grave
minaccia per la popolazione degli Stati Uniti. Inoltre, gli agenti
biologici possono essere prodotti utilizzando apparecchiature
disponibili sul mercato, le stesse attrezzature che vengono impiegate
nella produzione di sostanze chimiche, farmaci, cibi o birra, e
quindi passare inosservate. [...] La decodifica della sequenza del
genoma umano e la spiegazione completa di quello di numerosi agenti
patogeni... consentono di abusare della scienza per creare nuovi
strumenti di distruzione di massa» ().
Se
non esiste alcun dubbio sull'attivismo del complesso
militar-industriale statunitense in questo campo, l'allarmismo
occidentalista sulla diffusione delle applicazioni di questo tipo
ovviamente non si basa soltanto su dati inventati ().
E dal momento che, in questo campo, capacità d'attacco,
capacità di difesa e deterrenza costituiscono solo aspetti
diversi della disponibilità delle medesime tecnologie,
è
ben chiaro cosa significa per la reale sovranità dei paesi
interessati esserne sprovvisti.
La
capacità di difesa e di attacco risulta del resto
determinante
non solo in scenari di aperta aggressione militare, ma anche con
riguardo a forme più subdole di guerra economica a bassa
intensità, o addirittura a rilasci accidentali e
non voluti di agenti patogeni. La teoria della provenienza
del virus dell'AIDS da laboratori militari
americani (),
per quanto rappresenti probabilmente una "leggenda
metropolitana", dimostra con la sua stessa diffusione la
crescente verosimiglianza di ipotesi di questo tipo, cui è
possibile rispondere unicamente con la capacità di produrre
e
selezionare ceppi immuni, e di programmare secondo necessità
tale immunità nelle popolazioni umane, vegetali ed animali
().
D'altronde,
la guerra biologica non è che un aspetto di scontri
tecnologici, economici e demografici di carattere più
generale, nel quadro del mutamento generale del "paradigma"
epocale già più volte evidenziato. Se abbiamo
già
discusso delle prospettive e delle applicazioni riguardanti il mondo
vegetale e l'utilizzo industriale di microorganismi modificati o
insetti, le ricerche in corso abbracciano applicazioni molto
più
ampie e tecnicamente complesse di quelle che coinvolgono sementi e
protozoi, venendo ad incidere direttamente sugli animali superiori e
sull'uomo.
Riporta
ancora Rifkin: «All'Università
di Adelaide, è stata sviluppata un nuova
generazione
biotecnologica di maiali che sono più efficienti del 30%
nella
produzione di carne, e che giungono a maturazione sette settimane
prima di quelli normali. L'Australian
Commonwealth Scientific and Industrial Research Organisation
ha
similmente prodotto pecore trattate geneticamente che crescono
più
velocemente di un terzo di quelle normali e sta attualmente
trapiantando geni nelle pecore al fine di far crescere una lana
più
abbondante e di migliore qualità. Nell'Università
del Wisconsin, gli scienziati hanno alterato i tacchini da
cova
per aumentarne la produttività. I tacchini da cova producono
da un quarto ad un terzo in meno di uova rispetto a quelli che non
covano. Visto che cova quasi il 20% nelle razze attuali, i
ricercatori sperano di eliminare del tutto l'istinto della cova
bloccando il gene che codifica la prolattina, ormone che regola
l'istinto della cova. I tacchini transgenici non mostrano
più
l'istinto materno, ma producono molte più uova» ().
Uno
dei progetti più strani dell'era biotecnologia è
quello
della canadese Nexia,
che lavora sull'ipotesi di far produrre quantità massiccie
di
tela di ragno a capre in cui sono stati inseriti geni di ragno.
Abbiamo già accennato alle particolari proprietà
di
questa fibra. Ora, capita che il latte delle capre transgeniche
contenga una quantità della relativa proteina
incommensurabilmente superiore a quella ottenibile tramite un
ipotetico allevamento di ragni – che non sarebbe comunque
industrialmente fattibile essendo i ragni cannibali. «Mettete
un gruppo insieme e ciò che ne ricavate è un
singolo,
felice e grasso ragno»,
nota Jeffrey Turner, il genetista molecolare amministratore della
Nexia ().
Nel
frattempo una società del Texas, la Yorktown Technologies,
ha
messo in vendita un pesce d'acquario, chiamato Glofish,
di colore rosso brillante alla luce del giorno e che diventa
fluorescente alla luce ultravioletta (),
basato sull'innesto "decorativo" di geni provenienti
dall'anemone di mare su un pesce tropicale, il pesce zebra, in natura
a strisce nere e argento. Di per sé la notizia sarebbe
interessante solo da un punto di vista legale, perché
nessuno
sa quale organo amministrativo americano sarebbe eventualmente
chiamato ad esprimere la sua opinione sul fatto che siano messi in
circolazione tali pesci geneticamente modificati: la Food
& Drug Administration ritiene infatti di non aver
alcun
potere in materia in quanto a differenza del salmone transgenico non
si tratta né di un alimento, né di un farmaco o
di
altra sostanza destinata al consumo umano; l'Environmental
Protection Agency e il Dipartimento
dell'Agricoltura similmente ritengono che i pesci ornamentali
non
rientrino propriamente nelle proprie competenze. Ma il Glofish non
è
altro che la ricaduta "americanizzata" di una tecnologia
sviluppata fin dal 1999 da un ricercatore dell'Università
di Singapore, che scoprì come dei pesci modificati
con
vari gruppi di geni tratti da meduse siano in grado di "accendersi"
di un determinato colore solo in presenza di metalli pesanti,
estrogeni o tossine, realizzando così un "rilevatore
biologico" utilizzabile in qualsiasi specchio d'acqua, e capace
di assumere una particolare colorazione, come una cartina di
tornasole, a seconda dell'inquinante presente.
D'altronde,
a parte casi particolari come quello ricordato, la maggior parte
delle ricerche sugli animali che non riguardano l'industria
alimentare interessano il settore della medicina. La prima idea
–
che rilancia la tradizione, ormai quasi superata a favore dei
prodotti di sintesi, di utilizzare gli animali per produrre sieri,
ottenere vaccini od estrarre ormoni – è quella di
trasformare parte degli allevamenti tradizionali in bioindustrie atte
a produrre medicinali. Nell'aprile del 1996, la Genzyme
Transgenic annunciava ad esempio la nascita di Grace, una
capra
transgenica con un gene che codifica il BR-96, un anticorpo
monoclonale che è stato sviluppato dalla Bristol-Myers
Squibb come farmaco antitumorale. La stessa
società sta
anche realizzando una capra capace di produrre antitrombina, una
sostanza anticoagulante, e conta di lanciare nuovi prodotti e
dimezzare i propri costi di fabbricazione di prodotti di sintesi
complessi tramite l'utilizzo di animali transgenici, contando ad
esempio con il farmaco utilizzato per curare la sindrome
di Gaucher di raggiungere con un gregge di sole dodici capre
la
medesima produttività dell'impianto da dieci milioni di
dollari ancora oggi in funzione ().
Da
parte sua, una società della Virginia, la PPL
Therapeutics, crea nel 1997 Rosie, una mucca transgenica il
cui
latte contiene alfa-lactalbumina, alimento essenziale per i neonati
prematuri che non possano essere allattati naturalmente, mentre in
Colorado la Somatogen crea un maiale che produce emoglobina umana
().
Nel
frattempo, nell'immediato, le applicazioni dell'ingegneria genetica
si estendono come abbiamo detto alla biologia marina. E' stato ad
esempio trapiantato con successo un gene, che previene la formazione
di cristalli di ghiaccio nel sangue, da un pesce artico alla trota e
al branzino, consentendo la crescita di questi pesci in acque molto
più fredde. Il trapianto invece del gene che sovrintende
alla
produzione dell'ormone della crescita nei mammiferi ha prodotto pesci
che si sviluppano più rapidamente e raggiungono taglie
maggiori. Altre ricerche hanno prodotto salmoni sterili, privi
dell'istinto suicida di smettere di mangiare e risalire la corrente
per deporre le uova.
Anche
qui, c'è chi ha parlato, per analogia con la "rivoluzione
verde" del secolo scorso, di questo secolo come quello della
"rivoluzione blu", in cui grazie a clonazione ed ingegneria
genetica la produzione dell'"acquacoltura" supererà
quella della pesca, come da millenni l'agricoltura ha superato quella
della raccolta dei prodotti spontanei della natura e ancora prima
l'allevamento degli animali terrestri ha superato il contributo (oggi
risibile) della caccia alla soddisfazione dei fabbisogni alimentari
umani ().
Tale prospettiva può piacere o meno, ma mentre alcuni
neoprimitivisti o tradizionalisti possono essere vegetariani, e
perciò non sentirsi particolarmente toccati dall'alternativa
caccia-allevamento, pochi tra loro suggerirebbero l'abbandono della
pratica dell'agricoltura – modo di vita cui da essi vengono
attribuite tutte le virtù, eppure "artificiale" e
"tecnico" per definizione sin dalla sua nascita nel
neolitico – a favore di una mera raccolta dei frutti
spontanei
della "natura". Ci si deve chiedere allora perché la
pesca non potrebbe essere confinata (e d'altra parte forse deliberatamente
continuata) in ambiti analoghi a quelli in cui
è oggi praticata la caccia, cosa tra l'altro che
consentirebbe
un diverso rispetto e protezione dell'ecologia marina.
Milioni
di persone stanno inoltre dagli anni novanta utilizzando medicinali
di origine biotecnologica, al posto di prodotti sintetizzati
chimicamente, per la terapia di patologie cardiache, tumori, e AIDS.
L'insulina prodotta con l'ingegneria genetica ha virtualmente
eliminato l'uso dell'insulina "naturale" estratta da grandi
numeri di mucche e di maiali. Con metodi simili, l'Amgen
produce l'eritropoietina, la Genentech
l'attivatore tissutale del plasminogeno, altre società
l'interferone usato per la terapia dei tumori e della sclerosi
multipla, etc. ().
Abbiamo
già parlato delle ricerche sugli agenti patogeni. In questo
campo, un lavoro interessante riguarda l'alterazione dei vettori.
