Biopolitica. Il nuovo paradigma


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A Simona

«Im Amfang war die Tat» (1)
Johann Wolfgang Goethe, Faust


Bioetica, ambientalismo, biopolitica

L'insieme di tematiche che possiamo riassumere con il termine di "biopolitica" rappresenta uno spartiacque fondamentale in termini di visione del mondo. Non solo. È la questione cruciale della nostra epoca, riguardando l'identità stessa della nostra specie, il suo futuro ed il senso della sua presenza nel mondo.

Il rapporto tra l'uomo e il suo ambiente, l'origine della vita e delle varie specie, l'ereditarietà, l'antropologia, la riproduzione, la selezione, la sanità, la demografia, rappresentano altrettanti argomenti "sensibili", che dopo la rimozione freudiana (2) di buona parte della fine del secolo scorso ritornano oggi prepotentemente alla ribalta. Riempiono così le pagine dei giornali ad ogni occasione le catastrofi ambientali vere o annunciate, la questione della brevettabilità di nuove specie, una pecora australiana clonata o l'annuncio di un'analoga clonazione di una bambina (3) da parte di una piccola setta, gli scontri sulla procreazione assistita o sull'aborto o sui cibi geneticamente modificati.

Per lo più, il dibattito su questi temi è oggi dominato dai cosiddetti studiosi di bioetica, personaggi normalmente caratterizzati da una forte ipoteca confessionale, in Italia di regola post-marxista o cattolica. D'altronde, se l'establishment scientifico, agroalimentare e chimico-farmaceutico si cura soltanto dei propri interessi a breve termine, le posizioni "bioetiche" non vanno in genere al di là della maledizione biblica contro la tentazione di "giocare alla divinità", e contro ogni nuova forma di dominio dell'uomo sull'uomo e sul mondo.

Anzi, chi ha davvero preoccupazioni ideologiche al riguardo è oggi quasi per definizione schierato nel campo "bioetico", dato che, come nel caso dell'ambientalismo, i suoi avversari semplicemente non percepiscono o si rifiutano di percepire il problema e si muovono in un logica di puro lobbyismo, che non tenta neppure di andare al di là della polemica politica spicciola («i cibi transgenici costano meno, e comunque vietarne l'importazione è contrario alla libertà dei traffici»).

Se per ecologia si intendeva un tempo semplicemente la scienza degli equilibri e delle interazioni tra le varie specie e tra queste e il loro ambiente chimico-fisico ed oggi il termine è passato ad indicare la sensibilità ed ideologia che passano anche sotto il nome di "ambientalismo", similmente il termine bioetica, come ricorda Leon R. Kass, era stato in realtà coniato dal biologo Van Rensselaer Potter, «per designare una nuova etica da basarsi non su fondazioni filosofiche o religiose ma sul terreno che veniva ritenuto più solido della moderna biologia, ed era poi passato ad indicare lo studio di tutte le intersezioni tra l'avanzamento delle scienze biologiche e le dimensioni morali della vita umana» (4). In effetti, il medesimo Kass, capofila della tendenza cosiddetta bio-luddita (5), tiene ancora nel 2002 a sottolineare che il Comitato Presidenziale cui è stato messo a capo da George W. Bush non è un comitato di "bioetici", ma sulla bioetica (6). Già all'epoca comunque il termine stava ormai ad indicare più che altro una specializzazione, politica o accademica, nella denuncia dei portati della biologia moderna.

Malgrado ciò, anche gli "studiosi di bioetica" raramente si occupano di altro che non siano le conseguenze immediate delle "novità" di... ieri, dagli OGM alla clonazione dei mammiferi alla fecondazione artificiale. Le questioni di più ampio significato e di più lungo periodo semmai sono state esplorate dalla fantascienza classica, specie del secondo dopoguerra, che pur offrendo per lo più epiloghi rassicuranti e politicamente corretti (gli scienziati pazzi messi in condizioni di non nuocere, i "superuomini" geneticamente modificati sconfitti dal bravo cittadino americano) ha avuto almeno il merito di esplorare scenari radicalmente diversi da ciò cui siamo abituati, e che pure inevitabilmente incombono.

Un autore ad esempio tuttora attivo e di discreta notorietà come David Gerrold ha ad esempio scritto un'intera saga, articolata in più romanzi e racconti, dedicata allo scontro tra la solita "Federazione terrestre" e la civiltà Morthan (da "more than", sottinteso "human", più-che-umano). Quest'ultima è una cultura creata nello spazio al di fuori della sfera di influenza della Federazione da un gruppo di individui geneticamente modificati che, separatosi dal resto dell'umanità e dalle sue convenzioni e regole, ha continuato a selezionare e modificare il proprio codice genetico per secoli, al fine deliberato di creare una razza superiore dalle prestazioni intellettuali e fisiche eccezionali (inutile dire che lo scenario rappresenta un'allegoria neppure troppo velata della seconda guerra mondiale). Simili temi si ritrovano nella storia futura di Jerry Pournelle, con particolare riguardo alla guerra contro il dominion del pianeta Sauron (7), e in altri esempi troppo numerosi per essere qui ricordati che hanno per oggetto catastrofi ecologiche e/o mutazioni radicali della nostra specie e del suo ambiente, fino al contesto radicalmente post-umano della Scala di Schild dell'australiano Greg Egan (8). Ma già molti autori dell'epoca d'oro della fantascienza si erano occupati intensamente della tematica della natura umana e delle sue possibili trasformazioni future, come ad esempio Poul Anderson, Robert A. Heinlein e Charles L. Harness. Tali autori non fanno d'altronde che prolungare una tradizione fantascientifica risalente quanto meno agli uomini-bestia nel classico del 1896 di Herbert G. Wells, L'isola del dottor Moreau (9).

Heinlein, come nota Brian Alexander, svolse comunque un ruolo decisivo nella penetrazione culturale di queste tematiche nella cultura popolare anglosassone e non, dove verranno declinate tra l'altro dall'entusiamo ingenuo delle correnti come il life-extensionism, in cui molto prima del New Age si mischiavano un senso di rottura epocale ed il superamento di molti assiomi tradizionali della correttezza occidentale, giudeocristiana e "democratica" con vari cascami delle ideologie egualitarie e progressiste (10). In realtà, una vera riflessione sulla "rivoluzione biologica" può trovare le sue radici, ed a partire dalla fine dell'Ottocento ha avuto una sua prima possibile risposta ad un livello ben diverso, con la riflessione sovrumanista relativa allo Zeit-Umbruch, la "rottura del tempo della storia". Con tale riflessione si fa strada infatti per la prima volta, in campo filosofico, antropologico e artistico-religioso, l'idea dell'avvento di un "terzo uomo", chiamato a farsi integralmente carico del suo destino attraverso un "nuovo inizio" che non tanto ripeta anacronisticamente, quanto riprenda e riproduca l'atteggiamento con cui la rivoluzione indoeuropea rispose alla sfida dell'era neolitica. E ciò in particolare attraverso un'integrazione culturale e postmoderna della tecnica contemporanea, che superasse la crisi di civiltà che già si annunciava.

Le denunzie "bioetiche" più recenti hanno abbastanza ben presenti le genealogie e le opzioni di fondo. Scrive Giuseppe Lissa: «In quest'epoca, segnata, secondo Nietzsche, dalla morte di Dio, una profonda crisi attraversò e lacerò il corpo della tradizione occidentale, dominata dall'ispirazione platonico-ebraico-cristiana (11), producendo effetti largamente negativi anche sulla tradizione liberale che ne aveva ereditato le istanze umanistiche più importanti... La libertà, secondo un antico concetto ebraico, rilanciato da Hannah Arendt, risiede nella capacità che ha l'uomo di strapparsi ai determinismi naturali, storici e culturali da cui è incalzato... Ora, proprio questa prerogativa venne messa in discussione dall'epoca di cui parliamo... Al di là del varco che questo passaggio consentì di superare, l'essenza dell'uomo si trovò ad essere dislocata, e fu riposta nella sua potenza... Ma non si limitò a questo. [La biologia], disvelando i misteri del corpo, mise l'uomo in condizione di intervenire su di esso per trasformarlo e per adeguarlo ai sogni di perfezione da lui sognati nel tempo in cui la sua umanità si era perduta dietro l'illudente convinzione che questa perfezione risieda nella realizzazione della potenza. Trasformandosi poi in medicina, la biologia alimentò il faustiano mito medicale e lo portò ad immaginare di poter estendere la propria potenza vitale e di poter trasformare il proprio corpo sino al punto da farlo corrispondere con l'immagine del suo desiderio, che era, come si è detto, un desiderio di potenza. Così egli soggiacque a questo desiderio completamente e nutrì l'ambizione di esercitare la sua padronanza sull'intero processo evolutivo, scoperto da Darwin, illudendosi di poterlo orientare in maniera da farlo corrispondere alle sue aspettative» (12).

Così, ecologia, pianificazione del territorio, della produzione e dello sfruttamento delle risorse naturali, bonifica, demografia, eugenetica, sviluppo sostenibile, programmi igienici, sanitari e sportivi di massa, antropologia, genetica delle popolazioni, biologia umana, storia naturale passata e soprattutto futura, sono argomenti che finiscono poi per acquisire negli anni venti e trenta un'improvvisa centralità politica, altrettanto ignota ai regimi liberali tradizionali che all'Ancien Régime, e con cui i regimi comunisti (sino che sono durati) e filoamericani del dopoguerra finiscono comunque per doversi confrontare. Cosa che in effetti non mancano di fare, ma secondo logiche appunto moralistiche, di breve termine, di bassa propaganda, di interesse economico, di neoprimitivismo velleitario, di pregiudizio ideologico, che si prolungano sino ad oggi.

Oggi, l'atteggiamento rispetto a tali questioni è divenuto una cartina di tornasole per individuare le "vere" appartenenze ideali di ciascuno. Esistono scelte personali che sono significative in gradi diversi. Che due consiglieri provinciali o due giornalisti siano d'accordo sul colore da dare ai tombini nel comune di Orgonzuolo non ci dice molto quanto ai rispettivi orientamenti ideali di fondo. Le questioni biopolitiche hanno invece in comune con le grandi questioni di politica internazionale il fatto di dividere nettamente coloro ad esempio che si schierano davvero su posizioni alternative all'ideologia dominante e i loro vari passati compagni di strada, specie quelli "di destra".

Sono però pressoché tutti d'accordo sul fatto che la "rivoluzione biopolitica" che si annuncia, anzi, che è già in corso, rappresenta perciò l'affermarsi di un nuovo paradigma con cui siamo tutti in un modo o nell'altro costretti a confrontarci (13).

La visione postmoderna, o, per usare il linguaggio di Guillaume Faye, archeofuturista (14), che in nuce ha già costituito l'ispirazione fondamentale del sovrumanismo di inizio Novecento e in parte dei successivi movimenti nazionalpopolari europei, non fornisce automaticamente soluzioni o risposte definitive, preconfezionate, alle questioni di cui trattiamo in questo articolo. Rappresenta più che altro un approccio diverso, un atteggiamento che supera e contraddice i pregiudizi tuttora dominanti, ed accetta pienamente le sfide che ci sono poste per integrarle in un possibile destino collettivo. Ciò anziché negarle in vista di ritorni all'indietro puramente onirici, o rifiutarne la responsabilità a vantaggio di meccanismi impersonali (logiche di mercato, microedonismo individualista, regole legalistiche astratte, movimenti entropici) che si spera abbastanza benevoli da consentire la nostra sopravvivenza come specie in un contesto più o meno accettabile.

Tutto questo naturalmente ha a che fare con una riflessione più generale sulla tecnica come elemento caratterizzante della nostra specie, e ciò in particolare nella particolare prospettiva che su di essa proietta la nostra cultura, in particolare nella sua fase attuale (15).

Tale riflessione sottolinea come l'essenza della tecnica non abbia nulla di tecnico: essa è per l'uomo un modo del disvelamento in senso heideggeriano, è un rapportarsi all'essere. Secondo questa prospettiva, proprio oggi, quando l'uomo avverte la dimensione alienante e reificante della civiltà della tecnica e vive il compimento della metafisica, cioè dell'oblio dell'essere, l'uomo è già preso da una dimensione "altra", che lo porta sulla soglia del mistero ontologico. «Heidegger, ad esempio, fin dall'inizio della sua riflessione, mette in luce come il Dasein, l'"essere-nel-mondo", significhi per l'uomo "prendersi cura delle cose", manipolarle e trasformarle secondo le sue esigenze. Essere in relazione con gli altri viventi e con l'ambiente che lo circonda significa per l'uomo avere la possibilità di comprendere, ed agire sulle regole fondamentali del divenire naturale. E la tecnica è un "progetto" che "dispone" degli enti trasformandoli in oggetto di calcolo e di manipolazione»» (16).

Così, secondo Heidegger, «ciò che è stato pensato e poetato agli albori dell'antichità greca è oggi ancora attuale, così presente che la sua essenza rimasta chiusa a esso stesso ci sta davanti e ci viene incontro da ogni parte, soprattutto e proprio là dove meno ce lo aspettiamo, cioè appunto nel dominio dispiegato della tecnica moderna, che è assolutamente estranea a tale ancestralità, ma che tuttavia ha la propria origine essenziale proprio in quest'ultima» (17).

«Da questa prospettiva», riconosce Maria Paola Firmiani, «la sensibilità neo-antica del pensiero contemporaneo evidenzia uno sradicamento epocale» (18).

La Forma (Gestalt) dell'Operaio di Ernst Jünger rappresenta tipicamente l'avatar storico di tale rinnovata frattura (19). Nota a tale proposito Alain de Benoist, dopo aver menzionato al riguardo il film Metropolis [DVD] di Fritz Lang: «Mobilitare significa "essere pronto, rendere pronto", nel senso in cui il soldato si rende pronto per la guerra. Ma significa anche rendere mobile, mettere in movimento. Come farà dunque il Lavoratore a mobilitare il mondo e ad affrontare i modi di esistere "antiquati"? Mobiliterà il mondo ricorrendo alla tecnica, quella tecnica che è di per sé la causa della "mobilitazione totale". E attraverso questa utilizzazione, la tecnica riceverà di colpo tutto il suo significato... Secondo Jünger, solo il Lavoratore coltiva una relazione "reale" con la tecnica: lui solo è capace di avere un rapporto autentico con il "carattere totale del Lavoro", che è identico all'essere nel senso della volontà di potenza. La tecnica non è solamente "il simbolo della Figura del Lavoratore", rappresenta altresì la maniera (die Art und Weise) in cui questa Figura mobilita il mondo. La vera ragione della tecnica non sta nell'"accelerare il progresso", ma nell'intensificare la potenza: la tecnica costituisce "lo strumento più potente e meno discutibile della rivoluzione totale"» (20).

Del resto, quest'ordine di idee aveva già da tempo permeato il panorama artistico ed intellettuale europeo con i grandi "manifesti" del movimento futurista (21). E le stesse correnti attualiste dell'idealismo italiano, con la loro insistenza sul concetto di autoctisi e sulla interpretazione della presenza dell'uomo nel mondo come atto (auto-)creativo dello spirito che si afferma ponendo un oggetto che è condizione necessaria della sua azione ma non può essere da lui separato, con conseguente coincidenza tra pensiero ed azione plasmatrice ed ordinatrice disegnano percorsi la cui convergenza in senso faustiano ed "attivista" non è troppo difficile identificare (22).

Similmente, «per Gehlen, l'uomo è naturalmente sociale, ma anche naturalmente tecnico, poiché il mondo culturale che costituisce la casa in cui egli si trova a suo agio è un mondo che può evolversi e costruirsi solo grazie all'intervento tecnologico. [...] L'uomo, che si presenta biologicamente carente nei confronti degli animali meglio adattati e più specializzati, è tuttavia capace di prestazioni imprevedibili e di attività insospettate, ma Gehlen si rifiuta di ascrivere queste caratteristiche ad una scintilla divina, ad un'anima immortale impressa da Dio nella sua creatura prediletta. Nell'antropologia elementare non c'è più posto per la divinità, è quindi l'uomo tecnologico che con le sue sole forze è in grado di superare le necessità e proiettarsi nel regno della libertà. La riflessione antropologica di Gehlen si avvicina alla concezione volta a fare dell'uomo l'essere capace di costruire il proprio futuro. E' la libertà di determinare il proprio destino che ripaga l'uomo di tutte le sue carenze organiche, realizzando ciò che tutti gli altri esseri, pur non limitati da "inadattamenti", "non-specializzazioni" e "primitivismi", non riuscirebbero mai a costruire: un "mondo culturale", un "ambiente artificiale", atto a garantire l'esistenza e a soddisfare le esigenze di quell'essere particolarissimo che è l'essere umano. Dalla costruzione dei più rudimentali utensili alla creazione delle più sofisticate apparecchiature odierne, la tecnica ha costantemente aiutato l'uomo ad aprirsi al mondo, a conquistare e a dominare tutta la terra...» (23).