Sono state create zanzare in grado di mescolarsi con quelle libere in
natura e di trasmettere un gene dominante per ghiandole salivari
modificate che le rende incapaci quando pungono la vittima di
inoculare la malaria. All'Università
di Yale, un gruppo di scienziati ha introdotto batteri
geneticamente modificati nell'intestino di un insetto sudamericano
chiamato "scarafaggio del bacio", che trasmette un
parassita responsabile della letale sindrome
di Chagas. Tali batteri secernono un antibiotico che uccide
il
parassita direttamente nell'intestino dell'insetto ().
Infine,
sotto l'aspetto ambientale, lo sviluppo di modelli sempre
più
raffinati di descrizione degli ecosistemi, e le risorse di calcolo
via via rese disponibili dall'elaborazione a parallelismo massivo e
dalla legge
di Moore, consentono di ipotizzare che possano essere in
futuro
deliberati interventi che vadano al di là dell'azione
più
o meno alla cieca su una singola caratteristica, un organismo, o una
specie, ma integrino sistemicamente intere ecologie.
Essendo
però impensabile ripetere le delicate operazioni di
ingegneria
genetica su ogni singolo individuo animale coinvolto nel caso degli
animali superiori, mancava però un tassello essenziale, che
viene presto aggiunto. Le prospettive per la coltura intensiva di
animali superiori dalle caratteristiche stabili, esattamente come si
fa in agricoltura da secoli con le varietà vegetali, si
aprono
infatti con la nascita di Dolly,
la prima pecora clonata, avvenuta il 22 Febbraio 1997 ad opera di un
embriologo scozzese ().
La tecnica utilizzata ha per la prima volta dimostrata la
possibilità
di produrre una grande quantità di copie geneticamente
identiche di mammiferi ed altri animali superiori, e sancito una
pietra miliare con riguardo alla stessa clonazione umana ().
Il significato di tale risultato non passa inosservato, e diventa
oggetto di vivaci discussioni sui media e nei comitati di "bioetica",
Italia compresa, e suscita notevoli emozioni anche nel pubblico, al
punto che un maglione fabbricato con la lana di Dolly viene venduto
ad un'asta per venticinquemila dollari. Subito dopo, sempre la PPL annuncia la nascita di una
seconda pecora clonata, Polly, che però
contiene già un gene umano modificato, contraddicendo le
previsioni secondo cui sarebbe stata necessaria all'uopo ancora una
ventina d'anni ().
Scrive
Alexander: «C'è sempre stata opposizione al fatto
di "pasticciare con la Natura". All'inizio del
Rinascimento, la chiesa sosteneva che la dissezione dei cadaveri
fosse un sacrilegio. Frankenstein
venne scritto come un'arringa per la supremazia del sublime in natura
sulla possibilità che i nuovi esperimenti
sull'elettricità
potessero sfidarla "rianimando" dei tessuti. La
fecondazione artificiale sperimentata da John Hammond era stata messa
al bando dalla Chiesa
di Inghilterra. E,
naturalmente, ci fu il Mondo
Nuovo di Huxley [alias]
dopo Haldane.
Ma fino alle cellule staminali, a Dolly, all'ingegneria del gene, e
al movimento verso l'informazione genetica come prodotto di largo
consumo, questi argomenti erano del tutto accademici.
L'elettricità
in effetti non rianima affatto tessuti morti. Ora, d'altra parte, la science
fiction di
colpo non sembra più tanto fiction» ().
Ed
aggiunge: «La realtà
della clonazione e delle cellule staminali tirò fuori i
bio-ludditi come Kass dal margine del dibattito
politico e galvanizzò una strana
coalizione tra politicanti conservatori, cristiani evangelici, la
chiesa cattolica, intellettuali di sinistra ed ambientalisti verdi, i
quali tutti realizzavano, come d'altra parte il piccolo movimento
bioutopista, che le tecnologie dei geni, applicate alle cellule
staminali ed alla clonazione, potrebbero finalmente permettere agli
umani di decidere del loro futuro biologico. Con la tecnica della
clonazione è possibile ingegnerizzare una cellula con un
tratto desiderato, inserire questa cellula in un uovo, ed ottenere
una creatura su misura. E' per questo che è stata inventata.
Le cellule staminali rendono la cosa ancora più semplice,
come
è successo per i topi di laboratorio customizzati. Questa
prospettiva guida l'improbabile alleanza. [...] Nessuna iperbole
è
eccessiva se ottiene il risultato di spaventare a morte il pubblico. Kass
ha persino parificato la lotta contro i mali della biotecnologia con
la lotta contro il terrorismo internazionale: "il futuro umano
riposa sulla nostra capacità di navigare evitando gli
inumani
Osama Bin Laden e i post-umani adepti del Mondo
Nuovo"»
().
In
effetti, per il capo del Consiglio
Presidenziale sulla Bioetica di Bush, jr., come per
Fukuyama, siamo sull'orlo
di trasformarci in post-umani. Leggiamo così all'inizio
della
sua opera più nota: «Non
ci rendiamo ancora conto della gravità della nostra
situazione... Il processo postumanista è già
cominciato. La "pillola". La fecondazione in vitro.
Embrioni in bottiglia. Uteri in affitto. Clonazione. Diagnosi
prenatale e screeening genetico. Manipolazione genetica. Coltivazione
di organi. Parti di ricambio meccaniche. Chimere. Impianti cerebrali.
Ritalin per i bambini, Viagra per i vecchi, Prozac per tutti. E, per
lasciare questa vale di lacrime, un po' di morfina in più
accompagnata da Muzak» ().
Nota Alexander: «Nello
spazio di due pagine, Kass
riesce ad evocare praticamente tutti i babau del ventesimo secolo,
persino i nazisti».
I
poveri emuli italiani di Kass hanno a loro volta trovato la grande
occasione di impersonare come "esperti" della lotta contro
il transumanismo un "potere dei chierici" difficilmente
immaginabile fino a qualche anno fa. Malgrado i considerevoli
risultati di anni di costante campagna metapolitica delle gerarchie
ecclesiastiche e dell'Università
Cattolica di Milano, il "bioetico" Francesco
d'Agostino, si lamenta anzi che non sia ancora abbastanza, e
rivendica per sé e per i suoi colleghi ruoli da sinedrio
talmudico: «Per
formulare [la legge italiana sulla procreazione assistita] credo
sarebbe stato saggio chiedere un parere all'organismo che dirigo, il Comitato
Nazionale per la Bioetica, che è l'organo
consultivo della Presidenza
del Consiglio su questioni etiche [sic!].
L'ultimo parere
del Consiglio sull'argomento risale a più di dieci anni fa.
Avremmo potuto suggerire, ad esempio, la costituzione di una
Authority delegata ad esprimersi e ad autorizzare certe ricerche
sull'embrione in casi estremi nei quali si ponga con urgenza il
bisogno di trovare una terapia salva-vita»
().
Naturalmente
la popolarizzazione di queste "battaglie" continua a
generare mostri. Nel dibattito sulle leggi americane contro la
clonazione umane, che l'amministrazione
Bush tenta di estendere al mondo tramite l'ONU
(),
il parlamentare relatore, Cliff
Stearns della Florida, ha brillantemente spiegato:
«Quando
fai un clone ci sono questi tentacoli, parte dell'ovulo. Loro li
tolgono. C'è un termine per questo. Quando cloni, non hai un
esatto clone del materiale degli ovuli. I tentacoli vengono tutti
rimossi... Il clone non li avrebbe, eppure io e voi li abbiamo quando
nasciamo. Avremmo una categoria di qualcuno, di gente che non ha
questi tentacoli e questa potrebbe essere gente inferiore o
superiore» ().
Commenta
Alexander: «Questa è
la sorta di spiegazione che fa sì che gli scienziati
nascondano la testa tra le mani e restino senza parole. Ma queste
concezioni sono diffuse. Nell'aprile 2002, l'"esperto" George
Will è apparso in televisione sulla rete ABC nella
trasmissione This
Week con George
Stephanopoulos e ha
sostenuto che tutte le forme di clonazione, terapeutica e non,
dovrebbero essere bandite perché "le cellule sono
entità
con un genoma umano completo". Di fatto, praticamente tutte
le cellule umane, i globuli rossi rappesentando un'eccezione, hanno
un genoma umano completo. Secondo la logica di Will, dovremmo
rispettare ogni possibile cellula del nostro corpo, incluse eventuali
cellule cancerogene»
().
Ma
in tale epoca, il bio-luddismo, almeno per la biologia umana, era
già
ufficialmente consacrato dal governo americano, in particolare dal
famoso ed esilarante discorso televisivo di Bush del 9 agosto 2001, in cui il
presidente, parlando dal suo ranch in
Texas, ha descritto il "viaggio" che lo ha condotto verso
le sue attuali conclusioni, dicendo di aver dedicato alla questione
«un mucchio di
pensieri, preghiera, e considerevole riflessione»,
per poi aggiungere «siamo giunti al Mondo
Nuovo che sembrava così distante quando
nel 1932 Aldous
Huxley [alias]
ha scritto di esseri umani creati in provetta in quello che chiamava
un'incubazionificio», ed annunciare alla fine forti
limitazioni
al finanziamento federale di ulteriori ricerche e la costituzione del
famoso Comitato
presieduto da Kass.
Anche
se vi è chi come Rahul K. Dhanda vorrebbe "guidare Icaro"
e mettere d'accordo nella più pura tradizione americana
ideologia e buoni affari, "Bible and business" (),
tale clima è ovviamente un invito a nozze per tutte le
correnti a vario titolo orientate in senso anti-faustiano, il cui
manifesto si può dire sia ben riassunto dal titolo di un
saggio del 2003 di Bill
McKibben, Enough,
ove l'autore dichiara apertamente che la questione ormai è
di
"decidere che in ogni campo la ricerca tecnica e scientifica
è
andata avanti abbastanza, e che non è veramente necessario
andare oltre", di "saper dire di no, saper restare umani",
e di «guardare il nostro
mondo, e proclamarlo buono, buono abbastanza. Abbastanza
intelligenza, abbastanza capacità. Abbastanza»
().
Eppure, come nota Ramez Naam, «per
tutta la nostra storia, abbiamo oltrepassato i nostri limiti e
incrementato le nostre possibilità. Se, come pensa McKibben,
sono i nostri limiti a definirci, allora abbiamo smesso di essere
umani molto tempo fa, quando abbiamo inventato gli utensili, il
linguaggio e la scienza che ha esteso il potere delle nostre menti e
dei nostri corpi oltre quello con cui i nostri antenati cacciatori e
raccoglitori erano nati» ().
In
ogni modo, siamo nel frattempo giunti alla prospettiva di una
pianificazione della produzione in massa di animali selezionati,
mutati e clonati, cui è possibile far produrre enzimi,
ormoni,
sostanze organiche, latte e carne dalle caratteristiche arbitrarie e
strettamente controllate, mentre altri parlano addirittura di
programmare la crescita negli animali di organi compatibili per
xenotrapianti sugli esseri umani (),
tecnologia per altro destinata ad avere poco futuro rispetto
all'alternativa di produrre invece organi non solo umani, ma clonati
direttamente da cellule del paziente, e perciò
privi di
rigetto e perfettamente analoghi a quelli donati da un gemello
identico. Ciò supera nettamente gli esperimenti odierni
legati
alla coltura di cellule su un'impalcatura di polimeri biodegradabili
– ad esempio con riguardo a mammelle, fegati od orecchie -, e
la
stessa promettente sperimentazione sulle cellule staminali, ad
esempio con riguardo al morbo di Parkinson o alla sindrome di
Alzheimer, che oggi fa tanto rumore in connessione alla loro
estrazione da embrioni umani abbandonati, che per altro sarebbero
diversamente destinati a non trovare alcun'altra utilizzazione
pratica ().
Quello
degli "organi" umani ed il loro futuro a medio e lungo
termine resta comunque un campo tutto da esplorare. Se oggi gli
"organi artificiali" e le protesi sono oggetti
relativamente rudimentali e ben distinti dall'organismo di chi ne fa
uso, così come gli strumenti che da sempre ampliano le
capacità fisiche, sensoriali e mentali degli esseri umani
sani, esiste una plausibile convergenza futura della tecnologia
biomeccanica, robotica ed informatica con le acquisizioni della
biologia, della medicina, dell'ergonomia, della genetica, della
neurologia, etc. Reti neuronali, nanotecnologie, realtà
virtuale, interfacce dirette tra sistema nervoso e dispositivi
digitali, intelligenza artificiale, servomeccanismi, stimolazione
diretta dei centri cerebrali umani ed animali, apparati autoriparanti
e/o con capacità di autoriprodursi, biochip, emulazione
delle
funzioni cerebrali superiori, sono tutti elementi che convergono
verso un'attenuazione della distinzione tra la sfera "organica"
e la sfera "meccanica" e verso una ridefinizione dei
confini e della natura dell'organismo e della sua esperienza.
John
Holston, uno dei direttori del Progetto
Genoma, si è chiesto: «Quanti componenti
di origine
non biologica possiamo impiantare su un corpo umano e continuare a
definirlo umano? [...] Forse una piccola espansione di memoria?
Un'aggiunta di capacità di elaborazione? Perché
no? Se
è così, forse una sorta di immortalità
è
potenzialmente dietro l'angolo». ().
L'ipotesi di poter ad esempio ricavare una copia completa
dell'esperienza di un essere umano su un supporto artificiale, magari
nel suo funzionamento con accentuate caratteristiche biotroniche, di
ricostruirla artificialmente e/o di riversarla di nuovo in un altro
cervello (),
apre ad esempio prospettive molto complesse, così come
quella
di trasformare radicalmente la percezione-del-mondo selezionata da un
apparato sensoriale sostanzialmente immutato da milioni di anni.
Certamente sono già mutate le modalità con cui
gli
esseri umani comunicano od accedono alle informazioni, ed è
prevedibile che il processo sia destinato a continuare; e non
c'è
bisogno di richiamare ulteriormente il ruolo di tutto ciò
con
riguardo alla possibilità stessa di esplorare e modificare
la
realtà biologica dell'uomo e delle altre specie, ad esempio
attraverso la sequenziazione genica, largamente basata sull'utilizzo
di risorse di calcolo e tecniche di precisione impensabili sino a
pochi decenni orsono.
La
bionica, uno dei luoghi di questa convergenza, si ricollega del resto
alle questioni già discusse sulla modifica dell'ambiente
umano
ed alle pressioni selettive che questo comporta a livello sociologico
e genetico. Abbiamo già scimmie in grado di pilotare braccia
robotiche mediante elettrodi impiantati nel cervello ().
A partire dall'innesto dei primi pacemakers nel 1958, oggi sono
comuni gli impianti cocleari, che restituiscono l'udito a persone
completamente sorde, e chips sperimentali impiantati sulla retina
già
provvedono qualcosa di simile alla vista a ciechi congeniti.
Similmente, sono oggi progettati supplementi cerebrali, di cui sono
stati testati modelli in simulazione con qualche decina di migliaia
di neuroni ().
Il loro scopo non è solo quello di trattare disfunzioni
cerebrali, ma di estendere l'esperienza sensoriale, aumentare la
memoria, permettere forme di comunicazione diretta per via
elettromagnetica che non pare eccessivo definire telepatica, e
consentire un accesso wireless diretto e
delocalizzato
all'informazione ed alle reti in questa si trovi conservata ().
Per
una integrazione reale dell'attività cerebrale con
dispositivi
artificiali di tipo digitale, ovvero senza passare dall'apparato
sensoriale e motorio tradizionale, sono necessarie tre condizioni:
«poter descrivere
l'attività elettrica neuronale legata a una
facoltà o a
un comportamento particolare; saper tradurre tale descrizione in una
forma algoritmica integrabile in un processore; realizzare processori
al tempo stesso abbastanza piccoli per stimolare precisamente la zona
coinvolta (da cui l'importanza della questione delle interfaccie
neuronali) e abbastanza potente per trattare l'algoritmo che
riproduca la facolta mentale voluta»
().
E' improbabile che processori elettronici tradizionali possano mai
soddisfare pienamente a tali condizioni, ed è molto
probabile
che qualche tipo di bio o nanochip sia destinato piuttosto ad essere
coinvolto. ma in ogni modo il quadro di vita che ciò ci
consegna ne viene radicalmente mutato ().
Non
sorprende in tale scenario che gli scambi umani, culturali e
finanziari tra informatica e biotecnologia diventino già
oggi
sempre più stretti, in particolare nel campo della ricerca.
Scrive Rodney
Brooks: «Al Laboratorio
di Intelligenza Artificiale del MIT
di cui sono direttore vedo segni di questa trasformazione ogni
giorno. Abbiamo smontato "clean rooms" in cui usavamo
lavorare su processori al silicio per installare al loro posto
"laboratori bagnati" dove compiliamo programmi in sequenze
di DNA che incorporiamo in genomi per allevare robot batterici. Il
nostro obbiettivo nei prossimi trent'anni è riuscire, invece
di coltivare un albero, abbatterlo e fare un tavolo con quanto
ricavato, a far crescere direttamente un tavolo. Abbiamo trasformato
laboratori in cui assemblavamo silicio e robot d'acciaio in
laboratori in cui assembliamo robot da silicio, acciaio e cellule
viventi. Coltiviamo cellule muscolari e le usiamo come attuatori in
dispositivi semplici, precursori di protesi che potranno entrare a
far parte integrante di corpi umani. Alcuni ricercatori nel campo
della IA che studiano come far sì che le macchine imparino
hanno smesso di costruire migliori motori di ricerca per il Web e
hanno cominciato ad inventare programmi in grado di imparare le
correlazioni nel genoma umano, e fare così predizioni sulle
cause genetiche delle malattie» ().
Larry
Ellison, fondatore di Oracle e reputato per un certo
periodo, prima dello scoppio della bolla
della New Economy nel tardo 2000, il secondo o terzo uomo
più
ricco del mondo, ha da parte sua stabilito la Ellison
Medical Foundation per studiare la biologia umana, con
particolare riguardo ai geni che governano l'invecchiamento, ed ha
avuto modo di dichiare a Business
Week: «se
avessi vent'anni, mi orienterei alla biotecnologia o all'ingegneria
genetica» ().
Un
altro punto cruciale è stato superato nel 1997 quando il
laboratorio di ricerca giapponese sponsorizzato dalla divisione
farmaceutica dei produttori
della birra Kirin è riuscito per la prima volta a
trapiantare un intero cromosoma umano, in particolare nel corredo
genetico di una cavia, impresa ritenuta da taluni irrealizzabile.
Sino ad allora, era stato infatti trasferito DNA solo in piccole
quantità, cinquanta volte inferiori ad un cromosoma. In
particolare, il cromosoma trasferito è quello che negli
uomini
riguarda la produzione di anticorpi, e puntualmente, nelle cavie,
l'introduzione di proteine estranee ha provocato la produzione degli
anticorpi stessi ().
Contemporaneamente, alla Case
Western Reserve University, in Ohio, viene annunciata la
creazione per la prima volta di un cromosoma umano artificiale ().
Commenta Rifkin:
«Ciò che rende il cromosoma artificiale umano
così
importante, è che esso contiene quella
prevedibilità
che nel passato era sfuggita agli scienziati che lavoravano nel campo
dell'ingegneria genetica. Fino ad oggi, gli scienziati hanno dovuto
inserire singoli geni all'interno di un virus, e poi utilizzare il
virus come vettore per inserire a loro volta i geni nei cromosomi
della cellula ().
Con questo metodo, tuttavia, non è possibile sapere quale
cromosoma acquisirà il gene aggiunto, né dove il
gene
si andrà ad integrare nella cellula una volta al suo
interno;
non esiste infatti alcuna possibilità di indirizzare il gene
in un punto preciso. Con l'uso dei cromosomi 'artificiali',
è
possibile inserire un intero pacchetto coordinato di geni. Ogni gene
si trova già al posto giusto nel suo cromosoma, e questo
elimina la necessità di ripetere l'esperimento nella
speranza
che ciò alla fine si produca per caso. I cromosomi
artificiali
aprono la strada a infinite possibilità di modificazione
delle
strutture genetiche sia delle cellule somatiche, sia di quelle della
linea germinale. La prassi di introdurre dei cambiamenti genetici in
un bambino, sia prima del concepimento nelle cellule sessuali, sia
subito dopo il concepimento nelle cellule embrionali, molto
probabilmente diventerà una realtà nei prossimi
dieci
anni» ().