Così, conclude Gehlen, «senza un ambiente preciso della specie al quale sia adattato, senza uno schema innato di movimento e comportamento (e ciò negli animali significa "istinto"), per carenza quindi di specifici organi ed istinti, povero di sensi, privo di armi, nudo, embrionale nel suo habitus, instintivamente insicuro già per via del farsi sentire interiore dei suoi impulsi, egli è chiamato all'azione, alla modificazione intelligente di qualsivoglia condizione naturale incontrata» 24.

Aggiunge Oswald Spengler: «[In tale prospettiva] la lotta della natura interna dell'uomo contro la natura esterna non è più sentita come una sofferenza (così Schopenauer e Darwin si rappresentavano lo struggle for life), ma come il grande senso della vita, che la nobilita; così pensava Nietzsche: amor fati. E l'uomo appartiene a questa specie» (25).

Sul piano biopolitico come su altri piani, essenza di tale nuovo e diverso approccio, nel secolo passato come in quello appena iniziato, è molto spesso una logica del terzo incluso, la cui portata è pienamente comprensibile soprattutto oggi.

Ciò significa in pratica, quando il dibattito contemporaneo appare fortemente polarizzato su posizioni contrapposte, che si presentano come i due termini di una alternativa insuperabile, negare in radice tale dicotomia; andare oltre la contraddizione che sembra riassumere tutte le possibili posizioni su un problema; in altri termini: tagliare il nodo di Gordio che esiste solo nella limitata prospettiva della visione del mondo oggi egemone. Lo scontro tra produttivisti ed ecologisti, tra naturisti ed adoratori della scienza medica ufficiale, tra evoluzionisti ed antievoluzionisti, tra abortisti ed antiabortisti, diventa in tale prospettiva superficiale, insensato, o basato su valori da superare, esattamente quanto l'idea ottocentesca che la politica si dovesse ridurre allo scontro tra "liberalismo" e "socialismo", o "laici" e "clericali", o "conservatori" e "progressisti".

Dal punto di vista postmoderno, a tali sorpassate dialettiche subentrano analisi diverse, che nel concreto sono inevitabilmente basate sullo stato momentaneo delle nostre conoscenze, su posizioni contingenti e opzioni in certo modo arbitrarie, ma che riflettono una costante rottura con la logica della modernità e delle sue radici umanistico-egualitarie.

Tali analisi possono naturalmente trovare espressione in prese di posizioni politiche, che d'altronde nella loro declinazione concreta possono per molti risultare ancora oggi, quando non addirittura intollerabili, quanto meno incomprensibili.

In tale prospettiva, ad esempio, la "grande questione morale" della procreazione assistita, che ha visto una delle maggiori "spaccature ideali" del parlamento italiano potrebbe essere legittimamente vista come un tipico non-problema, dal momento che in linea di massima qualsiasi misura abbia per effetto un sostegno anche minimo alla quantità e qualità della demografia europea autoctona è da considerarsi bene accetta, avendo rilievo il bilancio finale dei bambini nati vivi, e non del numero delle "anime" che siano eventualmente assurte in anticipo nel Regno dei Cieli, al di là dei pregiudizi religiosi (26) (ma anche dei desideri più o meno individualisti e narcisisti delle "aspiranti madri", di cui si fanno invece portatori gli ambienti che difendono indiscriminatamente tali pratiche 27); così che ciò che importa è soprattutto l'uso che della fecondazione artificiale venga praticamente fatto; ed è semmai tale ultimo aspetto che vede oggi un "Far-West dell'etica", non certo la prospettiva che un referendum radicale potesse mai integralmente abrogare la legge scandalosa, tartufesca e democristiana, introdotta nel 2002 sull'onda delle pressioni "bioetiche"(28), contro l'indifferenza e disinformazione dei più e la massiccia mobilitazione della chiesa cattolica.

Similmente, la vera questione in materia di aborto potrebbe essere considerata quella di se e quando l'aborto possa essere un dovere, mentre viceversa potrebbe parere irrilevante (o al limite da scoraggiare, sempre da un punto di vista di dinamica delle popolazioni) la sua rivendicazione come diritto, in relazione a scelte di tipo essenzialmente economico-edonistico, per di più unicamente della madre (29).

Ancora, nella prospettiva accennata, il problema della protezione e valorizzazione dell'ambiente risulta inscindibile dal problema già accennato del significato della tecnica, e del controllo tecnico dell'ambiente da parte di una volontà politica in un funzione del progetto collettivo di un particolare destino, ma certo non con irenismi neo-ludditi o fughe in un primitivismo velleitario e suicida, né con una "manutenzione" minimalista del palcoscenico necessario al dispiegarsi del Mercato e del progresso universale.

Viceversa, i termini in cui tutte tali questioni sono oggi dibattute non hanno neppure senso per chi non sta né "qui" né "là" nell'ambito della tendenza egualitario-umanista, ma semplicemente altrove rispetto a quest'ultima.


Sovrumanismo e "terzo uomo"

La biopolitica pone comunque la civilizzazione contemporanea in via di diventare globale di fronte a sfide "inumane". Rifiutarsi di affrontarle delegando le relative responsabilità al meccanismo impersonale del mercato, o tentare di negarle attraverso tipici meccanismi di rimozione, proibizionismo e repressione, conduce come vedremo ad una prospettiva propriamente disumana. A tale prospettiva possono unicamente essere opposte scelte consapevolmente tragiche e sovrumaniste, il salto di qualità di un nuovo inizio tramite cui prendere in mano il proprio destino "per mille anni", anzi, per intere ere.

Il nodo rappresentato in questo senso dalla rivoluzione biopolitica, e non solo, è stato anticipato da alcune riflessioni dell'inizio del Novecento, poi prolungate da autori come Arnold Gehlen o Giorgio Locchi (30), che descrivono i tratti di un'"antropologia operativa" di tipi umani, cui corrispondono diversi modelli culturali, propri sia di diverse fasi epocali che di popolazioni storicamente compresenti ancora in questo secolo (31).

In tale visione, troviamo innanzitutto il "primo uomo", quello dell'ominazione, dell'avvento del linguaggio, delle società di caccia e raccolta, della magia sciamanica che gli consente di identificarsi con modelli tratti dall'ambiente in cui è immerso per supplire alle sue deficienze istintuali e mettere a frutto la sua plasticità etologica. Tali aspetti sopravvivono socialmente nei mutamenti successivi, e continuano ad essere direttamente incarnati sino ad oggi, ad esempio negli aborigeni australiani, o nelle popolazioni indigene "non-negroidi" dell'Africa equatoriale e australe (pigmei, khoisan).

Dopo centinaia di migliaia di anni, sempre secondo questa analisi, sarebbe emerso per la prima volta, in qualche epoca successiva alla fine dell'ultima glaciazione e in un'ulteriore grandiosa tappa del progetto di autodomesticazione che descrive l'avventura della nostra specie, il "secondo uomo". Tale secondo uomo è l'uomo della rivoluzione neolitica, dell'agricoltura (con connessa vita stanziale e prima grande esplosione demografica), della "città", della politica, della religione, della divisione del lavoro, di quella che viene chiamata "tecnologia pirica", delle grandi culture spengleriane. Nell'epoca del secondo uomo, ormai l'"ambiente naturale" è diventato un ambiente culturale. Infatti, non solo l'ambiente naturale è ormai influenzato e plasmato dalla presenza umana, ma il fattore propriamente umano si intreccia inestricabilmente con il puro dato biologico in una azione combinata tanto sui singoli individui che sulle pressioni selettive che ne plasmano le linee genetiche.

Parallelamente, come nota Gehlen, «lo svicolamento delle cose di importanza vitale di questo mondo dall'irrazionalità di ciò che si offre immediatamente e la liberazione dalla infinita ricerca e procacciamento del cibo devono aver prodotto l'acquisizione di una nuova sicurezza esistenziale ed aver dischiuso orizzonti spirituali del tutto nuovi» (32).

Scriveva già Spengler: «Il ritmo della storia si accelera drammaticamente. Prima, i millenni contavano appena, ora ogni secolo ha importanza. Cosa è avvenuto? Se ci si addentra più a fondo in questo nuovo mondo di forme dell'attività umana, si vedono ben presto nessi molto confusi e complicati. Tutte queste tecniche si presuppongono reciprocamente. L'allevamento di animali domestici esige la coltivazione di foraggi; la seminagione e il raccolto di piante alimentari richiedono la presenza di animali da tiro e da soma, che a sua volta rende necessaria la costruzione di ripari e recinti; ogni genere di edifici esige la fabbricazione e il trasporto di materiali da costruzione, il traffico stradale, l'animale da soma e la nave. Cosa vi è in tutto ciò di spiritualmente trasformatore? Rispondo: la sistematica azione collettiva. [...] I nuovi procedimenti richiedono un tempo lungo, in certi casi anche anni – si pensi alla larghezza dell'intervallo fra l'abbattimento degli alberi e la partenza della nave costruita con essi – e richiede pure larghi spazi. I nuovi procedimenti si scompongono in serie di singoli atti esattamente ordinati e in gruppi di azioni svolte le une accanto alle altre. Ma questi procedimenti collettivi presuppongono, come mezzo indispensabile, il linguaggio » (33).

D'altronde, come già detto, il "primo uomo", sia a livello individuale che sociale, sopravvive integralmente nel secondo, che non rappresenta di per sé uno "stadio gerarchico" rispetto all'altro. Anzi, le classi dominanti delle società del secondo uomo rispecchiano sovente stili di vita "arcaici", riprodotti o mantenuti artificialmente in una forma più o meno idealizzata, esattamente grazie all'eccesso di risorse liberate dal mutamento del modo di vivere del resto della popolazione: il parco del re non è costituito da campi coltivati fittamente punteggiati da case coloniche, ma da riserve di caccia e giardini, sostanzialmente disabitati (34). La signoria sul mondo del secondo uomo non è infatti di chi ad esempio "inventa" l'agricoltura (35), ma di chi sa dominare ed integrare culturalmente i nuovi modi di vita in una sintesi superiore (36).

«L'impresa diretta verbalmente», nota Spengler, «è connessa ad un'enorme perdita di "libertà", dell'antica libertà dell'animale da preda, tanto per i dirigenti quanto per i diretti. Gli uni e gli altri diventano, spiritualmente e moralmente, corpo e anima, membri di una più grande unità. Ciò chiamiamo organizzazione. E' la fissazione della vita attiva in forme stabili, è la condizione propria ad imprese di qualsiasi genere. Con l'azione collettiva si fa il passo decisivo dall'esistenza organica all'esistenza organizzata, dalla vita in gruppi naturali alla vita in gruppi artificiali, dall'orda e dal branco al popolo, razza, ceto e Stato» (37).

Scrive Giorgio Locchi: «Avendo appreso [con il "primo uomo"] ciò che fa "muovere" se stesso, l'uomo cerca di "far muovere" gli animali e le piante secondo i suoi desideri e i suoi bisogni. Per ciò che concerne gli animali sociali, si è proposto di assumere nei loro riguardi un ruolo direttivo, sostituendosi al capobranco. Nello stesso modo, colui che ha attinto ad un livello di coscienza superiore, grazie ad una comprensione corretta della '"relazione magica" si pone in quanto aristocrazia nei confronti della società, ed afferma la propria sovranità. La religione costituisce in seguito il sistema ideologico che permetterà di "legare insieme'" la società, e di sottomettere la massa ad una data influenza. [...] Parallelamente alla "domesticazione del mondo vivente" da parte dell'uomo, preso nel suo insieme, si opera la "domesticazione" della massa da parte dell'élite, dell'uomo magico da parte dell'uomo religioso. [...] Questo "passaggio" nel quale consiste la rivoluzione neolitica, e che rappresenta il periodo oggi in via di conclusione (38), riveste un'importanza fondamentale. Non è troppo difficile riconoscervi ciò che la Bibbia chiama "espulsione dal paradiso terrestre", Karl Marx "la fine della società comunista primitiva", Sigmund Freud "l'uccisione del padre" e Lévi-Strauss infine "la separazione tra Natura e Cultura"» (39).

Infatti, il modo in cui il "secondo uomo" reagisce alla storicità che gli si apre, e ciò che ne è emerso, ha portato taluno a individuare altre suddivisioni, e precisamente:
- le culture "soggetto della storia", coincidenti in sostanza con quelle generate dalla rivoluzione indoeuropea (40), che si fanno pienamente carico della dimensione storica esprimendosi mediante il progetto eroico e tragico di forme e destini collettivi deliberatamente e consapevolmente assunti;
- le culture "in preda alla storia" (ad esempio, le grandi culture estremo-orientali, egizie, mesopotamiche, precolombiane, etc.); è difficile d'altronde districare la matassa dei contatti, scambi ed influenze che tali culture hanno subito con le prime, tanto che alcuni autori hanno ipotizzato un ruolo di "innesco" in via generale di influenze e gruppi indoeuropei, per imitazione, competizione o rielaborazione (41);
- le culture "fredde", ovvero le culture post-neolitiche che rifiutano la dimensione storica replicando se stesse in un contesto culturale assunto una volta per tutte (caso della maggior parte delle culture sub-sahariane e amazzoniche), culture che finiranno per diventare "oggetto della storia", in particolare della storia altrui, quando con questa verranno a contatto.

Queste distinzioni sono del resto riprese in termini identici da correnti importanti della cultura dominante, ben rappresentate da Lévi-Strauss [alias] e da tutta la corrente antropologica che vanta appunto i meriti delle "culture fredde", nonché da larghi settori dell'ecologismo politico, e che si salda in ciò con la nostalgia per l'immutabile del tradizionalismo "di destra".

Ricorda ancora Locchi: «Lévi-Strauss ci presenta le società "fredde", che sono spesso definite società primitive, come un esempio luminoso – o almeno da guardare con nostalgia – di fedeltà alla tradizione, alla permanenza e all'"Essere" (42). Riprendendo la descrizione fornitaci da Theodor G. H. Strehlow dei costumi quotidiani degli Aranda settentrionali, fa sua questa conclusione: "L'indigeno Aranda rispetta ciecamente la tradizione, resta fedele alle armi primitive che usavano i suoi lontani antenati, e l'idea di migliorarle non gli passa neppure per la testa". Ma questa seducente omelia gioca sulle apparenze più superficiali: sottende una definizione del tutto fallace della tradizione. Con una certa abilità, Lévi-Strauss confonde qui la lettera e lo spirito, l'atto e il fatto, il gesto e il suo effetto. Continuando ad utilizzare le loro "armi primitive" gli Aranda tradiscono, più che non rispettino, i loro "lontani antenati". Infatti ripetono là dove i loro antenati avevano improvvisato o inventato; segnano il passo là dove i loro antenati avanzavano; cercano rifugio in un mondo reso certo, mentre i loro antenati, sfidando l'ignoto, aprivano le porte di un mondo nuovo. Gli Aranda "fedeli alla tradizione'" non sono che i residui fossili della storia dei loro antenati (43). [...] Le "società fredde" ben meritano il nome di rami culturali pietrificati, che non evolvono più se non in base ad "avvenimenti" esterni e casuali, sotto la pressione di fattori che sono a loro estranei. Esse sono dunque alla mercé di ogni variazione dell'ambiente non prevista dal loro "programma". In breve, esse non possono sussistere in quanto tali che a condizione di non incontrare più la storia da cui sono uscite. È per questo che il contatto con la società occidentale risulta fatale alle "società fredde". Perché l'uomo bianco, persino oggi, rappresenta ancora la storia». La storia di cui per altro l'Occidente vorrebbe imporre la fine, a livello planetario (44).

In questo quadro, infatti, un ruolo del tutto particolare è rappresentato dalla nascita in Medio Oriente di una tendenza storica – rappresentata miticamente dalla scissione di Abramo e dalla fondazione di Israele, e prolungata dalle altre religioni monoteiste in rapporti certo molto complessi con le rispettive culture-ospiti – che pur restando immersa nella storia ne rifiuta moralmente il portato (la "torre di Babele") e trova la sua ragione d'essere nella promessa di una sua fine escatologica, e di una "demistificazione" costante delle sue opere, in particolare attraverso un rovesciamento del divino, che passa da strumento e proiezione dell'orgoglio e creatività umana, nel processo in cui il "secondo uomo" si impadronisce di se stesso e del mondo, a condanna e relativizzazione "trascendente" di tutto ciò (45).

Tale tendenza è evidentemente quella che nella sua forma secolarizzata e più radicale celebra oggi un'egemonia globale, nella veste del Sistema mondialista e meccanicista della fine appunto della storia (46).