Gregory
Stock [alias]
è d'accordo sul ruolo critico dei cromosomi artificiali, che
rinvierebbero per lunghissimo tempo, in particolare con riguardo
all'ingegneria genetica, la necessità di "pasticciare"
davvero con l'incredibile complessità dei cromosomi
esistenti,
che per le specie vegetali ed animali viene oggi affrontata
semplicemente selezionando ed affinando, per approssimazioni
progressive, i prodotti più o meno casuali di tentativi che
coinvolgono un grandissimo numero di gameti ed embrioni. Uno o
più
cromosomi artificiali potrebbero prestarsi in particolare a fare da
vettori di un certo numero di geni aggiuntivi, presumibilmente
sviluppabili in modo indipendente, disattivabili a richiesta, e con
un minimo di interazioni indesiderate: «Immaginate
che un padre futuro dia alla sua figliolina un cromosoma 47, versione
2.0, un modello di linea alta con una dozzina di moduli genetici
terapeutici. Al momento che la stessa cresce ed ha a sua volta dei
figli, non può non trovare tale cromosoma assolutamente
primitivo. Il suo modulo anticancro a tre geni impallidisce rispetto
al cluster ad otto geni e ad alta capacità della nuova
versione 5.9, che regola meglio l'espressione dei geni, è
attivo contro un maggior numero di tipi di cancro, ed ha minori
effetti collaterali. Il modulo anti-obesità è
rimasto
più o meno lo stesso della versione 2.0, ma la 5.9 ha un
entusiasmante set di diciannove moduli antivirus rispetto ai quattro
che lei ha installati, e un modulo anti-age che con un po' di fortuna
riesce a mantenere livelli giovanili di ormone della crescita per un
decennio supplementare, e conserva più a lungo anche il
sistema immunitario. La figlia può essere troppo apprensiva
per optare per alcuni dei modelli più sperimentali quando
è
il suo bambino ad essere coinvolto, ma non può immaginare di
trasmettergli tale e quale il suo antico cromosoma e forzarlo
più
avanti nella sua vita a dover prendere farmaci o sostenere altri
trattamenti per compensare le sue deficienze. E quanto al fatto di
ritornare allo stato naturale, pre-terapia, di ventitrè
coppie
di cromosomi, ebbene, solo dei Ludditi fanatici farebbero una cosa
del genere ai loro figli» ().
Abbiamo
già trattato del compimento del Progetto
Genoma umano, che è la base di partenza per
identificare
non solo i geni responsabili delle circa quattromila malattie
genetiche note, ma per capire il funzionamento dei geni, la loro
attivazione e disattivazione nonché la loro interazione con
l'ambiente, sia l'ambiente epigenetico che l'ambiente più in
generale in cui si trova a svilupparsi l'organismo. Se i test di
screening per alcune malattie genetiche più comuni sono
già
facilmente accessibili ed in uso quotidiano (),
è ugualmente aperta la strada allo studio delle complesse
determinanti poligenetiche che influiscono sui tratti morfologici,
nonché su carattere, personalità, comportamento,
attitudini, intelligenza, etc.; e di conseguenza alla manipolazione
di tutte le caratteristiche che abbiano una componente genetica
qualsivoglia nelle specie vegetali ed animali, uomo non escluso.
Riferisce Gregory
Stock [alias]
che ad un famoso simposio dallo stesso moderato nel 1998 ()
alla presenza di alcuni grandi biologi molecolari come Leroy
Hood, che ha sviluppato la tecnica per sequenziare
automaticamente i dati genetici, o French
Anderson, fondatore della terapia genetica umana, dove veniva
intonata la consueta litania tra l'ingegneria genetica "buona",
volta a "curare", e quella "cattiva", volta a
modificare o migliorare, il settantaduenne Watson,
padre del Progetto
Genoma e scopritore del DNA, è sbottato dicendo:
«Capisco
che nessuno abbia le palle per dirlo, ma se potessimo creare esseri
umani migliori sapendo come aggiungere dei geni, perché mai
non dovremmo farlo?».
Aggiunge Stock: «La
semplice domanda di Watson,
"se potessimo, perché non dovremmo farlo?" va al
cuore della controversia sulla modifica generica degli esseri umani.
Le preoccupazioni sulla fattibilità o la sicurezza delle
procedure sbagliano il bersaglio... Nessuno è davvero
preoccupato da ciò che è impossibile...
Ciò che
i critici come Leon
R. Kass, il noto bioetico dell'Università
di Chicago, temono non è che
questa tecnologia
fallisca, ma che abbia successo, ed un successo clamoroso»
().
In
effetti, già in un sondaggio internazionale condotto nel
1993 Daryl
Macer, direttore in Giappone dell'Eubios
Ethics Institute, aveva modo di constatare come un
sostanziale
segmento della popolazione dell'epoca in tutti i paesi in cui il
sondaggio si è svolto risconosceva che avrebbe voluto avere
a
disposizione l'ingegneria genetica tanto per prevenire patologie che
per incrementare le capacità fisiche e mentali ereditate dai
propri figli. E' interessante notare come i numeri forniti andassero
dal 22% riscontrato in Israele al 43% degli Stati Uniti all'83% in
India ().
Nota Ramez
Naam: «Ironicamente,
una delle reazioni più ovvie di chi si preoccupa della
"sicurezza" delle tecniche volte a migliorare le
prestazioni umane, ovvero quella di bandirla, risulta solo
controproducente. Qualsiasi tecnica di questo è probabile
diventi molto popolare. Consideriamo i precedenti: in aggiunta ai
più
di otto milioni di interventi di chirurgia plastica cui si sono
sottoposti, i consumatori americani nel 2002 hanno speso diciassette
miliardi di dollari in supplementi alimentari e rimedi naturali volti
a migliorare lo stato generale di salute o incrementare le
capacità
fisiche e mentali. Molti di questi hanno effetti modesti o nulli,
eppure sono incredibilmente popolari. Quando tecniche di
miglioramento fisico o mentale saranno disponibili, non faranno altro
che rispondere ad una vasta domanda in essere. Ora, il bando di beni
o servizi di cui esista un'ampia richiesta non sembra eliminare il
mercato per tali cose: si limita a crearne un commercio sottobanco.
[...] In un regime di mercato nero, la prima a soffrire è
proprio la sicurezza. Non vi è nessuno che assicuri il
rispetto di standard qualitativi. Non vi è la minaccia
legale
di una responsabilità del produttore di servizi o procedure
approssimativi.Diventa difficile compiere studi per verificare
problemi emergenti» ().
Il
proibizionismo ha del resto di fronte una strada assolutamente
impervia. Le statistiche provano che già oggi il
90% delle
coppie negli Stati Uniti che
scoprono dai test prenatali di attendere un bambino affetto da fibrosi
cistica scelgono di
abortire, cattolici compresi ().
Ovviamente, la percentuale che accetterebbe di farsi deliberatamente
impiantare un embrione affetto da tale patologia, come la legge
italiana sulla procreazione assistita vorrebbe demenzialmente
imporre, sarebbe di gran lunga inferiore allo
stesso modesto 10% di americani che sono disposti a portare avanti
malgrado tutto la gravidanza di un feto affetto.
Le
tecniche relative alla manipolazione delle linee germinali, dovessero
anche rimanere vietate nella maggiorparte dei paesi industrializzati,
sono destinate comunque ad emergere se non altro come sottoprodotto
della ricerca sulle cellule staminali adulte e sulla terapie
somatiche a base genetica (),
che hanno di fronte sfide molto più difficili. Aggiunge Stock [alias]:
«Paragonati agli interventi
genici a livello somatico, le inserzioni sulla linea germinale sono
in un certo senso più "naturali", se non altro per
il fatto che la loro regolazione è come quella del resto del
nostro genoma. [D'altro canto,] la terapia genetica somatica
è
ben inserita nel quadro della medicina generalmente accettata.
Nessuno che ha visto persone sofferenti di gravi sindromi come lafibrosi
cistica o l'anemia
falciforme negherebbe
loro una cura sulla base di una vaga apprensione filosofica
relativamente al fatto di alterare i nostri geni... L'ingegneria
germinale rappresenta un cambio di paradigma nella riproduzione
umana, ma quando efficaci terapie somatiche diverranno comuni, la
banalizzazione in generale degli interventi genetici tra il pubblico
aprirà la strada al passaggio dallo screening e selezione
degli embrioni alla loro manipolazione [perché in effetti
negare ad un embrione una terapia disponibile per adulto, e
perché
non estendere la guarigione non solo all'individuo, ma anche alla sua
prole? ()]. Inoltre, la
ricerca sulle terapie
genetiche somatiche produrrà
inevitabilmente il know-how utilizzabile
nell'ingegneria delle linee germinali» ().
Questo
porta con sé inevitabilmente l'idea di una
responsabilità
umana riguardo le caratteristiche in generale della propria
discendenza. La American
Academy for the Advancement of Science, editore della rivista
Science
e nota per la sua prudenza, malgrado gli anatemi bio-ludditi
ha avuto così già
modo di dichiarare: «Un
più grande conoscenza della genetica rende possibile
contemplare non solo il fatto di trattare o eliminare malattie, ma
anche di "incrementare" caratteristiche umane al di là
di quello che è necessario per restare o tornare in buona
salute. Esempi potrebbero essere sforzi volti ad accrescere altezza o
intelligenza, o ad intervenire per cambiare certe caratteristiche
come il colore degli occhi o dei capelli».
A sua volta, la National
Science Foundation ha dichiarato nel 1991, in un simposio con
il Dipartimento
del
Commercio americano intitolato "Converging
Technologies to Improve Human Performance" [alias],
che i partecipanti al convegno «raccomandavano
una priorità nazionale in termini di ricerca e sviluppo
sulle
tecnologie convergenti nel miglioramento delle prestazioni umane, in
particolare nei campi "nano, bio, info, cogno"»
()
(nanotecnologia, biotecnologia, informatica e scienze cognitive) ()
.
Personaggi
come lo stesso Craig
Venter, che come già ricordato con la Celera
Genomics ha per primo completato la mappatura del genoma
umano, e
il premio Nobel Hamilton
Smith, sono oggi impegnati nella ricreazione da zero del
genoma
funzionante di un microorganismo. Fino ad ora, era stato riprodotto
il "genoma" di alcuni virus, come il phiX174 su cui ha
lavorato Arthur
Kornberg: il progetto di Venter riguarda invece la
ricostruzione
del genoma del mycoplasma
genitalis, microbo molto semplice ma che presenta
tutte le
normali funzioni cellulari. Tra l'altro ciò rappresenta,
come
è ovvio, un passo fondamentale verso il vecchio obbiettivo
della "creazione della vita in laboratorio" ();
ma le sue ricadute potenziali a termine con riguardo alla
comprensione e gestione della genetica degli animali superiori e
dell'uomo sono altrettanto evidenti.
In
tale quadro, per quanto riguarda l'intervento diretto sul genoma
umano, giova notare che allo stesso non risulta più in alcun
modo applicabile l'"obiezione Beethoven" ()
avanzata contro le misure eugenetiche tradizionali, secondo cui
politiche volte a limitare la procreazione dei portatori di
caratteristiche indesiderabili potrebbero portare stocasticamente
alla perdita di tratti genetici o fenotipi eccezionali, buttando per
così dire il bambino con l'acqua calda. Tale intervento
infatti è letteralmente terapeutico,
limitandosi a
modificare quanto deliberatamente preso di mira, e consentendo
viceversa in potenza la conservazione di tratti positivi casualmente
associati con altri incompatibili con la sopravvivenza o altrimenti
indesiderabili.
«Così,
la mutazione tecnologica è molto probabilmente
durevole»,
scrive Kempf. «Bisogna
abituarci all'idea di manipolare fortemente l'essere umano, di
coltivarne le parti, di clonarlo, di programmarlo, di impiantarvi
dispositivi bionici, di interagire con macchine sempre più
dotate, etc. Non è che tutto sarà fatto,
ma tutto sarà possibile.
La trasformazione artificiale degli esseri si impone all'orizzonte
della società» .
Anche
le obbiezioni basate sulla complessità delle sfide che ci
stanno di fronte mancano sostanzialmente il bersaglio. E'
assolutamente vero che ci sfugge del tutto il meccanismo genetico di
alcune caratteristiche, pure certamente ereditarie, e che la
ricostruzione ingenua che immaginava il DNA codificasse in modo
semplice e lineare le caratteristiche del fenotipo è
soggetta
oggi ad importanti revisioni. Ma la nostra capacità di
manipolare i geni è definita non dalla
nostra ignoranza
di molti geni e combinazioni di geni che non capiamo, ma dalla
profondità della nostra conoscenza dei pochi che capiamo
già.
Mano mano che la genetica umana, animale e vegetale continua a
dipanarsi, troveremo che molti tratti sono troppo opachi per
ipotizzarne un'alterazione in tempi prevedibili, per altri la cosa
è
in qualche misura oscura ma fattibile a medio termine, e altri ancora
risultano sorprendentemente semplici.
La
natura apparente di un tratto fenotipico del resto non ci dice nulla
quanto alla complessità della genetica che vi sta alla base.
«L'"orecchio
musicale assoluto", o intonazione perfetta, è la
capacità di identificare una nota musicale senza alcun
termine
di paragone con cui fare una comparazione [ad esempio un diapason, o
la nota emessa da uno strumento musicale]. I meccanismi cognitivi e
fisiologici posti in opera da chi ne gode per raggiungere tale
risultato sono senza dubbio complicati, così che ci si
potrebbe aspettare che tale abilità sia la risulta di
contributi genetici numerosi, ma alcuni studi di associazione
familiare suggeriscono che il potenziale di sviluppare un "orecchio
assoluto" potrebbe dipendere da un singolo allele
(ovvero
la variante presente negli interessati di un singolo gene). E
ciò
benche l'acquisizione concreta di tale dote dipenda da un precoce
addestramento musicale, tipicamente a partire dall'infanzia,
così
che come molte altre doti dipende insieme da una predisposizione
generica e da un allenamento specifico» .
Come
scrive Stock [alias],
«Nessuna persona
ragionevole nega la complessità dei sistemi biologici,
così
che una certa dose di scetticismo in mezzo all'esuberanza
scandalistica dei titoli dei quotidiani sulla rivoluzione genomica
è
salutare. Ma concludere [o sperare] che non potremo mai superare le
difficoltà scientifiche e tecniche è prematuro, a
dir
poco. Oggi, la manipolazione della linea germinale umana non
è
né fattibile né tantomeno sicura. Tra un decennio
potrebbe ancora non esserlo. A due o tre decenni di distanza la
storia potrebbe essere diversa. Interventi concretamente praticabili
sulla linea germinale umana non richiederanno scoperte rivoluzionarie
[fundamental breakthroughs],
solo un avanzamento costante nella scala della nostra esplorazione
del genoma umano. Nel giro dieci anni, ne sapremo molto di
più
su come le nostre predisposizioni e vulnerabilità genetiche
si manifestano. Molte di queste influenze saranno probabilmente
impossibili da manipolare utilizzando la tecnologia attuale, altre
risulteranno difficili da decifrare ma non impossibili da maneggiare,
ed altre ancora potranno essere cambiate in modo relativamente
facile» ().
Rileva
Alexander: «Dal
punto di vista biotech, ci sono quanto meno 1500 buone ragioni per
ritoccare la biologia umana. Questo è il numero minimo di
malattie con una riconosciuta determinante genetica. Di fatto, quando
ti fermi a pensarci, siamo ben malcombinati. Sì, ce
l'abbiamo
fatta attraverso quattro milioni di anni di evoluzione, ma abbiamo
raccolto un sacco di spazzatura lungo la strada. Il genoma di ogni
persona ha qualcosa di sbagliato. Gli europei bianchi soffrono di fibrosi
cistica, con i polmoni che si riempiono di muco lasciando i
corpi
senza fiato. Gli africani hanno l'anemia
falciforme, un gene mutante che trasforma i loro globuli
rossi in
piccoli boomerang quasi incapaci di trasportare ossigeno. Italiani e
greci e ciprioti hanno la talassemia. Gli ebrei hanno la sindrome
di Tay-Sachs. Ci sono labbri leporini, bambini mongoloidi,
cromosomi X "fragili". La gente nasce con dozzine di
possibili sindromi come quelle di Marfans, Kleinfelter,
Rett,
Wiscott-Aldridge,
Kartageners, Pelizaeus-Merzbacher, Leigh,
il Cri
du Chat,. L'evoluzione, diceva Watson "può essere
dannatamente crudele"... Oggi i medici
vedono molti pazienti che vogliono sapere tutto sui test genetici,
sulla PGD (pre-implantion genetic
diagnosis). Spesso, tali genitori non hanno
problemi di fertilità, ma per ragioni familiari preferiscono
sottoporsi ai rigori della procrezione assistita così che i
loro embrioni comincino a crescere in un piattino, non in un
utero»
().
Oggi questo consente una manipolazione puramente diagnostica, a fini
di selezione degli embrioni (),
ma la tecnica apre la strada alla modifica diretta del genoma.
Continua Alexander: «Che
differenza c'è tra dare a un bambino insulina per il resto
della sua vita ed inserire un gene per la produzione di insulina in
un embrione che ne è sprovvisto? Non solo il bambino sarebbe
definitivamente curato, ma non passerebbe il difetto genetico ai suoi
figli, né questi ai loro».
Inseminazione,
fecondazione, gestazione
Il
cerchio si chiude in effetti con la maturazione delle tecnologie
relative al meccanismo riproduttivo animale ed umano.
Già
la scoperta di tecniche di controllo delle nascite affidabili,
sicure, e che interferiscono scarsamente con l'esplicazione della
vita sessuale degli individui coinvolti ,
se da un lato potenzialmente facilita oggi il "suicidio
demografico" di alcune popolazioni (tendenza che d'altronde
è
sempre stata una costante storica dei periodi di decadenza),
dall'altro consente una rigorosa scelta del partner con cui si
desidera procreare e sulla cui prole è destinato a
concentrarsi l'investimento parentale dell'interessato. Se la scelta
"tradizionale" e "naturale" del partner sessuale
è comandata, nell'uomo e negli animali, principalmente dal
"sussurro dei geni" sociobiologico, la scelta procreativa
consentita dalla contraccezione diventa una opzione del tutto
cosciente e tendenzialmente sganciata dalle pulsioni individuali o
(come diversamente accadrebbe specie in coloro che hanno più
tendenza alla promiscuità) dal semplice gioco del caso.
Ciò
naturalmente enfatizza il ruolo della cultura in tale scelta,
nonché
la responsabilità interamente umana al riguardo nella
società
del "terzo uomo". L'identità del proprio partner
riproduttivo non può più essere attribuita ad un
attimo
di... distrazione, ad uno stupro, ad una serata di baldoria, o al
primo "interlocutore" resosi disponibile al termine di un
periodo di astinenza forzata.
Similmente,
il fatto che l'aborto sia divenuto relativamente sicuro e indolore, e
sia stato reso (a prescindere dalle finalità perseguite)
sostanzialmente discrezionale, almeno nel primo periodo di gravidanza,
dalla maggiorparte degli
ordinamenti (),
fa sì d'altronde che diventi impossibile, nel bene e nel
male,
prevenire una eliminazione e/o selezione prenatale dei nascituri per
ragioni sostanzialmente arbitrarie ().
La
prima inseminazione artificiale umana risale al 1884, anno in cui Nietzsche
[alias,
alias]
termina La
gaia scienza [versione
Web originale], e vede una donna farsi fecondare con lo
sperma di
uno studente di medicina, da questa neppure conosciuto. L'importanza
pratica della tecnica cambia d'altronde drasticamente negli anni
settanta, quando la conservazione in azoto liquido degli spermatozooi
rese possibile lo stoccaggio di grandi quantità di campioni
di
sperma, e la loro utilizzazione a piacere, permettendo tra l'altro la
selezione delle caratteristiche del donatore, al punto da venire oggi
utilizzata su larghissima scala nella riproduzione animale.
Così,
nella stessa epoca vengono per la prima volta costituite banche del
seme che consentono in linea di principio alla madre (o al medico) di
scegliere un donatore sulla base di qualsiasi caratteristica o gruppo
di caratteristiche siano state ordinatamente registrate all'atto
della raccolta, tra cui razza, altezza, corporatura, colore degli
occhi, grado di intelligenza, background etnico e religioso, e
addirittura nazionalità ().