Alla sua affermazione fa d'altronde riscontro il recente aprirsi di una prospettiva del tutto opposta: quella del passaggio incombente dalla "coscienza storica" all'autocoscienza di un "terzo uomo". Un passaggio cioè dall'azione meramente trasformatrice sul proprio ambiente culturale e naturale alla responsabilità dell'autodeterminazione diretta di un contesto ambientale, e di un'identità anche biologica, che ormai non possono che essere integralmente artificiali – esattamente come un parco è altrettanto artificiale di un palazzo e, proprio come un palazzo, può oggi venire in esistenza e mantenersi soltanto a condizione che una volontà umana e politica lo preveda.

Scrive Maria Teresa Pansera: «[Gehlen] paragona questo profondo mutamento con la transizione con la transizione vissuta dall'umanità nel passaggio dalla civiltà nomade alla civiltà stanziale dell'agricoltura. Tutto ciò non può essere accaduto senza passare attraverso sentimenti di crisi e insicurezza provati da coloro che si sono trovati a fare parte di una "cultura in declino". Il periodo storico in cui stiamo vivendo gli appare [analogamente] come un'"epoca di transizione" e non come un'era destinata ormai a scomparire» (47).

Il fatto che l'"Interregnum", lo Zwischenreich in cui ci troviamo trascenda del tutto la sfera della crisi politica e culturale europea è sottolineato anche da un autore lontano dall'antropologia culturale come Jünger: «Ci troviamo [oggi] ad una svolta tra due epoche, la cui importanza corrisponde pressappoco a quella del passaggio dall'età della pietra all'età dei metalli» (48).

Un punto chiave di tale passaggio sono naturalmente le questioni che abbiamo raggruppato sotto il termine di "biopolitica", e che del resto la riflessione postmoderna e sovrumanista anticipa in Europa ormai da oltre un secolo, nel quadro di una prospettiva più generale.

Infatti, nel momento in cui la natura stessa si trasforma tendenzialmente in un puro prodotto culturale, e contemporaneamente "Dio è morto", una risposta primordiale e faustiana – che riprenda, e al tempo stesso trascenda, l'atteggiamento indoeuropeo rispetto ai problemi posti dal passaggio al "secondo uomo" – rappresenta l'unica scelta (forse) capace di condurci ad esiti più umani (anzi, "più-che-umani", propriamente: sovrumani), e non meno umani, disumani, nella svolta che ci si prospetta (49).

Disumani appaiono infatti, inevitabilmente, gli esiti di un rifiuto della sfida politica, estetica, esistenziale cui siamo esposti, a favore di meccanismi impersonali quali il "mercato", una "natura" ormai del tutto immaginaria, o il proibizionismo velleitario di chi, in particolare nell'estrema destra e nell'estrema sinistra, vorrebbe continuare a nascondere la testa nella sabbia.

Come nota Gehlen «la rivoluzione industriale che oggi volge al termine segna infatti la fine delle cosiddette "culture superiori", affermatesi dal 3500 a.C. fino oltre il 1800 d.C. e promuove la nascita di un nuovo tipo di cultura, oggi ancora non ben delineato. Seguendo questa linea di pensiero, si potrebbe addirittura arrivare a pensare che l'"era civile" come periodo storico sia vicino a spirare, se intendiamo la parola civiltà nel senso che ci viene illustrato dalla storia delle culture superiori dell'umanità sino ad oggi» (50).

Ciò è da subito inteso nei termini di una rottura anche a livello propriamente biologico, per quanto poco significato possa avere per la nostra specie la distinzione tra "biologico" e "culturale": Predica già Zarathustra: «Ogni essere sinora ha creato qualcosa sopra se stesso: e voi volete essere il riflusso di questo gran flusso e ritornare alla bestia, anziché superare l'uomo? Che cosa mai è la scimmia per l'uomo? Una derisione, una penosa vergogna. Questo deve essere l'uomo per il Superuomo: una risata, una penosa vergogna. Finora avete percorso la via che va dal verme all'uomo, e molto è in voi ancora verme» (51).

La cosa è d'altronde particolarmente evidente con riguardo alla questione ecologica, che può essere affrontata unicamente attraverso una capacità di progettualità politica che implica a sua volta un maggiore, e non un minore, grado di tecnologia, e di dominio dell'uomo su se stesso e sul suo ambiente (52). Se l'Ipotesi di Gaia (53), cara all'"ecologia del profondo", è davvero utile per descrivere la realtà dell'ecosistema terrestre, è solo il nipote di Gaia/Gea, Zeus, il dio "elettrico" della folgore, che può oggi amministrarne l'eredità.

Scrive Heidegger: «Nietzsche è il primo a riconoscere il momento storico in cui l'uomo si prepara ad assumere il dominio di tutta la Terra. Nietzsche è il primo pensatore che, in vista di una storia mondiale per la prima volta emergente, pone la domanda decisiva e pensa tutte le sue più profonde implicazioni. La domanda è: l'uomo, in quanto uomo nella sua natura sinora, pronto ad assumere la signoria del pianeta? Se no, cosa deve succedere all'uomo perché egli sia capace di sottomettere la terra e rivendicare così un antico legato? Non deve l'uomo, così com'è ora, essere portato oltre se stesso per adempiere a questo compito? [...] Di una cosa, comunque, dovremo presto renderci conto: questo pensiero che mira alla figura di un maestro che insegnerà il Superuomo concerne noi, concerne l'Europa, concerne tutta la Terra. Non solo oggi, ma ancor più domani. E lo fa sia che lo accettiamo sia che ci opponiamo ad esso, lo ignoriamo o lo imitiamo con accenti falsi» (54).

Ma la cosa si riflette in ogni questione attinente al nostro futuro, e in particolare quelle attinenti alla conoscenza e manipolazione diretta, da parte dell'uomo, di se stesso e delle altre specie viventi, e di riflesso dell'insieme del paesaggio del pianeta.


La voce della reazione

Nel 1978, all'apice del successo mediatico della cosiddetta Nouvelle Droite, all'epoca fortemente caratterizzata dalle sue riflessioni su materie come l'etologia umana, i rapporti tra razza e intelligenza, l'evoluzione, la sociobiologia, la demografia, etc., ed in particolare dalla polemica contro la repressione culturale e scientifica in essere su questi argomenti (55), Albert Jacquard scrive per reazione un volumetto dal titolo paradossale di Eloge de la différence (56); tale testo è di grande interesse, perché pur essendo di qualche anno fa solleva già buona parte delle questioni decisive, e, senza davvero falsificare i dati rilevanti, che anzi riporta in abbondanza, cerca di trarne conforto per una posizione diametralmente opposta a quelle descritte nel presente studio.

Leggiamo nell'introduzione: «La caratteristica dell'Uomo è trasformare tutto ciò che lo circonda, la sua natura è vivere artificialmente. Egli manipola secondo i propri fini l'ambiente nel quale vive, fino a modificare le specie vegetali e animali che gli sono utili. Basata su una conoscenza sempre più precisa dei meccanismi del mondo inanimato e di quello organico, la sua azione è divenuta sempre più efficace. Questo nuovo potere, perché non utilizzarlo per raggiungere l'obiettivo più affascinante: il miglioramento dell'Uomo stesso?».

E l'autore continua: «È un'idea molto antica. L'Umanità è responsabile non solo della propria trasformazione morale o spirituale, del proprio progredire verso una civiltà migliore, ma lo è anche del proprio divenire biologico. Già gli Egiziani, gli Ebrei, i Greci si preoccupavano di difendere la loro "razza" da un'eventuale degenerazione, di migliorare, se non l'insieme, almeno una parte del gruppo, di giungere ad un Uomo nuovo, a facoltà superiori. L'abbandono nel XIX secolo delle teorie fissiste che vedevano in ogni specie una creazione specifica, definitiva, di Dio, e la scoperta del processo di trasmissione di caratteristiche biologiche fra una generazione e l'altra, la conoscenza progressivamente affinata del nesso tra la composizione del patrimonio genetico e le caratteristiche individuali hanno alimentato nuove speranze: diverremmo finalmente "novelli Pigmalione", in grado di plasmare la nostra specie? Al di là delle speranze e di timori imprecisati, è necessario fare il punto su quello che si sa, e soprattutto su quello che si vuole: di cosa si tratta veramente?».

È fin troppo facile rimarcare qui una serie di luoghi comuni. Per coloro per cui l'"Umanità" non esiste, esistono solo gli uomini e le civiltà concrete cui questi danno vita, è difficile immaginare che l'Umanità possa essere responsabile di alcunché, men che meno di un "progresso" che appartiene esclusivamente alla mitologia linearista e provvidenzialista del monoteismo secolarizzato, e che oggi è rimesso in discussione anche in tale ambito. Arbitraria e grossolana appare anche la generalizzazione di «Egiziani, Ebrei, Greci», come se la riflessione di tali tre culture sulla propria rispettiva "etnicità" avesse mai seguito percorsi convergenti! Infine, proprio chi rivendica l'eredità "greca" ed indoeuropea come propria radice, e ad essa si richiama come origine esemplare, è ben consapevole che quella dell'"Uomo nuovo" è un'idea... postmoderna, non pre-moderna.

Ciò detto, è difficile non sottoscrivere tale programma, eventualmente per giungere alla fine a conclusioni opposte a quelle dell'autore.

Un anno prima era uscito negli Stati Uniti un altro libro, scritto da Jeremy Rifkin e Ted Howard, intitolato Who Should Play God? The Artificial Creation of Life and What it Means for the Future of the Human Race (57), che invece si preoccupava di denunciare le minaccie della nuova tecnologia che ormai cominciava ad essere chiamata "ingegneria genetica". Tra le altre cose il libro prediceva che specie transgeniche, chimere, cloni, bambini concepiti in provetta, uteri in affitto, la fabbricazione di organi umani e la chirurgia genetica si sarebbero tutti realizzati nel corso del secolo, e dava una veste rispettabile ad idee già fatte proprie da movimenti come Science for the People, che oltre a predicare l'ostracismo accademico contro i test di intelligenza e la psicometria in generale (58) suggeriva in modo non troppo metaforico di far saltare semplicemente in aria i laboratori di genetica.

Orientamenti non molto diversi esprimevano del resto le prime riflessioni italiane in materia, soprattutto in ambito cattolico (con le questioni del controllo delle nascite, della fecondazione artificiale e dell'aborto a fare da battistrada) e soprattutto nel mondo ecologista in via di trasformarsi anche nel nostro paese in movimento politico, con i due filoni rappresentati dall'associazionismo ambientale e dai militanti di sinistra delusi nella loro attesa della rivoluzione. Se i partiti "verdi" restano minoranza, talora infima, nelle sinistre dei vari paesi, gli stessi d'altronde finiscono per liquidare definitivamente, soprattutto in Europa occidentale, gli entusiasmi leninisti del tipo "soviet più elettricità" ed esercitano un'influenza profonda tanto sui partiti comunisti e socialisti che sui gruppi più radicali (59).

Nello stesso periodo, del resto, gli intellettuali d'area cominciano anzi a prestare orecchio al neomalthusianesimo del Club di Roma (60), e il millenarismo prende il posto dell'ottimismo "progressista" di maniera, in salsa di opposizione contro il "fascismo elettronucleare", nell'idea che l'uomo non debba passare certi limiti, che li abbia già passati e che si debba anzi tornare indietro, sull'onda anche del dissesto ambientale creato dal "miracolo economico" degli anni precedenti, e della crisi energetica dei primi anni settanta, considerati da taluno la prima avvisaglia del medioevo prossimo venturo (61).

Il termine "ecologia" è stato introdotto per la prima volta nel linguaggio corrente da Ernst Haeckel. Nel 1868, nella sua Storia naturale della creazione, Haeckel [alias] definiva l'ecologia come «lo studio dei rapporti tra l'essere vivente e l'ambiente che lo circonda; definizione che può ancora essere ritenuta valida se si tiene presente l'evoluzione che ha subito successivamente il concetto di ambiente (62). L'ecologia rappresenta così una "spazializzazione" della biologia, ovvere l'applicazione di metodi di analisi interdisciplinare ad una data situazione, ad un dato luogo, precisi e delimitati e localizzati, in parte fisico-chimici (ciò che viene chiamato biotopo), in parte biologici (ciò che viene chiamato biocenosi).

Di questo qui-ed-ora ecologico, cui viene dato il nome di ecosistema, non vengono studiate soltanto le caratteristiche, la morfologia e le componenti, ma anche le tendenze evolutive, le condizioni di equilibrio e disequilibrio, la storia passata, le reazioni al mutare di alcuni fattori, etc.

Appare così evidente come sia estremamente grande il numero delle discipline implicate nello studio dell'ecologia, dalla chimica alla climatologia, alla geologia, alla meteorologia, alla paleontologia, a tutti i rami della biologia stessa, tra cui genetica, etologia, istologia, dietologia, biochimica, botanica, zoologia, agraria. I dati che queste dscipline forniscono vengono poi trattati ed estrapolati in base ad una tipica analisi sistemica. Ritroviamo così in campo ecologico una serie di concetti di uso frequente in tutti i campi descrivibili in termini cibernetici: modello, stato, storia di stati, sistema aperto e chiuso, autoregolazione, retroazione positiva e negativa, equilibrio, livello di astrazione, simulazione, etc.

A partire dall'ecosistema in astratto vengono inoltre definiti, oltre al biotopo e alla biocenosi, l'habitat (ovvero l'insieme dei biotopi in cui un organismo può vivere, in quanto possiedono tutti i requisiti necessari alla vita dello stesso), la nicchia ecologica ("parte" dell'habitat in cui vive una data specie, ovvero l'insieme dei rapporti di questa con l'ecosistema), la successione ecologica (la trasformazione evolutiva di una data biocenosi), il climax (stato di massimo sviluppo in condizioni di equilibrio) (63), che sono le principali categorie analitiche dell'ecologia moderna, cui va ancora aggiunta la valenza ecologica, ovvero la maggiore o minore capacità di un organismo ad adattarsi a variazioni dell'ambiente (64).

Va sottolineato che l'ecologia non si oppone minimamente ad un intervento dell'uomo sull'ambiente. Al di là della considerazione ovvia che l'ecologia, in quanto scienza (e quindi insieme di proposizioni descrittive e non normative) non si "oppone" nemmeno all'inquinamento generalizzato ed al suicidio collettivo per avvelenamento, ma ci dice soltanto quali saranno i risultati di dati fattori, dopo di che sta a noi decidere ciò è vero anche in un senso più profondo.

L'ecologia infatti, proprio in quanto scienza, ricerca e determina "definizioni operative" dei propri oggetti di indagine, elabora modelli che permettono previsioni di approssimazione crescente, analizza le relazioni causali all'interno dei sistemi studiati. Ovvero, come ogni altra scienza, fonda una propria tecnica che permette, anzi, crea una situazione di appropriazione e dominio dell'uomo sull'oggetto studiato, in questo caso l'ambiente, l'ecosistema, la natura.

E' così solo per uno scivolamento semantico, pur tutt'altro che insolito, che a partire dagli anni settanta il termine stesso di ecologia finisce per rimandare all'ideologia che può essere definita ecologista, ideologia che ha espressioni proprie, ma che è presente, in forma diluita, in tutta la cultura dominante e, ad esempio, praticamente in tutti i partiti politici italiani. La tesi centrale di questa, secondo Hans-Magnus Enzensberger [alias], si esprime così: «le società industriali della terra producono delle contraddizioni ecologiche che le condurranno (necessariamente) alla rovina in un avvenire prossimo». Affermazione che traspone le affermazioni di Marx dal dominio economico al dominio "naturalistico": nello stesso modo in cui si riteneva che le contraddizioni interne del capitalismo avrebbero portato alla sua perdita, le "contraddizioni ecologiche" dovrebbero portare alla fine del mondo o perlomeno della "civiltà delle macchine".

Domina così un'idea della Natura astratta ed universalista, percepita da un lato come statica, immutabile, da sempre e per sempre data, dall'altro come nettamente separata, anzi in opposizione all'uomo rispetto all'uomo e alla cultura, trascurando il fatto che l'uomo, in quanto essere vivente, della natura fa comunque parte, per quanto vi sia chi arrivi a sostenere che la nostra specie è un "incidente", una manifestazione "patologica" o un "cancro". In realtà, però, è la stessa scienza ecologica a rimettere in discussione questa visione paradisiaca (non estranea del resto al fatto che i suoi propugnatori vivono come tutti gli intellettuali occidentali in un ambiente iperprotetto), nel momento in cui ci mostra come gli ecosistemi evolvano e decadano, come gli equilibri che si vengono a creare siano in realtà risultanti dinamiche provvisorie, che possono variare e variano nel tempo anche senza nessun intervento "umano", risultanti dalla lotta di tutte le specie (o meglio dei loro geni) per mantenersi ed espandersi, e dai caratteri di quel biotopo in quel momento dato.

Non esiste in realtà alcun equilibrio naturale prefissato ed indefinitamente autosufficiente che possa essere "turbato". Il successo dei mammiferi, evento certo non provocato dall'uomo, ha "distrutto" in un certo senso l'equilibrio precedente dell'ecosistema, creandone uno nuovo. Al contrario, l'immigrazione di una specie straniera in un dato habitat può provocare teoricamente la scomparsa della maggiorparte delle forme di vita di quell'ambiente, magari compresa alla fine la stessa specie estranea. Fenomeni di inquinamento, ad esempio a seguito delle eruzioni vulcaniche o del rilascio di idrocarburi negli oceani, si verificano anche spontaneamente, creando sterilizzazione di zone limitate o potenti spinte selettive verso l'adattamento degli organismi presenti. Alcune specie animali, d'altra parte, tendono spontaneamente all'estinzione: una decisione umana di tenerle forzosamente in vita, in sé perfettamente legittima, non è però di per sé più "naturale" della scelta di eliminare una specie di per sé vitale, come quella dell'agente patogeno del vaiolo.

Inoltre, questa idea stessa della Natura parte da esperienze di un mondo che conosce già da millenni, come abbiamo visto, l'intervento plasmatore dell'uomo. La natura di per sé non è né incontaminata, né benigna, né adatta, ma solo adattabile, alla vita umana. Chi la immagina come un incrocio tra uno zoo, un giardino, un frutteto e un campo da golf, non si rende conto di quanto sia influenzato da un quadro che è già opera dell'uomo. Abbiamo notato come il parco di Versailles non è di per sé più naturale del relativo castello. La creazione di spazi agricoli e la rotazione delle colture, praticata da tempi immemorabili, permettono un ciclo continuo di scambi tra il terreno e le coltivazioni che assicura una continuità di rendimenti elevati assolutamente "innaturale", come lo è l'irrigazione, o la bonifica dei terreni paludosi. Il fuoco di legna, con tutti i significati psicologici e simbolici che lo stesso possa rivestire, è un sistema di riscaldamento tragicamente inefficiente, altamente inquinante e dai costi forestali ed idrogeologici elevatissimi. Le economie tradizionali, o di penuria, creano i danni ambientali propri ad un'economia di spoglio in cui il fattore ambientale viene appunto considerato come un dato da sfruttare per quanto possibile, non come una variabile su cui agire o una risorsa da gestire –, e la loro generalizzazione e riadozione ai livelli attuali di popolazione mondiale condurrebbe verosimilmente a scenari catastrofici.

In ogni modo, gli ecologisti non riuscono per lo più a trovare un accordo preciso né sulla data del crollo finale che si presenterà in mancanza di un radicale mutamento della situazione attuale, né sulla possibilità, ed eventualmente sul modo, di evitarlo. Nell'ambiente ecologista si arruolano così ben presto neomarxisti e socialdemocratici; ecologisti "liberali" che sognano una repubblica di saggi governata dall'amore universale e dalle "tecniche dolci"; quelli "all'americana", tra droghe psichedeliche, comunità rurali, paccottiglia metafisica e orientalismo; i fautori del localismo esasperato come quelli del governo mondiale, sino che si arriverà più tardi ai teorici dell' "ecologia del profondo", che vedono nell'ecologismo un nuovo paradigma universale alla cui luce ripensare il significato generale della presenza dell'uomo nel mondo, da essi declinata nel senso ambiguo di un apprezzabile rifiuto del dualismo monoteista e scientista che però ricade subito nella condanna della dimensione storica e prometeica dell'uomo, lungo le linee consuete della visione del mondo dominante (65), che vengono assunte anzi nella forma più estremista dell'aperto auspicio di un ritorno umano alla "pura animalità".

Dall'insieme di tali punti di vista nascono in Europa come abbiamo detto i partiti "verdi" (il cui spazio elettorale in Italia è stato per un po' occupato dal Partito radicale, ma che poi ha visto anche da noi crearsi, scindersi e ricomporsi forze politiche "specializzate"), alcune piccole case editici, innumerevoli pubblicazioni come l'italiana La Nuova Ecologia o la francese La Gueule Ouverte, per non contare la costituzione di gruppi di pressione e club di pensiero, il consolidarsi della variante rappresentata dall'animalismo (che costituisce in certo modo un'estensione coerente della sensibilità umanista ad almeno un certo numero di altre specie) e la penetrazione nei quadri dei partiti della sinistra tradizionale, in cui la componente "ambientale" comincia a partire dalla metà degli anni settanta a rappresentare un centro di interessi e di convergenze trasversali tra le varie correnti interne, ed a costituirsi in area privilegiata della riflessione in materia più in generalmente biopolitica, su linee tendenzialmente reazionarie, di tale settore politico.

Nello stesso periodo, nell'ambiente dei Campi Hobbit e del mondo giovanile del MSI girava del resto tale Alessandro Di Pietro, esponente della corrente rautiana del partito, che proprio in tali anni aveva creato un'effimera rivista intitolata Dimensione ambiente, collegata ad un'organizzazione di massa, più o meno immaginaria, o meglio fondata sulle medesime risorse umane di un'altra miriade di sigle specializzate al tempo fiorite nell'ambiente, e che ancora oggi in qualche modo pare sopravvivere, chiamata Gruppi di Ricerca Ecologica. Dimensione ambiente faceva d'altronde riferimento ad un più ambizioso ed élitario Centro di Ricerca Biopolitica, e parallelamente al tentativo di accreditarsi con riguardo alle tematiche ambientaliste da poco divenute scottante argomento di attualità politica diffondeva poster contro l'ingegneria genetica con l'immagine di Boris Karloff nella parte della creatura di Frankenstein e lo slogan «Fermate il mostro». Molti neofascisti ed ex-neofascisti, specie quelli che resteranno alla destra dello schieramento politico italiano, continueranno con varie altre componenti di tale area a schierarsi in prima fila nell'opposizione alla "rivoluzione biologica", talora senza percepire apparentemente la tensione tra tali posizioni e l'eredità faustiana cui pure dovrebbero in teoria partecipare, altre volte facendone anzi un tema di esplicita polemica "interna" contro chi invece si rifà apertamente a tale eredità nell'ambito del loro mondo (66).

La divulgazione "ottimistica" di Walter F. Bodmer ed Alan Jones che in Futuro biologico (67) descrivevano all'inizio degli anni ottanta un mondo di terapie genetiche, trapianti, protesi miracolose, cure contro la sterilità, diagnosi prenatale, allungamento della vita media, etc., rappresenta perciò un'eccezione, e l'impegno militante liberal o conservatore risulta ugualmente accanito sia contro le prospettive di applicazione pratica delle nuove scoperte che contro la ricerca pura.

Abbiamo già ricordato il caso della psicometria, e della ricerca riguardo all'ereditarietà delle caratteristiche e capacità mentali degli individui e delle razze, per cui sono stati crocifissi Jensen e Eysenck (68); similmente, a suo tempo la rivista milanese l'Uomo libero aveva ampiamente registrato le questioni insorte intorno all'etologia di Lorenz e Ardrey e compagnia (69), come prima ancora avevano fatto in Francia Eléments [edizione Web] e Nouvelle Ecole; verso la fine degli anni settanta scoppia altresì lo scandalo della sociobiologia (70), considerata un potenziale alibi per una politica di oppressione sociale, che vide addirittura la fondazione di un Sociobiology Study Group, con alla testa Richard Lewontin [alias], Jonathan Beckwith e Stephen J. Gould (71), gruppo di studio... sulla sociobiologia ed i sociobiologi – dove "studio" significa in sostanza monitoraggio, denuncia e ostracismo.

In effetti, secondo il lavoretto propagandistico già citato di Fuschetto, «il passaggio epocale segnato dalla rivoluzione genetica» sarebbe identificabile con due presupposti: «1) è possibile governare lo svolgimento dell'evoluzione biologica (prospettiva faustiana); 2) è possibile ricondurre gran parte della natura umana a fattori genetici (dogma sociobiologico)... Occorre rilevare che l'importanza del passaggio di queste due considerazioni in vere e proprie convinzioni scientifiche è di grandissimo momento proprio ai fini dell'organizzazione sociale e della legittimazione politica» (72).

In realtà, il dibattito stesso "natura-cultura", su cosa spetti all'una e cosa all'altra (73), risulta, in una prospettiva postmoderna, tendenzialmente superato ed insignificante. I geni infatti non solo agiscono direttamente sul nostro corpo e sulla nostra mente modellando la nostra biologia, lo fanno anche indirettamente, influenzando l'ambiente che sperimentiamo, e ciò non solo a livello culturale e macrosociale, ma persino a livello individuale. Scrive Gregory Stock [alias]: «Un ragazzo che eccelle nello sport tenderà a gravitare verso attività atletiche, esattamente come uno che ama leggere di filosofia potrebbe scegliere obbiettivi più intellettuali. Entrambi i ragazzi finiscono per selezionare il proprio ambiente e le influenze che li trasformano. Ciò avviene anche in modi meno evidenti. Un bambino solitario e introverso quasi certamente genererà reazioni diverse in coloro che lo circondano rispetto a uno socievole ed adattabile. Così, viene in gioco un feedback che tende ad autorinforzarsi: le nostre predisposizioni biologiche modellano il nostro ambiente, che a sua volta sviluppa e rinforza le caratteristiche verso cui tendono tali predisposizioni. Alcune delle differenze che esistono nelle stime sull'ereditarietà del QI, per esempio, possono essere dovute alla diversa età dei soggetti nei vari studi. Sappiamo oggi che nella tarda adolescenza i gemelli identici allevati separatamente tendono ad essere ancora più vicini nel loro punteggio di quanto non lo fossero già nell'infanzia, e ciò può dipendere esattamente dalla crescita con gli anni del loro potere di allineare le loro attività ed ambiente alle loro predisposizioni. Risultati simili emergono con riguardo allo studio dell'ereditarietà di tratti come il comportamento asociale» (74).

In ogni modo, il messaggio della sociobiologia non è certo privo di ambiguità, a cominciare dal fatto di fondarsi su un acritico neo-darwinismo che non è possibile non giudicare scientificamente superato (75), per finire con problemi più radicali, quale il riduzionismo fondamentale della maggior parte dei suoi esponenti, che li apparenta non a caso ai teorici del neoliberismo o della cosiddetta "analisi economica del diritto" quali rispettivamente Milton Friedman o Richard A. Posner (76).

Ciò che qui interessa d'altronde non è solo quanto del pensiero sociobiologico possa contribuire ad una prospettiva alternativa e più penetrante sulla vita dell'uomo, ma la condanna "morale" che su di essa si è appuntata in quanto "antropologia", ovvero scienza "blasfema", come tale portatrice di un'ύβρις, ubris suscettibile di trasformarsi in una "manipolazione", se non altro mentale, dell'oggetto umano – ciò che esattamente dalla Bibbia alla Scuola di Francoforte [alias], da Abramo ad Horkeimer, Habermas e Marcuse, per arrivare a André Glucksmann o a Bernard-Henri Lévy [alias], rappresenta il peccato originale da cui l'uomo andrebbe costantemente difeso ed emancipato (77).

In effetti, Gehlen è d'accordo con la Scuola di Francoforte nel ritenere del tutto superato lo schema tradizionale secondo cui l'uomo, per mezzo della sua intelligenza, conosce il mondo e poi agisce di conseguenza. Scrive Maria Teresa Pansera: «Per Gehlen, viceversa, l'uomo conosce attraverso la sua azione, con un processo di reciproca interconnessione tra attività percettiva ed attività motoria. In altre parole, è possibile per Gehlen comprendere l'attività conoscitiva e l'intelligenza, specificamente umane, sulla base del concetto di azione: è radicamente sbagliato voler additare la differenza essenziale tra uomo e animale nell'"intelligenza"» (78).

D'accordo è anche Marcuse nel suo famoso pamphlet L'uomo a una dimensione: «Il metodo scientifico che ha portato al dominio sempre più efficace della natura [giunge] così a fornire i concetti puri non meno che gli strumenti per il dominio sempre più efficace dell'uomo da parte dell'uomo, attraverso il dominio della natura» (79). Come aveva già giustamente sottolineato Heidegger, la forma in cui si presenta la tecnica non è più quella di un semplice strumento, ma del "destino" e del "rischio" inerenti allo stesso essere dell'uomo (80).

D'altronde, la mentalità biblica, e i suoi prolungamenti nella "teoria critica" postmarxista o nei nouveaux philosophes, provano tanto orrore quanto i Karl Popper [alias] o le Hannah Arendt, pure allontanatisi dall'ortodossia religiosa ebraica in direzioni ben diverse da costoro, per l'esempio dei "fondatori di città", che come Licurgo o Romolo osano scrivere le tavole della legge e, nel tentare di creare un tipo d'uomo, farsi dèi. Lo stesso "fallimento del comunismo", e le "degenerazioni totalitarie" dei regimi del socialismo realizzato, vengono in effetti attribuite ad un'insufficiente sorveglianza contro le tentazioni di questo tipo, cui va costantemente opposta l'Arca vuota dell'individualismo irriducibile, che si ritiene ormai meglio custodita dal liberalismo occidentale che da pericoli tentativi di "scorciatoia per il paradiso".

Ma ancora più simbolica è la diffidenza per la "sperimentazione sull'uomo", non in senso macrostorico e sociale, ma semplicemente scientifico, e ciò non tanto per preoccupazione per gli individui coinvolti, ma per la sua natura blasfema e per i risultati di conoscenza empirica cui essa può eventualmente aspirare.

Anche se l'edonismo individualista ad esempio non può per principio opporsi a quanto necessario alla ricerca medica (81), tale materia è circondata comunque da una forte ostilità di massima, anche quando oggetto della sperimentazione sono volontari, persone ad uno stadio clinico disperato e senza alternative, condannati a morte, embrioni, semplici cellule sessuali, tessuti o geni, o persino... animali superiori; e regolarmente viene fatta balenare sullo sfondo l'immagine dello scienziato pazzo che svolge ricerche proibite e luciferine nel campo di concentramento nazista (82). Certo, il Mercato può prescrivere di avvelenare esseri uomini all'interno di fabbriche occidentali o farli morire di fame nelle favelas alla periferia delle grandi città, o giustiziarli nelle prigioni americane, o ancora bombardarli con uranio impoverito se sono rei di essere cittadini di uno "Stato canaglia", ma l'esperimento scientifico sull'uomo, che pure possa in ipotesi "salvare mille vite", merita sempre un sospetto particolare (83). Gli esseri umani è meglio osservarli soltanto, ed anche i risultati di tali osservazioni vanno costantemente passati al vaglio di una critica di ordine morale che impedisca di trarne conclusioni di carattere ideologico in senso forte.
A fronte di tali tentazioni, la ricetta sarebbe anzi la costante "demistificazione" di qualsiasi discorso sull'Uomo, doverosa in quanto appunto paralizzante rispetto ad ogni velleità di comprendere davvero e reinterpretare lo "specificamente umano" in vista della creazione di un "uomo nuovo" (84). Senonché, l'interesse postmoderno ad esempio per la sociobiologia è ben diverso da quello conservatore, "di destra", che secondo le note accuse vedrebbe in essa una legittimazione dell'ordine costituito e delle gerarchie in essere, e risiede proprio nella inversa demistificazione "realista" delle teorie che attribuiscono ai comportamenti umani ed alla struttura delle società ragioni puramente esterne ed occasionali (la Provvidenza, lo stadio storico della lotta di classe, il progresso tecnico o del mercato...) che andrebbero a innestarsi su una tabula rasa, che non solo è puramente immaginaria (85), ma si considera comunque intoccabile quanto i frutti dell'Albero del Bene e del Male.

La logica mercantilista, umanista e globalista si ritrae perciò smarrita rispetto alle prospettive che si aprono al "terzo uomo" – paventando essa stessa l'applicazione meccanica dell'impersonalità del Mercato, o al meglio di un microedonismo individualista, al nuovo mondo –, e finge che il rischio estremo cui il terzo uomo è confrontato non esista («andiamo avanti così, preoccupiamoci dell'andamento in Borsa della società e speriamo che in un modo o nell'altro tutto si aggiusti»); oppure si illude di poterlo evitare con regolamentazioni puramente repressive ed astensive («tagliamo i fondi alle ricerche, vietiamo le applicazioni, e il problema se ne andrà»). Ma in nessuno dei due casi sa realmente cosa rispondere alle domande che tale logica stessa si pone.

Scrive Rifkin: «Nel riprogrammare i codici genetici della vita non rischiamo una fatale interruzione di milioni di anni di graduale sviluppo evolutivo? E la creazione artificiale della vita, non potrebbe implicare la fine del mondo naturale (86)? Non sussiste il rischio di diventare alieni in un mondo popolato da creature clonate, chimeriche e transgeniche? La creazione, la produzione di massa e il rilascio su vasta scala nell'ambiente naturale di migliaia di forme di vita manipolate geneticamente non causeranno un danno irreversibile alla biosfera, facendo dell'inquinamento genetico una minaccia ancora più grave dell'inquinamento chimico e nucleare? [...] Cosa significherà essere uomini in un mondo dove i bambini vengono progettati geneticamente e alterati in utero, e dove le persone vengono identificate e potenzialmente discriminate in base al loro genotipo? Che rischi corriamo quando cerchiamo di progettare esseri umani "perfetti"?» (87).