Già
all'epoca della guerra del Vietnam giovani americani depositarono il
loro seme in banche specializzate per garantire alle loro mogli di
poter comunque concepire loro un figlio ove non fossero più
tornati. Nota persino un personaggio come Chiara
Valentini: «L'associazione
tra paternità e partenza per la guerra è antica,
moltissime fonti l'attestano, è consegnata alla cultura
popolare. Quando il soldato canta "Addio, mia bella, addio",
aggiunge, a parziale consolazione: "ma non ti lascio sola,
ché
ti lascio un figlio, amor". Oggi il soldato può lasciare,
oltre a un figlio, la semplice possibilità che questo nasca,
proiettando la sua capacità di procreare oltre la fine
stessa
della vita. [...] Ma non si è spinti al deposito e alla
congelazione del seme soltanto dal timore della morte»;
oggi, i soldati ed altre persone a rischio possono piuttosto volersi
«garantire la possibilità
della procreazione nel caso in cui ferite o intossicazioni ne possano
pregiudicare la fertilità. Da anni si ricorre alle banche
del
seme proprio quando si teme che, per esempio per effetto di un
intervento chirurgico, si possa perdere la capacità di
generare» .
Nel
1978 è la volta della prima procreazione extra-corporea o FIVET
(),
in cui un ovulo prelevato dalla madre venne fecondato in laboratorio
e reimpiantato dopo tre divisioni cellulari (in questo caso nella
madre biologica), dando vita ad una bambina, Lousie Brown, concepita
a Manchester con l'aiuto di Patrick
Steptoe e Robert Edwards ().
Ciò smentiva la National
Academy of Sciences americana, che nel 1970 aveva incaricato
una
commissione di studiare i tempi necessari per la messa a punto della
fecondazione in vitro, ed aveva concluso che ci sarebbero voluti come
minimo venticinque anni. Per poco, del resto, tale fondamentale
esperimento non era stato anticipato di una decina d'anni da un
italiano, Daniele
Petrucci, che fin dal 1961 aveva ottenuto una fecondazione in
provetta e mantenuto in vita l'embrione per trenta giorni (salvo poi,
preso dal panico, distruggerlo, senza con ciò scampare le
reprimende di Civiltà
cattolica); e
che apparentemente sarebbe stato qualche anno dopo addirittura
interrotto nel tentativo di impianto di un embrione dall'intervento
di un sacerdote, inviato dal vescovo di Bologna, a paziente
già
addormentata (!) ().
Ormai
circa un milione di bambini sono nati da allora in questo modo, in
tutto il mondo. Di questi, almeno diecimila sono nati dopo una
gestazione avvenuta in una donna diversa dalla madre biologica, e
geneticamente del tutto estranea all'embrione. Tali fattispecie
comprendono ovviamente sia i casi in cui la "madre" sterile
riceve la donazione di un ovulo che quelle in cui la madre ricorre ad
un utero surrogato per il fatto di non essere capace o disposta a
portare a termine una gravidanza. Gli allarmi quanto
all'impossibilità di considerare e trattare normalmente i
bambini nati in tal modo, a suo tempo proclamati da Kass
e Rifkin (la cui iniziale
opposizione all'IVF è stata dal primo
abbandonata, dal secondo persino... smentita, malgrado i suoi scritti
più antichi testimonino altrimenti) (),
si sono scontrati con la più completa indifferenza da parte
degli ambienti sociali di tali bambini, che hanno in qualche caso
ormai raggiunto i venticinque anni, e che non sono in media
considerati più "speciali" di quanti tra noi siano
nati da un taglio cesareo piuttosto che da un parto naturale.
Nel
1984, a Melbourne, nasce il primo bambino sviluppatosi da un embrione
congelato, ed inizia la pratica di espiantare il numero desiderato di
ovuli della madre in unica soluzione, eliminando lo stress della
continua stimolazione ormonale delle ovaie per il prelievo degli
ovuli, che vengono successivamente raccolti, fecondati, conservati e
tenuti a disposizione per il futuro ed eventuale reimpianto ().
Molto
più complicata, ma già sperimentata con successo
per
molte specie, la conservazione degli ovociti, che a differenza degli
spermatozooi, o degli embrioni stessi, di per sé sopportano
male il congelamento, raramente sono fecondati anche quando l'abbiamo
sopportata, e raramente danno corso con successo a gravidanze anche
quando siano fecondati. Proprio in Italia, d'altronde, almeno tre
bambini sono già nati da ovuli congelati. Mentre poi lo
sperma
è per definizione abbondante in natura (),
«un grandissimo
numero di giovani donne metterebbe verosimilmente "in banca"
le proprie uova se potesse farlo facilmente»,
constata Gregory
Stock [alias].
«Questo calmererebbe
se non altro l'ansia relativa all'esaurirsi dei loro orologi
biologici. Molte di tali donne certo non userebbero poi mai le loro
uova conservate, e concepirebbero i loro bambini attraverso il sesso
[tenendo queste ultime unicamente "per sicurezza"]. Ma
altre donne sceglierebbero di farsi direttamente impiantare un
embrione, [dopo aver fatto fecondare un certo numero di ovociti],
vedendo la cosa come una procedura banale, troppo comoda per farne a
meno» ().
Anche
in Italia, sin dall'inizio degli anni novanta «autorevoli
riviste scientifiche hanno fatto delle proposte in questo
senso»
ricorda Luigi Frigerio, citando «per
esempio, la possibilità di crioconservare ovuli nelle
pazienti
che si debbano sottoporre a terapie oncologiche con il rischio di
perdere la fertilità. Ancora: è stata proposta
questa
tecnica nelle donne che vogliono [...] evitare i rischi genetici di
una maternità in età tardiva. Ancora: prima della
sterilizzazione tubarica, per il caso che la donna poi cambiasse
idea; o in caso di rischio genetico, per poi eseguire un controllo
qualitativo sul concepito»
().
Un
aspetto curioso della conservazione degli ovociti, come nota Kempf,
è
che gli ovociti in questione possono essere addirittura prelevati da
femmine allo stato fetale. E' così possibile far nascere
bambini la cui
madre biologica non abbia mai vissuto (),
dopo fecondazione con il seme desiderato ed impianto in una madre
ospite, non importa se sterile o a sua volta feconda.
In
ogni modo, l'ampia diffusione di tali tecniche ha certo un potenziale
significato di grande rilevanza non solo come oggi con riguardo a
problemi di fertilità individuale, ma soprattutto con
riguardo
alla natalità delle popolazioni e segmenti di popolazioni
che
sono più esposti a pressioni sociali anti-demografiche
nell'ambito
delle società occidentali, ad esempio legate ai
tempi lunghi necessari per assicurarsi un'indipendenza economica, o
per evitare che la cura della prole interferisca con le prospettive
di sviluppo sociale e professionale degli individui coinvolti; e il
rilievo di tali fattori in termini di selezione negativa, o di
aggravamento dei differenziali demografici tra componenti etniche
diverse, non ha certo bisogno di illustrazioni nella nostra epoca.
Naturalmente,
la facilità con cui è oggi possibile conservare e
trattare spermatozooi, ovuli ed embrioni, fuori dall'utero ed in
numeri non vincolati alla biologia della gravidanza umana (o se per
questo animale), potendone poi assicurare lo vitalità nel
momento desiderato, è fondamentale ai fini di ogni possibile
procedura di esame, selezione, ed intervento nel senso già
discusso, in particolare in vista dell'eliminazione o riparazione di
embrioni portatori di tare genetiche, e della programmazione
deliberata delle caratteristiche del fenotipo. Ciò viene
appunto ad aggiungersi al significato che già oggi assumono
nel medesimo senso la disponibilità di tecniche raffinate di
diagnosi prenatale ed aborto selettivo; di metodi di identificazione
certa dei genitori biologici, ed in particolare del padre, attraverso
l'esame del DNA o dei gruppi eritrocitari rari; e di metodi
anticoncezionali efficaci, sicuri ed a basso costo ().
Non
solo. In un certo senso, l'opposizione alla IVF (in-vitro
fecondation) o
"procreazione assistita", come è politicamente
corretto chiamarla in Italia per escluderne qualsiasi funzione
diversa da quella di rimedio a difficoltà procreative, ha in
effetti un senso per i bioetici come Kass
ed i suoi emuli italiani, per ragioni che poco hanno a che vedere con
la retorica sulla dignità umana o i richiami religiosi, e
che
consistono esattamente nel fatto che la relativa tecnologia
rappresenta ovviamente la porta d'accesso, in campo animale e umano,
a tutte le manipolazioni riproduttive discusse nel presente saggio,
escluso solo l'aborto selettivo ().
E' solo la fecondazione in vitro infatti che può consentire
la PGD
(pre-implantation genetic diagnosis,
ovvero lo screening e la scelta degli embrioni), la clonazione, e gli
interventi diretti sulla linea germinale, ovvero l'ingegneria
genetica propriamente detta ().
Come nota Stock [alias],
«a coloro che si
occupano di infertilità non potrebbe importare di meno di
remote nozioni come ridisegnare gli esseri umani: sono tutti troppo
occupati a dare supporto psicologico ai pazienti, ad eseguire
ecografie, ad aspirare uova, supervisionare procedure di laboratorio,
impiantare embrioni. Sono integralmente impegnati nel qui ed ora, con
uomini e donne che per lo più hanno difficoltà ad
avere
bambini di cui hanno grande desiderio. La portata più ampia
del loro lavoro è comunque inequivocabile»,
specie con riguardo alla concepibilità stessa delle
tecnologie
discusse.
Riconosce
d'altro canto Vittorio
Possenti dell'Università di Venezia, membro del
solito Comitato
Nazionale di Bioetica: «Le
nuove tecniche [della fecondazione assistita] cambiano il nostro modo
di guardare alla procreazione, alla nascita, alla vita, alla
famiglia, accendono i desideri, creano nell'immaginario collettivo
una nuova percezione della paternità, maternità,
figliolanza, sviluppano attese e paure inedite, danno all'uomo un
sentimento di onnipotenza... Non pare dunque scenario inventato che i
successi della scienza e la fiducia in essa che facilmente producono,
uniti alla mentalità eugenetica che va prendendo piede,
conducano a ritenere che la vera e sicura generazione sia quella
interamente artificiale, non più il naturale concepimento
seguito da gravidanza» ().