Del tutto conseguenti sono le conclusioni che tira il paladino della "fine della storia" Francis Fukuyama: «La minaccia più significativa posta dalle biotecnologie contemporanee è la possibilità che esse finiscano per alterare l'umana natura, epperciò condurci in una fase storica "post-umana"... La natura umana modella e costringe i possibili generi di regime politico, così che una tecnologia abbastanza potente da rimodellare ciò che siamo avrebbe potenzialmente perniciose conseguenze per la democrazia liberale e la natura stessa della politica [...]. Dobbiamo usare il potere dello Stato per impedire l'accesso a tecnologie che possano minare la nostra attuale nozione di umanità, che potrebbero permettere a taluni di superare le limitazioni fisiche e mentali che oggi conosciamo» (88).

Conferma Stock [alias]: «La presente discussione contro l'"accrescimento dell'uomo" (human enhancement) non è ciò che sembra. Non ha nulla a che vedere con la sicurezza medica, il benessere dei bambini, la protezione del pool genetico umano. A un livello fondamentale, è una questione filosofica e religiosa. E' una questione su ciò che significa essere umani, sulla nostra visione del futuro dell'uomo» (89).

Eppure le sfide della nostra epoca non sono eludibili, non più di quanto siano riusciti i pigmei o gli aborigeni australiani ad "eludere" davvero, a lungo termine, l'avvento dell'agricoltura o della lavorazione dei metalli (90). Con la fondamentale differenza che essi almeno hanno potuto godere per secoli e millenni di una relativa segregazione, che oggi nessun angolo del globo è più in grado di garantire a nessuno. I prossimi destini del mondo e della specie umana ne coinvolgeranno in un modo o nell'altro tutti i suoi membri.

Nota ancora Rifkin: «Le nuove tecnologie di manipolazione genetica sollevano una delle questioni politiche più preoccupanti nella storia dell'uomo. A chi, in questa nuova era, vorremmo affidare l'autorità di decidere qual è il gene giusto che dovrebbe essere aggiunto al patrimonio genetico e qual è il gene cattivo che dovrebbe invece essere eliminato? Dovremmo investire il governo di questa autorità? Le grandi aziende? I ricercatori universitari? Se poniamo la questione in questi esatti termini, pochi di noi riuscirebbero ad indicare un'istituzione o un gruppo di persone cui affidare decisioni di una simile portata. Se comunque ci venisse chiesto di approvare i passi avanti della nuova biotecnologia che potrebbero aumentare il benessere fisico, emotivo e mentale della nostra progenie, molti di noi non esiterebbero neanche un secondo a dare la propria approvazione» (91).

La verità è che la visione del mondo individualista, edonista e borghese non solo non può evitare le conseguenze delle nuove possibilità aperte dalla biotecnologia, ma non può neppure moralmente ignorarle (92). Al tempo stesso, alle domande di Rifkin non c'è soluzione alcuna nell'ambito delle vecchie idee. Neppure un "postmarxista" come Rifkin, con l'accento sul "post", se la sente di affidare il futuro della specie alle multinazionali, ad una classe di chierici, ai capricci egoisti del consumatore, o a governi che oggi non rappresentano altro, nella migliore delle ipotesi, che il consiglio di amministrazione dei pochi servizi pubblici rimasti. E in realtà solo una volontà storica e politica in senso forte, solo la capacità di pensare progetti millenari ed epocali in un nuovo inizio, una nuova "arcaicità" (93) basata su un'etica del superamento-di-sé, può farsi carico della sfida, e rallegrarsene, in nome se non altro dell'amor fati.

Scrive Guillaume Faye: «L'attuale civiltà non può durare. [...] In un numero crescente di settori, la mentalità e l'ideologia del mondo moderno, individualista ed egualitario non sono più adeguate. Per affrontare il futuro, occorrerà ricorrere sempre più di frequente ad uno spirito arcaico, cioè postmoderno, inegualitario e non umanista, che possa rifondare valori primordiali. [...] I progressi della tecnoscienza, soprattutto nel campo della biologia [corsivo nostro] e dell'informatica, non si possono più gestire con i valori e le mentalità umanisti e moderni. [...] La disputa tra tradizionalisti e modernisti è divenuta sterile. Non bisogna essere né una cosa né l'altra, ma archeofuturisti. Le tradizioni sono fatte per essere purgate, scremate, selezionate. Molte di esse sono portatrici di virus che esplodono oggi in tutta la loro virulenza. Quanto alla modernità, essa non ha probabilmente alcun avvenire» (94).

Precisa l'autore francese: «È inevitabile nel XXI secolo l'accendersi di un conflitto tra le grandi religioni monoteiste (Islam, cristianesimo, ebraismo, religione laica dei Diritti dell'Uomo) e i progressi della tecnoscienza biologica ed informatica. Kempf, nel suo libro La revolution biolithique 95 spiega che la scienza sta per completare un "passaggio" paragonabile a quello della rivoluzione neolitica che fece transitare l'homo sapiens dalla caccia e raccolta all'allevamento, all'agricoltura e all'adattamento dell'ambiente alle sue esigenze. Noi viviamo oggi una seconda grande mutazione, al tempo stesso informatica e biologica. Questa rivoluzione consiste nella trasformazione artificiale degli esseri viventi, nell'umanizzazione delle macchine (i futuri elaboratori quantistici e soprattutto biotronici), e nelle interazioni uomo-androide che ne discendono».

E ancora: «L'antropocentrismo e la definizione unitaria ed indivisibile della "vita umana" come valore in sé, che costituiscono i dogmi centrali delle religioni monoteiste così come delle ideologie egualitarie della modernità entrano in brutale contraddizione con le possibilità offerte dalla tecnoscienza, e in particolare con l'alleanza "infernale" di informatica e biologia. Un conflitto su larga scala opporrà i laboratori ai dirigenti politici e religiosi che tenteranno di censurare e limitare l'applicazione delle scoperte, probabilmente senza riuscirci... Le gestazioni extrauterine in incubatrice, gli androidi biotronici intelligenti e "parasensibili", quasi-umani, le chimere (sintesi uomo-animale o animale-pianta i cui brevetti vengono depositati negli Stati Uniti), i "manipoloidi" o uomini transgenici, i nuovi organi artificiali che decuplicano le facoltà naturali, la creazione di superdotati (o di super-resistenti) tramite progetti di eugenetica positiva, le clonazioni, etc., tutto ciò rischia di fare a brandelli la vecchia concezione egualitaria e sacrale dell'"essere umano", molto più radicalmente di quanto possano aver fatto Darwin o le teorie evoluzioniste (96). La "fabbrica dell'uomo" è in via di realizzazione: creazione di organi artificiali, procreazione assistita, stimolazione delle funzioni organiche, etc.; e la confezione di macchine che mettano in atto processi biologici (elaboratori neurali, microchip basati sul DNA) è una prospettiva a breve termine. Sono tutte le definizioni stesse dell'uomo, del vivente e della macchina che è necessario riformulare. Uomini artificiali e macchine animali...».

Nello stesso senso rileva un autore "transumanista" come Gregory Stock [alias]: «Ad un primo sguardo, la nozione stessa che noi potremmo divenire più che "umani" sembra assurda. Dopotutto, siamo ancora biologicamente identici in virtualmente ogni aspetto ai nostri antenati che infestavano le caverne. Ma questa mancanza di cambiamenti è ingannevole. Mai prima abbiamo avuto il potere di manipolare la genetica umana per alterare la nostra biologia in direzioni sensate e controllabili... L'arrivo di una tecnologia sicura ed affidabile della linea germinale segnalerà l'inizio dell'auto-progettazione umana ad un nuovo livello. Non sappiamo dove questo sviluppo ci porterà alla fine, ma trasformerà il processo evolutivo incorporando la riproduzione in un processo sociale altamente selettivo che sarà molto più rapido ed efficace nel diffondere geni dominanti della tradizionale competizione sessuale e selezione del partner... Molto prima della fine di questo millennio avremo quasi certamente cambiato noi stessi abbastanza da essere divenuti molto più che semplici "umani"» 97.

E ancora: «Molti bioetici non condividono la mia prospettiva sulla direzione in cui ci stiamo avviando. Immaginano che la nostra tecnologia potrebbe diventare abbastanza potente da alterarci, ma che dovremmo sfuggirla e rifiutare la trasformazione dell'uomo. Ma la rimodellazione della genetica e della biologia umana non dipende da qualche cricca di ricercatori diabolici nascosti in un laboratorio in Argentina ed intenti a riprendere là dove Hitler ha lasciato. Le possibilità a venire saranno l'involontario sottoprodotto di ricerche ufficiali appoggiate praticamente da chiunque. Ricercatori e clinici che lavorano sulla fecondazione in vitro, ad esempio non si preoccupano molto dell'evoluzione futura dell'umanità, ma stanno nondimeno accumulando i fondamenti necessari a concepire, maneggiare, testare ed impiantare embrioni umani, il che costituirà un giorno la base per la manipolazione della specie umana» (98).

Conclude Faye: «Nel XXI secolo, l'uomo non sarà più ciò che era. Ne seguirà un deragliamento delle categorie etiche dominanti dagli effetti devastanti. Uno choc mentale, dalle conseguenze imprevedibili, rischia di prodursi tra due mondi: quello della nuova concezione biotronica e biolitica, e quello della concezione delle vecchie religioni monoteiste e della moderna filosofia egualitaria dei Diritti dell'Uomo (99). Solo una mentalità neo-arcaica potrà sopportare questo choc, dato che un tempo non era l'uomo (o un Dio unico a sua immagine e somiglianza) che era posto al centro del mondo, ma divinità multiple, che potevano perfettamente incarnarsi in qualsiasi forma di vita e che rappresentavano ciò cui l'uomo aspirava. in un progetto di superamento-di-sé. [...] Ciò rappresenta la fine dell'umanismo? Certamente».

Questo per gli europei significa scegliere di rivendicare, di ricollegarsi ad un'eredità che è loro specifica. Scrive Giorgio Locchi: «Il mito [indoeuropeo della fondazione] contiene un insegnamento implicito, fondato su un giudizio di valore specificamente indoeuropeo, che vuole che l'autenticità dell'uomo risieda nella sua capacità di "prendersi in mano", di "parlare" e di "agire" invece di "essere parlato" ed "essere agito". A partire dall'istante in cui l'uomo diventa cosciente di questa attitudine, cioè a partire dall'istante in cui riflette sul suo potere di autodomesticazione, una coscienza superiore sorge, e tende immediatamente a realizzarsi come tale nel fatto sociale. All'uomo-soggetto generico (e spontaneo) dell'azione magica esercitata su se stesso (100) s'aggiunge ormai l'uomo-soggetto specifico (e cosciente) dell'azione esercitata sull'altro uomo» (101).

Tale processo oggi può essere rinnovato nel passaggio all'uomo autocosciente, che sia in grado di superare in una sintesi superiore la crisi del "secondo uomo", ed in particolare la morale del Grande Rifiuto, dell'ewige Nein, che dopo duemila anni celebra oggi la sua egemonia a livello planetario.

La minaccia disgenica

Del resto, l'avvento possibile del "terzo uomo" coincide sostanzialmente con il momento in cui vengono al pettine i problemi che ci lascia in eredità il secondo. Abbiamo visto come dalla rivoluzione neolitica in poi, il contesto biologico dell'uomo è dato dall'interazione tra la natura e la cultura che egli abita, interazione che determina le caratteristiche che consentono la sopravvivenza di un gruppo umano, ne definiscono l'estensione, esercitano pressioni selettive sui suoi membri e ne determinano l'eventuale successo o meno. Oggi, la natura stessa è divenuta integralmente cultura.

Scrive Jacquard: «L'uomo vive in un mondo che lui stesso ha plasmato. Senza rendersene conto, ha trasformato, tra le altre, le condizioni nelle quali i geni vengono trasmessi da una generazione all'altra. Nel perseguire certi fini, siano la guarigione dei bambini malati, la produzione di energia o la stabilità sociale, può rompere equilibri naturali e far scattare un processo che, a lungo termine, può portare ad una catastrofe».

Un'enunciazione di questo tipo è rara. Intellettuali e media cercano semplicemente di "non pensarci". Nessuno è disposto a lasciare che la propria sopravvivenza o quella della propria discendenza siano determinati dalla capacità di sfuggire con la corsa ad animali da preda, ma nessuno guarda con piacere alla prospettiva di un mondo in cui gli arti inferiori si ritrovino atrofizzati nello stesso modo in cui hanno cessato di essere funzionali gli organi della vista delle specie animali che si sono adattate a vivere nelle grotte. Contemporaneamente, esistono come abbiamo già visto ragioni "morali" per disapprovare il fatto che la conservazione dell'uso delle gambe nel genere umano possa essere, anziché un fatto "naturale", il frutto di una scelta culturale, fondata su ragioni fondamentalmente ideologiche ed estetiche, e tradotta in realtà attraverso l'intervento deliberato sulle condizioni di vita cui il gruppo è sottoposto e/o direttamente sul suo pool genetico, mediante pressioni selettive del tutto artificiali o addirittura mediante la manipolazione diretta delle sue linee germinali.

Il riferimento ad un'atrofia generalizzata degli arti inferiori sembra un'ipotesi estrema, ma l'esempio delle malattie con una componente genetica assolutamente determinante e chiaramente documentata risulta chiaro a chiunque (102).

La fenilchetonuria, dovuta ad un gene recessivo, colpisce oggi un nuovo nato su undicimila. Negli individui omozigoti, ovvero che hanno ricevuto il relativo gene sia dal lato materno che paterno, la fenilalanina anziché essere eliminata si accumula nel sangue e nel liquido cefalo-rachidano, provocando un'idiozia progressiva e la morte. Da circa trent'anni, ovvero da una generazione, gli effetti di questo gene negli individui omozigoti, e perciò malati, sono stati eliminati dalla medicina moderna, ove ne sia stata diagnosticata la presenza, attraverso il semplicissimo rimedio di un regime alimentare che riduca al minimo l'apporto di fenilalanina. In tal modo, le persone affette sfuggono alla loro sorte "naturale", che sarebbe quella di subire una degenerescenza cerebrale progressiva, e di morire prima di procreare.

Alla frequenza 1/11000 degli individui malati corrisponde la frequenta 1/105 dei "portatori sani", eterozigoti. Ora, dal momento della "guarigione" dei bambini affetti, l'equilibrio precedente viene rotto, ed il numero di persone affette è destinato inesorabilmente ad aumentare.

È bensì vero che, come nota Jacquard, anche in caso di sopravvivenza generalizzata delle persone affette il raddoppio della frequenza del gene, che comporta un quadruplicarsi degli individui omozigoti ad ogni generazione, richiede in effetti cinquanta generazioni, ovvero circa millecinquecento anni (cosa che non si vede in verità cosa possa avere di così rassicurante, se non per chi faccia propria la logica del "dopo di noi il diluvio").

Il processo è però ben più rapido per le malattie il cui determinismo genetico è legato al sesso, come l'emofilia. Come noto, il gene dell'emofilia è posto sul cromosoma X, ovvero quello invariabilmente contribuito dalla madre. In Europa la sua frequenza è di 1/10000. Perché sia emofiliaca, una donna, che per definizione di cromosomi X ne possiede due, deve essere omozigote, avvenimento molto raro che statistiscamente si verifica una volta ogni cento milioni; ma basta che un uomo ne possieda uno sul suo unico cromosoma X perché si manifesti l'affezione. La frequenza dei maschi malati è perciò pari alla frequenza del gene, uno su diecimila. Un semplice calcolo mostra come la guarigione di tutti i malati porterebbe ad un incremento nella frequenza del gene pari ad un ulteriore 1/30000 ad ogni generazione, così da raddoppiare la frequenza della malattia in un secolo!

Nondimeno, per giungere alla frequenza di un maschio su mille, dovrebbero ancora passare in effetti circa mille anni. È ragionevole perciò, dice Jacquard, temere il pericolo di un declino genetico della specie quando nei tempi in questione «l'Umanità dovrà affrontare problemi ben più gravi, che metteranno a repentaglio la sua stessa esistenza»?

D'altra parte, solo le malattie genetiche sino ad oggi censite con certezza sono circa quattromila. Di queste, è ragionevole supporre che una parte progressivamente crescente finisca per consentire al portatore una vita sufficientemente normale da permetterne la propagazione alle generazioni successive (103).

Tale casistica è d'altronde ancora ristretta a caratteristiche obbiettivamente e gravemente patologiche, che sono oggetto di un determinismo genetico assoluto (104).

Altre e più ampie questioni sono poste dall'ereditarietà di tratti che predispongono a certe patologie; oppure che comportano tratti solo latu senso disgenici, o che la maggior parte delle persone considerebbe fortemente indesiderabili.