E ciò malgrado il fatto che la legge italiana esplicitamente
restringa il ricorso alla fecondazione artificiale ai casi di
sterilità o infertilità di coppia, ad esclusione
di
qualsiasi altro scopo ().
In
modo del tutto convergente, chi fa già oggi ricorso alla
IVF,
con correlativa selezione dei gameti o degli embrioni effettivamente
utilizzati, sarà automaticamente incline a fare uso di tutti
gli strumenti disponibili inerenti alla possibilità di
determinare le caratteristiche del figlio da ottenere, sia attraverso
quanto si rende spontaneamente disponibile a seguito degli incontri
tra i gameti dei due partner, sia attraverso l'alterazione del codice
genetico loro tramite trasmesso.
Nel
mentre che l'aborto resta largamente consentito in vista di
un'incomprimibile deferenza per i "diritti umani" della
madre, la questione più o meno ridicola già
citata
quanto all'esistenza di uno stadio di pre-embrione, in particolare
prima del quattordicesimo giorno successivo alla fecondazione (),
rileva non solo ai fini di trovare scappatoie per la morale cattolica
in materia di fecondazione artificiale che siano meno macchinose
delle soluzioni "tecniche"attualmente ipotizzate ().
Tale problematica figura potrebbe essere infatti necessaria ad
eludere le norme sulla ricerca biomedica sugli esseri umani contenuti
in codici e dichiarazioni internazionali, a cominciare dal Codice
di Norimberga del 1947, sino alle Direttive
Etiche Internazionali per la Ricerca Biomedica Condotta su Soggetti
Umani del 1993 ().
Mentre
la procreazione assistita ha comunque definitivamente introdotto una
parte delle tecniche necessarie alla futura fattibilità di
interventi sulla linea germinale umana, abbiamo già visto
come
un'altra decisiva componente di tali tecniche sia stata generata come
sottoprodotto della cosiddetta "clonazione terapeutica".
Mentre non è chiaro se bambini clonati già
cammino
sulla terra, gli embrioni umani prodotti da cellule qualsiasi nella
primavera del 2005 in Inghilterra ed in Corea in vista di possibili
"terapie staminali" distano da un bambino solo l'impianto
in un utero disponibile secondo modalità ormai ben
esplorate,
e garantiscono perciò la ripetibilità indefinita
delle
operazioni e delle sperimentazioni.
L'ultimo
passo nel controllo umano della riproduzione propria e degli altri
mammiferi sarà la creazione di uteri artificiali, la
gestazione integralmente in incubatrice.
Se
il parto è oggi ampiamente pilotabile e il taglio
cesareo è praticato da duemila anni, da lungo
tempo la
tecnica medica è impegnata ad abbreviare progressivamente il
tempo che un essere umano per sopravvivere deve trascorrere
all'interno di un utero femminile, che è ormai sceso dai
nove
mesi canonici a meno di sei, grazie all'impiego di culle
termostatiche, alimenti speciali, incubatrici con condizioni
ambientali strettamente controllate, e altre terapie utili in caso di
nascita prematura, naturale o provocata che sia. Allo stesso tempo,
abbiamo visto che un numero crescente di bambini nasce in piattini da
laboratorio, dove l'embrione conosce già una breve fase di
sviluppo prima di essere reimpiantato nell'utero della madre, o di
un'altra donna che si presti a portare a termine la gravidanza. La
realizzazione dell'ipotesi che già il biologo e teorico
dell'eugenetica Jean
Rostand [alias]
(1894-1977) considerava inevitabile, una gestazione
completamente
extrauterina, viene ritenuta realizzabile in un periodo tra i
dieci e i cinquant'anni, ed applicabile su larga scala nel periodo
immediatamente successivo alla messa a punto delle tecniche relative.
Scrivono
già nel 1995 Langer e Vacanti: «Per tenere in vita
un
feto fuori dall'utero umano, la difficoltà principale che
bisogna superare è quella legata al fatto che i suoi polmoni
immaturi sono incapaci di respirare. [L'ossigenazione dei tessuti
potrebbe essere d'altronde garantita tenendoli immersi] in liquidi
come i perfluorocarburi, che trasportano ossigeno e biossido di
carbonio in quantità elevate. [...] Una pompa potrebbe
mantenere la circolazione del fluido costante e continua, agevolando
lo scambio gassoso. [...] L'utero artificiale andrebbe poi
equipaggiato con un apparecchio filtrante al fine di rimuovere le
tossine dal liquido. Il nutrimento potrebbe essere fornito per via
endovenosa, esattamente come avviene da parte della madre tramite il
cordone ombelicale. Un utero di questo tipo diventerebbe un sistema
autonomo nel quale lo sviluppo e la crescita potrebbero procedere
normalmente sino alla "nascita" del bambino» .
Esperimenti
di questo tipo sono già in corso. Dopo il lavoro
pionieristico
di Yoshinori Kuwabara nel 1990 all'Università Juntendo di
Tokio sui perfluorocarburi e la possibilità di utilizzare
tali
sostanze per ossigenare il feto mantenendolo immerso in un liquido
"respirabile", notevoli successi sono stati ottenuti con
feti di capriolo nel 1997 mantenuti in un liquido amniotico
artificiale e nutriti attraverso un sistema di circolazione
extracorporea. Un sistema misto, che conserva la placenta originale,
è stato studiato sempre su caprioli da Robert Guidoin
all'Università Laval nel Quebec .
In
effetti, le tecniche in questione sono applicabili anche con riguardo
alla riproduzione animale, né è necessario che in
tali
uteri siano prodotti embrioni interi, essendo perfettamente possibile
attraverso la manipolazione genica inibire la crescita di tutte le
parti del corpo tranne quella che si desidera far crescere
(affiancata naturalmente ad un sistema circolatorio e a un "cuore",
naturale o meccanico), ad esempio un prosciutto di Parma o un filetto
di bue o un "clone" del pancreas del paziente diabetico
().
Tali prodotti possono essere poi il frutto di incroci deliberati tra
gameti sessuali selezionati dall'operatore, o della clonazione di
cellule, eventualmente transgeniche, di individui già
esistenti .
In ultima analisi, il lento processo tramite cui il secondo uomo ha
progressivamente acquisito il controllo della riproduzione vegetale,
verrà ad estendersi nei prossimi anni all'insieme del
vivente,
specie umana compresa.
Pertanto,
nel secolo della biotecnologia, la comunità politica
potrà
rendersi del tutto padrona, e sarà in ogni caso
integralmente responsabile, del panorama umano e naturale su
cui
viene ad insistere, così come della sua composizione e
demografia.
Futuri
alternativi
Naturalmente,
l'unica cosa che sappiamo con certezza del futuro della nostra specie
e della nostra razza è che esso si trova di fronte
a noi.
Sappiamo anche che non esiste possibile "ritorno al passato"
().
Può esserci solo un ritorno
(propriamente: l'Eterno Ritorno) di ciò che
in
passato ci ha consentito di affrontare sfide nuove ed affermare noi
stessi. La nostra inquieta esplorazione del mondo, le
tecniche
che ne discendono, ci condannano a delle scelte, ci offrono dei
poteri, ma non possono dirci cosa farne. Questo non
appartiene
agli ingegneri o agli scienziati o ai giuristi, ma agli "eroi
fondatori", ai poeti, ed alle aristocrazie che sanno tradurre in
atto l'oscura volontà collettiva della comunità
popolare da cui emanano, costruendole monumenti destinati a sfidare
l'eternità, lasciando dietro di sé una "gloria
che
non muore".
Le
questioni qui discusse sono destinate comunque a plasmare il nostro
futuro. La crescente banalizzazione delle possibilità che
vengono via via aperte rende impensabile che esse
possano
essere unanimemente represse o ignorate a livello planetario per
qualsiasi durata di tempo significativa, qualsiasi sia la forza della
censura applicata, dell'influenza culturale e politica della tendenza
a negarne la portata o vietarne l'applicazione, del controllo
poliziesco interno ed internazionale che venisse stabilito al
riguardo ().
Ora,
vi è chi ritiene, pessimisticamente, che contro ogni
apparenza
il progresso teorico e tecnico fondamentale da tempo rallenti;
o che addirittura, dopo l'incredibile accelerazione del periodo a
cavallo tra i due ultimi secoli, si stia fermando, in coincidenza non
casuale con la graduale affermazione del sistema della
globalizzazione planetaria e della sua promessa di una fine della
storia; ed è lecito pensare che le mirabolanti applicazioni
attuali, ivi comprese quelle discusse nel presente lavoro, non siano
che "implementazioni" ed "industrializzazioni"
portate a termine da nani in punta di piedi sulle spalle di giganti
().
Ma la questione non ha veramente importanza, perché come
abbiamo visto gli sviluppi annunciati non richiedono alcun vero breakthrough,
alcuna
rivoluzione fondamentale nelle conoscenze e nelle tecniche oggi
disponibili. In fin dei conti, persino un'impresa fondamentale come
il completamento del Progetto Genoma umano non è consistita
in
altro che nel buttare risorse addosso ad un problema che in termini
generali si sapeva già come risolvere. Il
"mutamento
di paradigma" è già alle nostre spalle.
Perciò,
anche ipotizzando la scelta di un radicale tentativo di rimozione
collettiva, di un proibizionismo assoluto, il nostro modo di vivere
ne sarà irrimediabilmente cambiato. Ad esempio, per
ciò
che riguarda la riproduzione e l'ingegneria genetica umana, quando le
tecniche coinvolte saranno accessibili a tutti, poco oltre il livello
di una scatola del "Piccolo Chimico", per escluderne
davvero l'utilizzo dovremmo instaurare il sequestro di tutti gli
ovuli e gli spermatozooi ai naturali detentori onde prevenirne la
manipolazione; l'istituzione di una banca dati delle specie e delle
razze "naturali" da cui sarà vietato discostarsi; la
verifica per legge di tutte le gravidanze per controllare che siano
il frutto di ovuli propri, fecondati da un partner estratto a sorte e
di cui sia ignota l'identità genetica, e che le stesse siano
portate a termine senza sapere quale ne sarà il prodotto.
Che
uno scenario di questo genere possa davvero mantenersi è
però
molto poco probabile, malgrado gli sforzi dei "comitati di
bioetica" e dei legislatori più condizionati in senso
reazionario.
«E'
improbabile che provvedimenti legislativi alterino le
possibilità
fondamentali che emergono ora. Lo status legale delle varie procedure
in vari paesi può affrettare o ritardare il loro arrivo, ma
sono destinate ad avere un impatto limitato a lungo termine,
perché
le tecnologie genomiche e riproduttive in esame sorgeranno dal filone
principale della ricerca biomedica attuale, che
andrà
avanti comunque. Le messe al bando non determineranno se, ma quando
e soprattutto dove le tecnologie diverranno
disponibili, chi ne approfitterà, chi indirizzera il loro
sviluppo, e quali genitori avranno prima accesso ad esse. Le leggi
decideranno se le tecnologie verranno sviluppate in test clinici
condotti negli Stati Uniti, da laboratori governativi in Cina, o in
strutture clandestine in qualche isola dei Caraibi»
().
Nulla
impedisce invece che la frattura epocale che si prospetta venga ad
accelerare la fine della storia anziché
la sua rigenerazione. E' indubbiamente facile
immaginare uno scenario
in cui il Sistema, in particolare attraverso società
multinazionali e pubbliche amministrazioni complici, stabilisca o
rafforzi grazie alle biotecnologie il proprio potere sulle risorse
alimentari, energetiche e industriali, e le asservisca a
finalità
di controllo sociale, anche attraverso la deliberata accelerazione, a
livello di diretta manipolazione genetica delle popolazioni,
dell'uniformizzazione planetaria della specie e della rimozione delle
"devianze" potenzialmente destabilizzanti. Le tecniche
descritte potrebbero in tale quadro essere rese unicamente
strumentali al governo cieco di un "mercato" mondiale, ora
per sfamare un'umanità indifferenziata, sradicata, decadente
e
brulicante, votata al puro sfruttamento e distruzione dell'ambiente
terrestre; ora per servire finalità di microedonismo
borghese
di pseudo-élite degenerate – magari aggrappate
patologicamente alla sopravvivenza individuale dei propri membri e la
cui età media sarebbe del resto destinata ad innalzarsi
progressivamente – , ma comunque in un quadro di disumanizzazione
progressiva.
L'eliminazione
sempre più radicale dei fattori selettivi tradizionali, e la
loro limitata e meccanica sostituzione su scala mondiale con quelli
creati da un formicaio mercantilista e globalizzato, verrebbero
così
ad allearsi con una progressiva trasformazione dell'ambiente e
dell'uomo trascinata unicamente da meccanismi economici insensati, e
in particolare dalla dialettica perversa tra le capricciose
preferenze e i pregiudizi ideologici di consumatori autoreferenziali,
e i mezzi di condizionamento di massa che li determinano,
li echeggiano e li amplificano
al tempo stesso.
Tale
prospettiva, proprio in quanto completamente incontrollata, ha
indubbiamente notevoli potenzialità catastrofiche per la
nostra specie e il suo ambiente, quali quelli messi in risalto
soprattutto da chi combatte in generale la "rivoluzione
biologica" attuale da posizioni reazionarie, ed ancora quelli
inerenti al pericolo disgenico e alla "fragilizzazione"
della specie che consegue alla riduzione del suo grado di varianza
interna, della sua plasticità, e della sua
capacità a
sopravvivere in condizioni diverse da quelle, del tutto
artificiali, oggi garantite ai più, e non solo in
occidente.
Ma
se possibile ancora più agghiacciante è per
alcuni la
prospettiva che tale processo possa avere
successo, ed
effettivamente stabilizzarsi, realizzando la promessa biblica di
restituire alla fine la nostra specie a quella dimensione naturale,
puramente statica, "animale", se non "fisico-chimica",
da cui non avrebbe mai dovuto uscire mangiando i frutti dell'albero
proibito dell'ominazione.
L'ambiente
artificiale creato dall'uomo stesso, nel perdere le sue ultime
vestigia di "naturalità", finirebbe così per
reinghiottire il suo creatore, reso un mero, provvisorio ingranaggio
dai confini indefiniti, nel contesto di una "macchina"
bio-socio-economica capace di azzerare qualsiasi identità,
destino, appartenenza, autodeterminazione collettiva del proprio
futuro culturale e biologico; e addirittura qualsiasi tentazione
in questo senso. Non diversa è d'altronde l'aspirazione ad
un
Sistema che ci spogli definitivamente dalla "responsabilità
intollerabile" del dominio dell'uomo sull'uomo, di artefici
delle proprie fortune, a favore di meccanismi impersonali, di
interessi materiali ed individuali dati, e perciò prefissati
e
sottratti alla dimensione della libertà e dell'arbitrario.
Scrive Massimo
Fini:
«Se fosse solo una questione di multinazionali, di un trust
di
'cervelli' che guida la baraonda, di una qualsiasi Trilateral
o "Spectre",
le cose sarebbero più semplici. Ma il fatto è che
l'uomo moderno, nato col liberalismo, l'individualismo, la
democrazia, è divenuto ostaggio del meccanismo, industriale,
tecnologico, produttivo ed economico, che lui stesso ha creato e che
è sfuggito di mano agli stessi apprendisti stregoni che
pretendono di governarlo. Un meccanismo che si autoregola
esclusivamente in funzione della propria crescita ed
autoperpetuazione, indifferente alla condizione umana. Non sono le
oligarchie, nazionali ed internazionali, politiche ed economiche, a
guidarlo: queste sono solo i profittatori di giornata e le mosche
cocchiere di una carrozza che va per conto suo» .
In
ogni modo, i cicli parabiologici delle grandi culture spengleriane
del "secondo uomo" sono comunque finiti, così come
si è conclusa la possibilità che le razze che le
esprimono e che da queste sono plasmate possano limitarsi a ripetere
lo schema di vita in cui hanno abitato gli ultimi dieci o
quindicimila anni.
E'
proprio Spengler,
autore, con Il
tramonto dell'Occidente, di
quello che lui stesso definisce "Lineamenti
di una morfologia della storia mondiale"
ed analista dei grandi cicli delle cosiddette culture superiori, a
riconoscerlo: «Il
tempo non si può fermare. Non vi sono saggi ritorni
né
prudenti rinunzie. Soltanto i sognatori sperano nelle vie di
salvezza. L'ottimismo è viltà.
Siamo nati in questo tempo e dobbiamo percorrere sino alla fine la
via che ci è destinata... Questa è grandezza,
questo
significa aver razza» .
Aggiunge Jünger:
«L'uomo, come aveva
intuito Nietzsche,
è giunto al momento storico in cui non ha altra scelta se
non
quella di rinunziare alla propria umanità o di prendere in
mano il "dominio della Terra"»
().
Ma
è Nietzsche [alias,
alias]
stesso a indicarci cosa ciò significhi: «Il
"bene dell'individuo" è altrettanto immaginario del
"bene della specie". Il primo non è sacrificato al
secondo. La specie, vista da lontano, è qualcosa di
altrettanto inconsistente che l'individuo. La
"conservazione della specie" è
soltanto una conseguenza della crescita della
specie, il che equivale ad una vittoria sulla specie,
nel cammino verso una specie più forte. [...] E'
precisamente
con riguardo ad ogni essere vivente che si può mostrare
meglio
che esso fa tutto ciò che può non per conservare
se
stesso, ma per diventare più di ciò che
non
sia» ().
D'altronde,
la tendenza sovrumanista e postmoderna, da Nietzsche in poi, nel
rifiutare la visione linearista e provvidenziale della storia propria
ai monoteismi religiosi e laici che ci promettono la "pace"
della fine dell'avventura umana, sostituisce la sfera
al
cerchio, κύκλος,
dell'antichità pagana – una sfera la cui
superficie è
il presente, che si espande necessariamente verso l'esterno ma
può
ruotare in qualsiasi direzione ().
Certo, la visione "aperta" della storia non dà
certezze consolanti, ed implica necessariamente il fatto che la
storia possa finire. Garantisce d'altronde, sino a
che ciò
non si verifichi, che ogni punto, ogni epoca possano essere assunti
come il momento di una nuova origine, di una
rigenerazione
della storia stessa.
L'era
del passaggio al "terzo uomo" e della inevitabile
alterazione dei fondamenti biologici stessi della vita sul pianeta,
età in cui siamo destinati a vivere storicamente la nostra
esistenza, è perciò un'era primordiale
in cui si
affronteranno, ancora una volta, da un lato, l'aspirazione
paradisiaca alla fine della storia, delle differenze, dei conflitti,
della "presunzione umana"; dall'altro, un nuovo, possibile sogno
di grandezza su scala mai prima immaginata, capace di
proiettare la libertà e la volontà di potenza
della
propria comunità di riferimento "sino là dove
nessun uomo è mai giunto prima".
L'avvenire
apparterrà a chi saprà esprimere la
volontà più
forte, la consapevolezza più profonda.
APPENDICE:
"Il
rimedio di Prometeo e del Dottor Faust", di Guillaume
Faye
INDICE
Bioetica,
ambientalismo, biopolitica
Sovrumanismo
e "terzo uomo"
La
voce della reazione
La
minaccia disgenica
Ambiente
naturale, ambiente culturale e selezione
Specie
e razze
Deriva,
adattamento, differenziazione
La
"tentazione eugenetica"
La
manipolazione del vivente
Il
secolo biotech
OGM
ed altri mostri
Inseminazione,
fecondazione, gestazione
Futuri
alternativi
«In
principio era l'azione».
Il meccanismo della
rimozione, o réfoulement, che non
è
stato ovviamente solo Freud a descrivere, consiste
nell'utilizzo della
ben nota capacità umana di ignorare, dimenticare e
cancellare dalla
mente quello che è propriamente "intollerabile" per
l'individuo o il
gruppo coinvolti dal fenomeno. È inutile d'altronde notare
come non è
certo il fatto di rimuovere dalla propria mente un problema che fa
sì
che questo se ne vada...
Vedi il sito
di
Clonaid, "the first human cloning company in the world".