Un ulteriore fattore di rischio disgenico riguarda ad esempio le caratteristiche con una forte dominanza genetica di tipo quantitativo. A che punto esattamente la diminuzione della funzionalità del sistema immunitario, dell'acutezza sensoriale, dell'efficienza del sistema nervoso, delle prestazioni scheletrico-muscolari può essere considerata una "malattia", o comunque inaccettabile? Il concetto stesso di malattia, come quello di "normalità", è un concetto culturale, e lo diventa ancora di più quando scompare o si attenua la valenza negativa in termini selettivi della relativa caratteristica. Ciò che sappiamo però con certezza è che quando una data caratteristica geneticamente influenzata smette di essere selezionata, la stessa tende asintoticamente a diffondersi all'interno della popolazione di riferimento. Come scriveva già Vacher de Lapouge (1854-1936), «l'evoluzione dell'uomo non è terminata: finirà dio o scimmia? È la selezione che deciderà» (105).

L'esempio più significativo è quello del ritardo mentale. Non a caso i casi di ritardo grave generano un orrore istintivo nella maggioranza delle persone che non si siano deliberatamente autocondizionate in senso opposto per ragioni ideologiche: infatti, mentre molte malformazioni e disfunzioni di origine genetica sono sintomaticamente confondibili, almeno a prima vista, con postumi di lesioni o affezioni geneticamente insignificanti (106), il ritardo mentale, a parte pochi casi di carenze nutritive gravissime o altre patologie nella fase dello sviluppo, è pressoché invariabilmente di origine genetica (107). Il mongolismo, o sindrome di Down, mentre non è necessariamente ereditato (la maggior parte dei mongoloidi nasce da genitori perfettamente normali), è certamente ereditario, cioè puntualmente trasmesso alla discendenza dei soggetti colpiti, ove questi siano lasciati liberi di riprodursi – o magari incoraggiati a farlo. Ciò resta d'altronde ugualmente vero, come dimostrano i convergenti risultati della genetica e della psicometria, per le possibili determinanti genetiche di tutti i gradi di ritardo (o del resto acutezza) mentale.

Rimuovere i fattori limitanti al potenziale riproduttivo dei soggetti che sulla base di tutti i criteri concepibilmente adottabili, e secondo la quasi totalità delle persone, possono essere considerati ai gradini più bassi della distribuzione dell'acutezza mentale, ma non necessariamente di altre caratteristiche compatibili con la sopravvivenza, comporta poi conseguenze particolarmente esplosive.

Infatti, se ogni gene vuole perpetuarsi e diffondersi, le strategie con cui il risultato viene raggiunto sono come noto diverse. Per le specie sessuate che conoscono vari gradi di cura parentale, una possibile strategia può essere quella di un investimento unitariamente molto elevato su un numero relativamente piccolo di discendenti, mentre un'altra può essere quella di massimizzare numericamente la propria prole a costo di ridurre l'investimento su ciascuno dei suoi componenti. Ora, ammettendo che un gene che codifica un tratto sfavorevole alla capacità di pianificazione, di affermazione sociale ed di allevamento della prole nel suo portatore sia in grado di influenzare tali strategie, o di "allearsi" con geni che lo facciano, sembra verosimile che lo stesso sia costituzionalmente portato a puntare le sue carte sulla "legge dei grandi numeri"; o, in altri termini, a compensare la qualità (che è in ipotesi pregiudicata dalla sua presenza) con la quantità.

Secondo il detto popolare, «la madre degli idioti è sempre incinta». Di solito, chi cita il proverbio vuole esprimere la propria frustrazione per avere troppo spesso a che fare con persone che giudica in tal modo, piuttosto che effettivamente riferirsi alle abitudini riproduttive della categoria degli idioti. Una letterale verità esiste però in tale detto, nel senso che la generazione, magari indiscriminata, di un gran numero di figli vivi può effettivamente compensare statisticamente le diminuite probabilità di successo e sopravvivenza a lungo termine, o addirittura di sopravvivenza per più generazioni e in una stirpe, di ciascuno di essi singolarmente preso. Ciò in campo umano corrisponde indiscutibilmente a ben note constatazioni inerenti al comportamento delle classi socialmente sfavorite (ad esempio appunto i proletari dell'epoca di Marx), qualunque siano le ragioni e la giustificabilità della loro situazione deteriore; ma coinvolge altresì in via più generale la presenza di circostanze che influenzano per il genitore interessato la convenienza o sconvenienza riproduttiva di un elevato investimento parentale unitario.

Ora, nel momento che i fattori limitanti riguardo al risultato riproduttivo netto di una strategia "quantitativa" vengono meno, sembra inevitabile che il mero numero dei parti portati a termine con successo diventi il fattore decisivo quanto alla propagazione o mantenimento delle caratteristiche del genitore, con un vantaggio decisivo per le caratteristiche indesiderabili di cui sopra.

Naturalmente, esiste la questione del perché in primo luogo i geni che codificano caratteristiche sfavorevoli... esistano.

Una parziale spiegazione, che costituisce però anche un fattore di notevole complicazione, riguarda la possibilità che determinati tratti siano bensì geneticamente determinati, ma derivino dall'interazione tra numerosi geni diversi, la cui compresenza in un dato individuo è frutto in sostanza del caso. Almeno venticinque geni sono ad esempio coinvolti nel fatto che un topo si ritrovi ad avere denti particolarmente piccoli, e lo sviluppo o meno dell'asma in età adulta pare legato in alcune specie di scimmie ad almeno centoquarantanove geni diversi (108). Quando l'interazione non si verifica, l'espressione di tali geni nell'organismo può mancare o essere del tutto diversa (109)

Ancora, una tara genetica può dipendere dalla mancanza di un gene. La sindrome di Wolf-Hirschorn, che provoca numerosi difetti congeniti, è provocata ad esempio da un cromosoma cui manca un intero pezzo (110).

Più in generale, per molte caratteristiche la risposta è appunto che esse sono bensì ereditarie, ma non ereditate, ovvero si ripropongono semplicemente attraverso il ripetersi di mutazioni spontanee o altri incidenti nella replicazione del codice genetico, come nel caso già citato della sindrome di Down.

Per altri casi una ragione spesso citata al riguardo consiste nei vantaggi che talora ne ricavano gli eterozigoti, ad esempio nel caso della resistenza alla malaria da parte degli individui che hanno ricevuto da un solo genitore il gene dell'anemia falciforme, non a caso particolarmente frequente nelle zone endemicamente affette dalle febbri malariche.

Altre considerazioni ancora vengono proposte con riguardo a caratteristiche ereditarie più complesse, a livello di genetica delle popolazioni. In questo caso l'esempio di prammatica è quello della forte incidenza contemporanea del diabete (sino al cinquanta per cento degli individui adulti) in alcune popolazioni di indios della zona centramericana, che corrisponde d'altronde a condizioni originarie di penuria e carestia perenne che ha per millenni selezionato tali popolazioni per la sopravvivenza in condizioni di ridottissimo apporto calorico; così che la "tara" in questione non corrisponderebbe che ad un cattivo adattamento a condizioni di relativa opulenza – quanto meno alimentare – introdotte dalla "civiltà moderna" nel modo di vita di tali popolazioni (111), "opulenza" la cui conservazione, come è ovvio, non è affatto garantita alla nostra specie per tutti i secoli dei secoli (112). Scrive Jacquard: «Impedendo la scomparsa dei geni legati al diabete, il progresso medico non compie quindi un'azione disgenica; al contrario, salva un capitale che è senza dubbio inutile o male adattato al giorno d'oggi, ma che potrebbe rivelarsi prezioso quando avessimo in media un nutrimento meno abbondante» .

Ora, tali argomentazioni presuppongono d'altronde, nella prospettiva egualitario-universalista di chi le avanza, che chi denuncia il rischio disgenico mirerebbe in realtà a ridurre la ricchezza del pool genetico della specie, eliminando o riducendo le linee germinali "devianti", in vista di un modello umano unico, "sano" e civilizzato. Ciò non ha nulla di necessario; è vero anzi il contrario. Sfugge infatti al genetista francese che il rischio disgenico consiste non solo nel mantenimento di caratteri genetici altrimenti destinati ad essere eliminati, ma altresì nella eliminazione o rarefazione di caratteristiche di per sé desiderabili, ad opera della competizione (se non altro numerica) dei primi; nonché nella uniformizzazione globale dei fattori selettivi, che unitamente alla progressiva attenuazione dei fattori di segregazione tra le popolazioni, riduce e non aumenta la variabilità tra le stesse; e con tale variabilità riduce la ricchezza, la capacità di adattamento, e in ultima analisi la capacità di sopravvivenza, della specie intera.

In questo caso, è stato ben notato (113) come tecniche ormai banali o in via di diventarlo, come l'inseminazione artificiale, la fecondazione in vitro, la clonazione, la conservazione delle cellule riproduttive (ovuli, spermatozoi) o di embrioni per un tempo indefinito, assumono un significato decisivo in termini eugenetici proprio quanto alla capacità dell'uomo di conservare materiale genetico prezioso, varianti e/o combinazioni che possono andare perdute o che non sono "naturalmente" destinate a riprodursi, o che sono minacciate da differenziali demografici, e che costituiscono una ricchezza specifica da tutelare, in vista esattamente della varianza intraspecifica, individuale e popolazionale, che solo l'eugenetica da fumetto americano di Jacquard vorrebbe ridurre o eliminare.

Neppure la clonazione – che chissà perché colpisce in modo particolare l'immaginario egualitario in vista del rischio paventato che gli uomini possano davvero diventare... tutti uguali (114) – comporta di per sé alcuna riduzione della ricchezza genetica o della varietà della specie. In effetti, oltre al fatto che la clonazione consente studi sull'ereditarietà di caratteristiche specificamente umane come l'"intelligenza" senza la limitazione estrema imposta dalla necessità di lavorare su gemelli monozigoti naturali (studi la cui potenziale valenza in campo antropologico, sanitario, educativo, etc., non può essere messa in discussione che da chi ne tema i risultati), risulta ovvio l'interesse a verificare come corredi genetici identici, e magari appartenenti a individui fenotipicamente eccezionali sotto qualche aspetto, possano esprimersi in contesti diversi, illimitatamente rinnovabili (115).

In verità, l'obiezione che il prezzo di tali vantaggi sarebbe una maggiore "uniformizzazione" del genere umano – invero paradossale da parte di una cultura che dell'uguaglianza vorrebbe fare addirittura un valore – vale soltanto rispetto alla scelta di clonare in amplissima serie uno solo o pochi individui, e impedire al tempo stesso la riproduzione a tutti gli altri.

Scrive Gregory Stock [alias]: «Il fatto stesso che la clonazione umana è diventata il punto di raccolta dell'opposizione rispetto all'emergere delle nuove tecniche in materia di riproduzione enfatizza le difficoltà con cui tale opposizione è confrontata. La clonazione umana è principalmente un simbolo. Attrae solo una minuscola frangia. Neppure esiste ancora. Non potrebbe esistere un bersaglio più facile per il proibizionismo. E che restrizioni siano imposte o no alla ricerca fa poca differenza, perché, come anche Fukuyama e Kass non possono ignorare, se le procedure per la clonazione umana non arriveranno dalla porta principale, entreranno dalla finestra, probabilmente come sottoprodotto delle ricerche pubblicamente finanziate sulle cellule staminali dell'embrione... Tentativi di prevenire la clonazione umana negli Stati Uniti sposteranno semplicemente la ricerca altrove. Alla fine del 2002 il Regno Unito ha annunciato che aggiungerà altri quaranta milioni di sterline ai venti già investiti nella ricerca sulle cellule staminali. Il Giappone ha costruito un grande centro a Kobe con un bilancio annuale di novanta milioni di dollari. E Cina e Singapore si muovono in questa direzione ancora più aggressivamente» (116).

In realtà, l'individuo clonato comporta una perdita genica per la specie soltanto nel caso in cui la sua nascita corrisponda ad un'estinzione del corredo genetico del potenziale partner riproduttivo del genitore; cioè, solo nel caso che tale partner sessuale sia destinato da parte sua a non procreare affatto in connessione alla scelta del genitore di dare vita a un clone. In mancanza di ciò, la riproduzione per clonazione non comporta un impoverimento più di quanto lo comporti la naturale nascita di gemelli monovulari negli animali superiori e nell'uomo, o la riproduzione partenogenetica tra gli animali e le piante che sono in grado di praticarla in alternativa alla riproduzione sessuata (117). In campo animale, del resto, la clonazione è già usata tanto per perpetuare la stirpe di animali con caratteristiche eccezionali quanto per contribuire a preservare specie sull'orlo dell'estinzione (118). Similmente, la clonazione umana ben può essere deliberatamente utilizzata per preservare e diffondere differenziazioni desiderabili all'interno di una popolazione data, che magari sarebbero altrimenti destinate a scomparire e ad essere riassorbite, garantendone invece l'integrale trasmissione alla discendenza immediata degli individui coinvolti, e la sottrazione alla roulette genetica della riproduzione sessuale (119).

L'idea invece che non bisogna (pre)occuparsi di queste cose, perché è "meglio lasciar fare alla natura", da un lato non tiene conto del fatto che lo spazio rimasto alla "natura" è comunque e inevitabilmente sempre inferiore; dall'altro, riesuma una curiosa fiducia nella Provvidenza cui non corrisponde altro che il rifiuto morale della possibilità stessa che sia l'uomo a potere e dover scegliere del proprio destino, come specie e più concretamente come gruppo determinato all'interno della specie.

Scelta che del resto non rappresenta null'altro che il compimento di un processo iniziato con l'ominazione. L'importanza ai fini del successo riproduttivo della capacità di partorire senza assistenza, ad esempio, è andata progressivamente scemando per tutta la storia dell'umanità, ed è perfettamente possibile immaginare che la stessa capacità di concepire naturalmente, portare a termine una gravidanza e partorirne il frutto vada del tutto perduta nelle generazioni future, così come da secoli o millenni il mais non ha più la capacità di riprodursi senza intervento umano (120). Ciò può essere irrilevante quando la procreazione è assicurata da altri mezzi. È d'altra parte legittimo preoccuparsi del fatto che la sopravvivenza stessa della specie sia garantita unicamente dalla costante disponibilità di tali mezzi; o è anche possibile pensare che la capacità, "arcaica" ed eventualmente "inutile", di riprodursi autonomamente meriti di essere preservata almeno in una parte della popolazione per altre ragioni, magari di ordine culturale o simbolico. Sia quel che sia, il processo descritto pone un problema, di cui oggi conosciamo perfettamente i termini, e che può essere ignorato solo a seguito di una rimozione deliberata di ordine squisitamente ideologico.

Se la Provvidenza non ci dà più una mano, sappiamo d'altronde a quale altro alibi affidarci, per evitare che l'uomo possa giocare alla divinità: l'Economia. Rileva così lo stesso Jacquard che poche pagine prima "virtuosamente" si preoccupava del rischio che siano affrettatamente eliminate dal pool genetico della specie le possibili "valenze positive" della predisposizione genetica al diabete: «Notiamo soprattutto come il progresso medico ipotizzato [quello che consentirebbe di curare una delle malattie genetiche più diffuse in Europa] annullerebbe il carattere di 'tara' della mucoviscidosi; non si tratterebbe più che di una affezione che richiederebbe alcune cure e che, per ipotesi, sarebbe guaribile. Il passaggio da 20.000 a 80.000 del numero di persone affette non costituirebbe un fardello genetico, ma un fardello economico [corsivo nostro]. Non avrebbe un peso ridicolo in confronto ad altri fardelli economici dovuti alle imperfezioni della nostra società?».

Continua lo studioso francese: «Questo processo non è diverso da quello che si è svolto dall'alba dell'umanità, da quando, divenuti Homo Sapiens, abbiamo reagito contro le aggressioni dell'ambiente esterno escogitando comportamenti adeguati e non aspettando passivamente che si verificasse una modificazione genetica. L'invenzione del fuoco, l'uso delle pelli degli animali, hanno certamente ostacolato l'eliminazione dei bambini che le dotazioni genetiche rendevano meno capaci di lottare contro il freddo. Il patrimonio genetico dell'Umanità, alla lunga, è risultato trasformato. La nostra fragilità è senza dubbio maggiore, ma sarebbe eccessivo considerare questa fragilità come un deterioramento genetico. Vivere artificialmente rientra nella natura stessa della nostra specie; da quando ne abbiamo avuto il potere, non abbiamo accettato di subire passivamente la selezione imposta dall'ambiente; alle aggressioni e alle costrizioni imposte dall'ambiente esterno abbiamo dato una risposta culturale e non, come le altre specie, una risposta genetica; il progresso medico non è che la continuazione di tale risposta culturale; l'invenzione di un antibiotico non è più "disgenica" della invenzione del fuoco».

Tutto ciò è perfettamente vero, ma la conclusione dell'autore che in sostanza il declino genetico sia "semplicemente da accettare" certo non è l'unica possibile.


Ambiente naturale, ambiente culturale e selezione

La consapevolezza del "rischio disgenico" e la sostituzione di un intervento artificiale alla selezione naturale fanno infatti da sempre parte del processo di autodomesticazione che l'uomo compie su se stesso, o almeno della risposta culturale che a tale sfida danno le culture storiche, e in particolare la cultura indoeuropea. Molto prima che qualcuno pensasse alle conseguenze per i gruppi umani delle leggi di Mendel [alias], il monte Taigeto e l'αγωγή, agogé, a Sparta, la rupe Tarpea a Roma, le analoghe pratiche di esposizione dei neonati tra i Celti o i Germani, la stretta regolamentazione dei matrimoni nell'India antica, rappresentano una forma certo rozza, ma assolutamente ancestrale, di tale consapevolezza, che del resto echeggia nella Repubblica di Platone (121) e nella Politica di Aristotele [alias] così come in varie fonti del diritto romano (122). Ma la strutturazione stessa della società, e a livello delle aristocrazie il mantenimento, del tutto "artificiale" e deliberato, di stili di vita e valori selettivi propri alla società pre-neolitica, rappresentano essi stessi un elemento di selezione direzionale, se non altro sessuale, che non può certo essere sottovalutata.

Tale intervento umano rappresenta del resto null'altro che la versione "culturale" di moduli etologici ben descritti con riguardo a varie specie animali, che le culture in questione tendono ad imitare. Ricorda Adriana Del Prete, in un mensile di divulgazione scientifica a larga diffusione: «Nel codice genetico di alcune specie di api è scritta un'istruzione che impone loro di eliminare le larve malate. Le larve da miele sono interessate da molte malattie, tra le quali un'infezione che le distrugge: è la peste americana. Alcuni alveari ne sono molto colpiti, altri meno, e altri ancora ne sono del tutto esenti. È merito di questi ceppi, che lavorano così: le api operaie addette alla "cova" devono localizzare la cella di ogni larva ammalata, rimuovere il coperchio di cera, estrarre la larva, trascinarla fino all'entrata dell'alveare e gettarla nel cumulo dei rifiuti all'esterno! I genetisti hanno verificato l'esistenza di due diversi geni: il primo della individuazione-scoperchiamento, il secondo della asportazione-eliminazione della larva infetta. I due geni cooperano e ognuno da solo è assolutamente inutile. Il risultato di questa collaborazione è una concreta prevenzione della malattia: stomping-out, identificazione ed eliminazione; si deve operare per la salute della comunità. È il monito della selezione naturale» 123. Già Nietzsche [alias, alias] scriveva: «E' necessario per la specie che il debole, il malriuscito, il degenerato periscano» (124). E ancora: «Non è la natura che è immorale quando è senza pietà per i degenerati: è la crescita del male fisico e morale della specie umana ad essere al contrario la conseguenza di una morale malsana ed antinaturale. [...] Non vi è solidarietà in una società dove vi sono elementi sterili, improduttivi e distruttori, che avranno d'altronde discendenti ancora più degenerati di loro» (125).

D'altronde, se è vero che, come nota un po' schematicamente Vilfredo Pareto, in una società di ladri il miglior ladro è re, i tratti culturali stessi di una comunità ne determinano a lungo termine i tratti genetici, indirettamente influenzando il successo riproduttivo dei relativi portatori. E di questi tratti non fa parte solo la (in)dipendenza più o meno accentuata, e "tecnica", da fattori selettivi naturali quali malattie o carestie o predatori, ma altresì l'immagine che tale comunità ha di sé e dei suoi ideali, ovvero di ciò che più o meno consapevolmente intende fare di se stessa e dei suoi membri. Ciò infatti determina come è ovvio le chances dei suoi singoli componenti quanto al fatto di lasciare dietro di sé una prole feconda, nonché alla qualità e quantità di tale prole.

Ciò significa due cose: che qualsiasi cultura è in certo modo una "natura"; e che perciò nel presente della nostra cultura possiamo leggere il futuro della sua base biologica. Un futuro forse lontano; certo tuttora vago allo stato delle nostre conoscenze dei meccanismi coinvolti; su cui ovviamente tentativi di intervento diretto presentano dei rischi e possono, come già discusso, sortire effetti del tutto opposti a quelli auspicati. Ma anche un futuro che – ove non ci piaccia quello che è possibile intravederne, rischi di estinzione compresi – dovrebbe indurci a riflettere, sia sulla struttura stessa della comunità interessata, sia sulle responsabilità al riguardo, che sono interamente nostre. Dire che "Dio è morto" significa esattamente che non possono più essergli delegate tali responsabilità; né possono esserlo al Mercato; né alla Natura.

Ciò in relazione anche ai poteri del tutto nuovi di cui andiamo a disporre. «Per figurarci che tratti vorremo per i nostri figli quando avremo il potere di fare tali scelte, dobbiamo pensare a lungo e fortemente a cosa siamo», scrive Stock [alias] (126). Aggiungiamo: a ciò che davvero vogliamo diventare. Meglio ancora, nietzschanamente: a come rispondere all'imperativo di "diventare ciò che siamo".

D'altronde, è vero che se il gene mira semplicemente alla propria propagazione ciò che invece è politicamente e culturalmente rilevante è ovviamente il fenotipo – le caratteristiche oggettive delle popolazioni reali e concrete. Un improbabile ricorso o fiducia "di destra" in una supposta selezione naturale dovrebbe fare i conti con il fatto che gli effetti della medicina moderna o degli antibiotici non sono di per sé distinguibili da quelli delle vaccinazioni, della profilassi, delle bonifiche, di un'alimentazione corretta, dell'igiene, dell'educazione fisica e dello sport di massa, tutte pratiche "salutari" che di fatto eliminano od attenuano oggettive pressioni selettive preesistenti – e pure pratiche promosse anche e proprio dai regimi politici che nel secolo scorso hanno fatto proprie più pienamente preoccupazioni di tipo eugenetico (127).

Le stesse tecniche eugenetiche, in particolare quelle che tendono a limitare il rischio di nascita di individui colpiti da tare – nella prima metà del secolo scorso attraverso il ricorso all'anamnesi familiare dei membri della coppia e a deduzioni mendeliane, oggi soprattutto attraverso lo screening genetico dei genitori e la diagnosi prenatale – possono contribuire a modificare il successo statistico di alcuni geni. Come nota Harry Harris, «una donna con il gene dell'emofilia, cioè una "portatrice" sana, che rinuncerebbe ad avere figli per il timore di avere maschi emofiliaci, soggetti a morire di emorragia al minimo incidente, potrebbe scegliere di averne se sa di poter prevedere ed abortire gli eventuali maschi emofilici e di poter partorire una femmina o un maschio non emofiliaco, di cui risultasse invece gravida» (128). Il risultato di una politica che oggettivamente elimina la comparsa di una tara genetica rilevante può essere così l'incremento (desiderabile, indesiderabile o indifferente, ma di cui va tenuto conto) del numero di individui eterozigoti e sani, ma portatori del gene stesso (129). L'alternativa "naturale" è d'altronde... la presenza di individui affetti da emofilia conclamata tra la popolazione – nonché, per estensione, di estese componenti della popolazione stessa affette da rachitismo, malaria, scorbuto, postumi del vaiolo, etc.

Il ricorso ad una "selezione naturale", che nel caso della nostra specie appare del tutto mitica, rischia così di essere semplicemente funzionale alla creazione di popolazioni analoghe a quelle che la natura provvede in effetti a "selezionare" per i ratti, le erbacce o gli sciacalli.

Un'adeguata risposta alla minaccia disgenica difficilmente potrebbe essere fatta consistere in una scelta implicita a favore di una popolazione di taglia medio-piccola, afflitta e sfigurata da carenze alimentari, malattie debilitanti e parassiti, mediocre nelle sue prestazioni psicofisiche ma capace di nutrirsi di immondizia, resistere in mezzo ad un letamaio ed infestare qualsiasi ambiente, aggressiva ma vigliacca, indiscriminatamente promiscua e stolidamente pigra, dalla socialità indebolita al limite del cannibalismo, con una vita media brevissima – scenario questo in cui pure un'ipotetica selezione "naturale" umana, magari post-atomica (130), si esprimerebbe al meglio. Per esempio, pestilenze endemiche o innalzati livelli di inquinamento chimico, radioattivo o biologico – sempre naturalmente che fossero almeno marginalmente compatibili con la sopravvivenza della specie – accentuerebbero certo la resistenza media dei sopravvissuti a tali fattori, ma difficilmente potrebbero essere considerati come un fattore di miglioramento della salute della popolazione coinvolta.

Konrad Lorenz rileva come negli animali la "domesticazione" comporterebbe la perdita di caratteristiche comunemente considerate "nobili", e in linea di massima la riduzione dell'acutezza sensoriale, la tendenza all'obesità, l'accorciamento degli arti, la cronicizzazione di atteggiamenti e comportamenti infantiloidi, la diminuzione delle risposte immunitarie, l'incapacità di sopravvivere in natura (131). A fronte di ciò può essere opposto il fatto che frutto di una selezione del tutto artificiale sono non solo i barboncini e i conigli di allevamento, ma gli alani, i levrieri, i tori da corrida, i gatti siamesi, i purosangue arabi ed inglesi, certo più "delicati" in termini di generica capacità di sopravvivenza dei brocchi, dei bastardini randagi o dei coyote, ma che è davvero difficile considerare "inferiori" a questi ultimi sotto qualsiasi altro profilo.

L'alternativa non è perciò tra una selezione "naturale" – che sarebbe comunque... artificialmente mantenuta – da un lato, e l'abolizione dei fattori selettivi dall'altro; ma tra una programmazione cosciente e deliberata delle caratteristiche (anche) genetiche della popolazione di riferimento (132), e la determinazione di tali caratteristiche da parte di fattori deliberatamente incontrollati o randomizzati o comunque sottratti ad una scelta umana e politica (il mercato, gli "effetti collaterali del progresso", la volontà divina, l'imperativo morale di un umanitarismo indiscriminato a favore dei membri di certe fascie sociali ed etniche dei paesi occidentali...).

Un altro modo di vedere la minaccia disgenica consiste nell'interpretarla come complesso di condizioni che nascondono, impediscono o modificano un'espressività, arbitrariamente assunta come "naturale", dei geni implicati (ad esempio, attraverso la somministrazione di insulina ai malati, di quelli che predispongono al diabete); con la conseguenza di rendere inefficaci o distorcere non solo le ordinarie pressioni selettive, ma altresì la cosiddetta "selezione sessuale", ovvero quella legata alle scelte ed inclinazioni dei potenziali partner riproduttivi, ad esempio tramite la modificata "leggibilità delle caratteristiche genetiche della controparte" che di per sé comportano l'abbigliamento o la chirurgia estetica, i trattamenti cosmetici e farmacologici, e più in generale stili di vita orientati e culturalmente determinati .

La consapevolezza di tali potenzialità in termini di "falsificazione" è molto antica, e la cosa può non essere estranea al particolare significato sessuale della nudità, specie femminile, in molte culture. Una misura apertamente eugenetica era del resto l'abitudine spartana di imporre alle fanciulle di mostrarsi a torso nudo nel ginnasio agli uomini destinati a sceglierle, e lo stesso naturismo tedesco all'inizio del novecento muoveva originariamente da premesse analoghe. Non è un caso che tale ordine di idee collida direttamente con l'atteggiamento, non solo eventualmente sessuofobico, ma ancora più generalmente e radicalmente anti-eugenetico, di tutte le religioni monoteiste. Esistono d'altronde problematiche anche più complesse. Appare ad esempio perfettamente possibile che i prossimi anni vedano, come è negli auspici delle già citate correnti del life-extensionism, l'affermazione di tecniche che consentano il raggiungimento magari non dell'immortalità biologica, ma di una longevità più o meno estrema rispetto ai valori attuali (133). Se si accetta l'ipotesi sociobiologica, singolarmente anti-darwiniana, che l'invecchiamento e la morte stessa degli organismi superiori e sessuati sono caratteristiche geneticamente programmate, e in particolare funzionali alla perpetuazione e sviluppo dell'informazione genetica attraverso l'eliminazione periodica dei relativi "veicoli" ed il rimescolamento continuo consentito dalla successione degli accoppiamenti e delle generazioni (134), anche una novità di questo tipo potrebbe essere interpretata esattamente come un fattore disgenico, con conseguenze di enorme portata non solo in termini culturali, ma rispetto alle dinamiche demografiche, all'invecchiamento della popolazione, all'identità stessa della specie, specie in riferimento alle dinamiche tra i gruppi che la compongono (135).

La questione della sostenibilità di un tale mutamento pone problemi che è difficile risolvere restando nell'ambito dei valori egualitari ed umanisti, ad esempio se le tecniche della longevità si rivelassero di un costo tale da impedirne, anche nel breve periodo (136), l'applicazione generalizzata, e/o da sottrarre risorse che sarebbero diversamente destinate ad altri progetti sociali, per esempio quelli concernenti l'assistenza sanitaria di massa (137). Che fare? Vietare incondizionatamente le tecniche in questione (arrogandosi implicitamente il potere di decidere della morte anticipata degli interessati) 138? Tentare di sottrarsi alla responsabilità di scegliere cosa farne delegando all'uopo meccanismi pretesamente "automatici" come il mercato (cosa che com'è ovvio rappresenta ugualmente una scelta, soltanto più "inumana" di altre in quanto in sostanza basata sul censo)?

Su scala molto inferiore, siamo già di fronte a questioni di questo tipo con riferimento al problema della distribuzione dei farmaci contro l'AIDS nei paesi "in via di sviluppo". Abbiamo da un lato il monopolio brevettuale esercitato dalle multinazionali farmaceutiche in forza di una legislazione protettiva che si giustifica per la sua "razionalità" economica, cosa che consente in certa misura di evadere il problema della scelta di valore. Dall'altro, esiste l'esigenza "umanitaria" di distribuire sottocosto tali farmaci, anche se questo nella logica del sistema attuale mina ovviamente la capacità di autofinanziarne l'ulteriore sviluppo. Le cose sono poi peggiorate dal fatto che i farmaci suddetti non guariscono l'infezione, ma si limitano (entro certi limiti) a aumentare l'aspettativa di vita delle persone infette, e pertanto, in ultima analisi,... aggravano i costi sociali dell'infezione stessa, ne consentono l'ulteriore diffusione nelle popolazioni coinvolte, e prevengono lo sviluppo selettivo di un più alto grado di immunità o resistenza geneticamente determinata alla malattia!

Resta naturalmente l'argomento per cui anche l'estinzione della specie potrebbe essere considerata un prezzo accettabile per il rispetto di esigenze di carattere essenzialmente morale, che vietano appunto all'uomo di rendersi "simile a Dio" e assumere su di sé la scelta del destino biologico della specie, o, più direttamente e praticamente, della propria concreta popolazione di riferimento.

Nessuna Provvidenza garantisce in effetti la sopravvivenza della nostra specie a prescindere dalle circostanze (139). I dinosauri dominavano la Terra, e sono scomparsi. L'Homo sapiens non è stata l'unica specie intelligente dell'universo; senza scomodare altri sistemi solari, sappiamo ormai con certezza che i Neanderthaliani erano intelligenti, e che non erano una razza di uomini, ma una specie diversa (140); e tale specie meno di trentamila anni fa si è del tutto estinta, come del resto sono oggi estinte la stragrande maggioranza delle specie che in un'epoca o in un'altra hanno abitato il pianeta (141). A maggior ragione, ed ancora più facilmente, può estinguersi del tutto – tranne forse negli studi di qualche paleontologo o archeologo o filologo del futuro – la singola, specifica popolazione cui ciascuno di noi appartiene.


Specie e razze

Quando si discute di "popolazione di riferimento", in campo umano pare sia oggi obbligatorio parlare esclusivamente della specie – cui corrispondono all'altro estremo soltanto gli individui singolarmente considerati.

La "specie", almeno tra gli esseri viventi sessuati, ha certamente una rilevanza tassonomica particolare, in quanto è per definizione tutto e solo il gruppo di individui entro cui avviene uno scambio genetico diretto, in particolare attraverso la capacità dei suoi membri di procreare tra loro prole feconda; ma questo – anche senza contare il prevedibile e progressivo sfumare di tale confine ad opera dell'ingegneria genetica – non è ovviamente l'unico raggruppamento possibile. Ciò non fosse altro che per il fatto che il destino delle stirpi e linee germinali che la compongono non è affatto necessariamente unitario; così come non è affatto unitario il destino delle singole caratteristiche presenti in una data specie, e della loro relativa dominanza all'interno della specie stessa (142).

La logica di rimozione già descritta trova però un'espressione saliente nell'eliminazione dal vocabolario del concetto stesso di razza, come substrato propriamente biologico dei popoli e delle culture che essi esprimono. In effetti, c'è chi ha seriamente proposto di bandire tale termine, curiosamente però soltanto per le accezioni che riguardano la specie umana. In altri termini, è accettabile definire siamese o soriano un gatto, ma è doveroso riconoscere che l'homo sapiens sarebbe l'unica specie affetta un'incapacità costituzionale di suddividersi in "razze" che abbiano una qualsiasi base empirica riconoscibile allo zoologo o all'antropologo (se non eventualmente per il pregiudizio ideologico "razzista" di quest'ultimo) (143). Il famoso musicologo ed indianista Alain Daniélou diceva già negli anni ottanta: «Il timore di infrangere tabù concernenti l'uso blasfemo di parole proibite fa sì che i più grandi scienziati, sociologi, biologi, psicologi, storici, impiegano sbalorditive circonlocuzioni per evitare di essere accusati di eresia razzista, cosa che farebbe immediatamente condannare la loro opera» (144).

Ma ritorniamo al testo di Jacquard già più volte citato: «Fin da quando si è cominciato ad osservare un insieme complesso come quello degli uomini, si è avvertita la necessità di mettere a punto classificazioni, raggruppamenti che riferissero ad una stessa categoria gli individui che sembravano più simili. Affinché tale classificazione abbia un senso biologico occorre naturalmente che i caratteri che permettano di rilevare le somiglianze siano ereditari e che presentino una certa stabilità da una generazione all'altra. I primi tentativi di classificazione erano necessariamente basati solo sui dati forniti direttamente dall'osservazione: le forme e il colore della pelle degli individui; queste classificazioni potevano essere sottili, tener conto di parametri complessi, ma, per il modo in cui erano costruite, non potevano che riferirsi all'"universo dei fenotipi". [...] A seconda delle caratteristiche studiate (145), le classi o "razze" [le virgolette dell'autore servono forse ad esorcizzare la parolaccia] così definite potevano variare e c'erano vivaci polemiche fra coloro che come H. Vallois consideravano 4 razze principali e 25 secondarie e quelli che ne contavano 20, o 29 o 40...».

Annotazione questa certo storicamente interessante, ma poco utile a negare il valore operativo del concetto che l'autore attacca, posto che esistono tuttora simili dispute in biologia sul numero o sulla unitarietà di famiglie o generi o phyla, che per definizione dovrebbero essere legati a caratteristiche ben più radicali e meno elusive di quelle che distinguono le varie razze all'interno della stessa specie.

Continua Jacquard: «Le scoperte della genetica hanno finalmente permesso di precisare la problematica, fornendo la possibilità di dare un contenuto più oggettivo al concetto di razza: una razza è un insieme di individui che hanno in comune una parte considerevole del loro patrimonio genetico. In questo caso, si tratta di caratteristiche intrinseche dei diversi gruppi umani, indipendenti dalle loro condizioni di vita: la classificazione riguarda l'"universo dei genotipi". Si può così sperare di ottenere risultati chiari, che riscuotano un generale consenso. Sfortunatamente il comportamento delle persone di scienza in questo campo è stato quello, denunciato dalle Scritture, di "mettere il vino nuovo nelle botti vecchie", cioè di interpretare osservazioni nuove secondo concetti vecchi. Nonostante progressi notevoli nella conoscenza, la confusione degli spiriti è solo cresciuta».

Il prosieguo dell'esposizione resta sul medesimo tono predicatorio e moralistico: «Non è inutile, per cominciare, mettere a confronto questi due termini, razza e razzismo:
- uno si riferisce a ricerche scientifiche, legittime a priori (146), basate su dati oggettivi: lo scopo è di mettere a punto metodi di classificazione degli individui che permettano di definire gruppi, le "razze", relativamente omogenei;
- l'altro richiama un atteggiamento dello spirito, necessariamente soggettivo: si tratta di mettere a confronto le diverse razze attribuendo un "valore" a ciascuna e stabilendo una gerarchia.
È evidente che le due attività sono distinte: si può cercare di definire le razze senza minimamente essere "razzisti". Il più delle volte, però, questa possibilità rimane del tutto teorica. Il bisogno di dare una definizione delle diverse razze è raramente motivato da un puro spirito di tassonomista meticoloso di voler mettere ordine tra i dati; risulta dal desiderio, così sviluppato nella nostra società [sic!] di differenziare dagli altri il gruppo al quale si appartiene. Corrisponde all'idea platonica di "tipo". Possiamo definire la specie umana, ma è difficile precisare nei dettagli il tipo umano ideale; sono necessari tipi diversi: il Bianco, il Negro, l'Indiano, l'Esquimese, etc. [...] Una classificazione è basata il più delle volte su un insieme di criteri, alcuni oggettivi, altri soggettivi, che raramente non porta alla compilazione di una gerarchia: le razze sono diverse, quindi alcune sono "migliori" di altre. Si sa dove, seguendo questa strada, sono potuti giungere certi dittatori».

L'epistemologia di Jacquard è superata ed ingenua. Una categoria scientifica è significativa per il suo valore descrittivo ed operativo, non per la sua corrispondenza ad una verità "oggettiva". Dire che i triangoli perfettamente rettangoli di cui tratta la geometria "non esistono" è un'affermazione vera, ma banale, che lascia del tutto intatta la loro utilità concettuale, o la validità del teorema di Pitagora. Altrettanto stupido è contestare il valore del concetto di quadrilatero sulla base del fatto che talora viene invece fatto riferimento più genericamente ai poligoni (che li comprendono) o più specificamente ai parallelogrammi (che non li esauriscono). Parimenti, il pendolo ideale, la macchina di Turing, i gas perfetti, l'accelerazione esattamente costante, sono cose "inesistenti", che però è perfettamente lecito, e proficuo, studiare.

L'attacco all'approccio tipologico in antropologia, cui si associa ad esempio Theodosius Dobzhansky [alias] (147), è perciò giustificato unicamente nella misura in cui l'antropologo criticato abbia un'idea "realista", ovvero in qualche modo neoplatonica, dei tipi razziali proposti e studiati, come era il caso degli antropologi positivisti ottocenteschi che ipotizzavano che le varianti intrapopolazionali potessero essere spiegate unicamente con la mescolanza e l'ibridazione di tipi "puri" suppostamente preesistenti.

Risulta invece perfettamente plausibile l'operazione consistente nell'identificare, isolare, estrapolare ed esaltare un modello, un "tipo", sulla base delle differenze tendenziali di un gruppo di oggetti, o in questo caso di una popolazione o di sue componenti individuate a priori, rispetto ad un background costituito da una classe o popolazione inclusiva, ad esempio la specie (148). Tale tipo "puro" è certamente un tipo ideale, ed in un certo modo arbitrario, ma le sue connotazioni risultano ancora più significative con riguardo alle razze selezionate artificialmente – quali almeno in parte possono essere considerate comunque le razze umane, per definizione successive all'ominazione. Il mastino napoletano perfetto può benissimo non essere mai esistito, ma questo non rende particolarmente più difficile il lavoro dell'allevatore, o della giuria di una mostra canina (né, quando esistono canoni ideali sufficientemente condivisi, risulta così difficile quello della giuria di un ordinario concorso di bellezza femminile, a prescindere dal fatto che il modello di bellezza preso a riferimento possa non essersi mai perfettamente incarnato).

Ad ogni modo, è proprio l'idea universalista di un'Umanità unica e per ragioni morali "inscindibile", di un unico "tipo" ideale per l'intera specie, che consente eventualmente di stabilire gerarchie di valori in funzione del grado di somiglianza e vicinanza di ciascuna popolazione ed individuo al tipo suddetto.

In tal senso, il riferimento di Jacquard a "certi dittatori" è del tutto fantasioso: l'antropologia ispirata al nazionalsocialismo mira da un lato all'identificazione (e al tempo stesso promozione) di caratteristiche biologiche assunte come "superiori" o "desiderabili" o "identificanti" all'interno di una prospettiva etnoculturale e popolare ben definita, e del tutto relativa; dall'altro alla loro difesa, ed affermazione concorrenziale, rispetto alle altre macrorazze. Nessun teorico od antropologo nazionalsocialista, e tanto meno Adolf Hitler, si è è mai sognato di immaginare che i medesimi tratti razziali dovessero essere propugnati o considerati "superiori" dal punto di vista di un arabo o di un masai o di un giapponese, o che fosse opportuna la loro diffusione all'interno delle relative etnie – magari attraverso un processo di ibridazione con la razza europoide (149)! Questa non è altro che la proiezione dei fantasmi dell'etnocentrismo universalista, che può variare nelle sue versioni anglosassone e giacobina, ma resta invariabilmente "missionario", "democratico" e "civilizzatore", e non aspira ad altro se non a "benevolmente" rendere tutti uguali 150.

Persino Julius Evola, quello tra gli autori del razzismo fascista cui può essere con maggior fondamento attribuita l'idea ambigua di una Verità o di una Tradizione metafisicamente fondate ed indipendenti da una identità e soggettività collettiva, finisce per concludere: «[La nostra mentalità] non si pone il problema di ciò che sia il vero e il bene, ma si chiede per quale razza una data concezione può esser vera e una data norma può essere valida e "buona". Lo stesso si dica nei riguardi delle forme giuridiche, dei criteri estetici, perfino degli ideali di conoscenza della natura. Una "verità", un valore o criterio che per una data razza può esser valido e salutare, per un altra può non esserlo, sì da condurre, quando da essa sia accettato, ad uno snaturamento e ad una distorsione» (151).

Del resto, scriveva già l'autore tedesco che più di ogni altro ha ispirato al riguardo Evola, ovvero Ludwig Ferdinand Clauss: «è privo di senso ed antiscientifico voler guardare la razza mediterranea con gli occhi della razza nordica e valutarla secondo la scala nordica dei valori, così come insensato ed antiscientifico sarebbe l'inverso. Forse Dio conosce l'ordine gerarchico delle razze. Noi no. [...] Il valore oggettivo di una razza potrebbe essere conosciuto solo da quell'uomo che stesse al di là di ogni razza» (152).

È significativo del resto che mentre tutti i movimenti protofascisti e fascisti si pongono, in gradi differenti, il problema della composizione etnica e del substrato biologico della comunità di riferimento, ciascuno di essi si riferisce al problema in modo diversificato, e storicamente e localmente determinato in rapporto alla comunità di riferimento (la "nordizzazione", la "razza italica", la "razza turanica". etc.), pur nella riaffermazione e nel riferimento al discrimine di una comune identità (indo)europea fondamentale; così che in tal caso davvero l'"amore per la differenza" si spinge sino alla dimensione nazionale e regionale, e mira, come parrebbe logico, ad aumentare le differenze, non a negarle in attesa (e nella speranza) di annullarle prima o poi del tutto!

Ciò detto, l'esistenza delle razze umane rientra in un dato evidente di comune esperienza, e può essere negata unicamente per pregiudizio ideologico. Tale intuizione condivisa da tutti è ben definibile , come ammette Jacquard, anche in termini rigorosamente biologici.

«Cosa significa classificare? La tecnica che consente di farlo è stata messa a punto dai matematici, e consiste nel calcolare una "distanza": due individui sono tanto più simili globalmente quanto più piccola è la distanza fra di loro. Le formule che permettono di effettuare un simile calcolo sono numerose: a uno stesso insieme di dati possiamo far corrispondere diversi insiemi di distanze fra gli individui, a seconda che si ricorra alla distanza "euclidea", alla "distanza Manhattan" o alla "distanza del chi quadrato". Supponiamo che dopo aver scelto determinati criteri di classificazione e una formula per calcolare le distanze, sia stato possibile determinare tutte le distanze di ciascun individuo e ognuno degli altri (per quattro miliardi di individui il numero delle distanze a due a due è dell'ordine di otto miliardi di miliardi). Le "classi" che cerchiamo di definire avranno un senso se le distanze fra gli individui di una stessa classe sono, almeno in media, nettamente inferiori a quelle tra individui di classi diverse. Il metodo più semplice, che senza dubbio resta il più vicino al ragionamento intuitivo, è quello di costruire un "albero": prima di tutto si uniscono i due elementi più prossimi per costituire una classe formata da questi due elementi, poi si riuniscono le classi più vicine; il numero delle classi viene così a poco a poco ridotto, finché non ne rimane che una che comprende tutto l'insieme».

Prosegue Jacquard: «Come utilizzare tale albero per definire le razze? Dobbiamo ancora compiere una scelta, quella del numero delle razze, numero necessariamente compreso tra 1 (la razza e la specie sono allora confuse) e n (tante razze quanti sono gli individui, il che toglie ogni senso ai nostri sforzi). Se vogliamo distinguere x razze, dobbiamo tagliare l'albero ad una certa altezza. L'altezza a cui tagliamo l'albero ha un senso preciso: rappresenta la perdita di informazioni che si deve accettare per sostituire i dati iniziali, che riguardano gli individui, con i dati globali che riguardano le classi definite come "razze"».

Tale perdita dipende dal numero di classi con cui si desidera avere a che fare. Per non perdere nessuna informazione bisognerebbe restare all'altezza zero, ovvero non effettuare nessun raggruppamento; se si raggruppa l'insieme in un'unica categoria si perde viceversa la totalità dell'informazione. «Non si tratta di negare ogni valore al risultato di una classificazione, ma essere coscienti della sua relatività», conclude Jacquard.

Di nuovo, giova però notare che la coscienza della "relatività" [pacifica] del risultato ottenuto non toglie affatto validità al risultato stesso. Non solo.

Ricorda Dobzhansky [alias]: «Immanuel Kant, che fu naturalista prima di diventare filosofo, scrisse con notevole intuizione nel 1775: "Negri e bianchi non sono specie diverse di uomini (presumibilmente appartengono perciò ad uno stesso ceppo), però costituiscono razze distinte, perché ognuna si perpetua in ogni area di distribuzione, e i figli nati dagli incroci sono necessariamente ibridi, o mulatti. D'altra parte, biondi e bruni non sono differenti razze di bianchi, poiché un uomo biondo può anche avere da una donna bruna soltanto figli biondi, pur se ognuna di queste caratteristiche si conserva per molte generazioni nonostante vari trapianti". In altri termini, Kant comprese con chiarezza maggiore di certi autori recenti la distinzione tra variabilità individuale (intrapopolazionale) e di gruppo (interpopolazionale). [...] Servendoci della terminologia moderna, possiamo così descrivere la situazione: con l'unica eccezione dei gemelli monozigoti (153) due individui qualsiasi si differenziano per alcuni, e forse per molti, geni. Genitori e figli, fratelli, parenti stretti e persone senza apparenti legami di parentela presentano, in media, un numero di geni diversi via via crescente. Il genotipo di un individuo è unico, senza precedenti e aperiodico. La fonte prima della variabilità genetica individuale è la segregazione mendeliana in popolazioni a riproduzione sessuata ed esogame. Un individuo è eterozigote rispetto a molti (probabilmente migliaia o decine di migliaia) dei suoi geni. È improbabile che due qualunque delle cellule sessuali da lui prodotte contengano esattamente lo stesso assetto genetico; ugualmente differenziate sono le cellule del partner; gli zigoti (i figli) che daranno alla luce saranno, di norma, eterozigoti e diversificati per lo stesso numero di geni dei genitori» (154).

Continua Dobzhansky [alias]: «Con la variabilità di gruppo le unità di indagine non sono più i singoli, ma insiemi di individui biologicamente e geneticamente imparentati, ovvero le popolazioni. [...] Un individuo ha due genitori, quattro nonni, otto bisnonni, e così via. Già in una trentina di generazioni il numero degli antenati di ciascuno di noi supera la popolazione mondiale attuale. Naturalmente tali numeri non sono mai esistiti. Malgrado le limitazioni agli incroci più immediati frapposti dal tabù dell'incesto, tutti i nostri progenitori sono parenti più o meno alla lontana. Anche se siamo in grado di documentarlo solo in pochissimi casi, tutti gli esseri umani sono imparentati. Se riuscissimo ad elaborare un pedigree completo della specie umana, ne risulterebbe un intricato reticolo sul quale ogni individuo sarebbe più volte concatenato a tutti gli altri. Il genere umano è una popolazione mendeliana complessa, con un pool genetico comune. I geni di ogni individuo discendono dal pool, e, a meno che muoia senza prole, una parte vi farà ritorno».

E ancora: «D'altronde, l'umanità non è una popolazione panmittica, cioè una popolazione ove ogni singolo membro ha l'identica probabilità di accoppiarsi con qualunque altro individuo del sesso opposto e dell'età adatta. [Persino oggi,] è molto più probabile che un ragazzo nato in Canada sposi una ragazza canadese che una cinese o una ugandese. Al pari di molte specie animali e vegetali a riproduzione sessuata, gli uomini si differenziano [geograficamente e per altri fattori] in popolazioni mendeliane secondarie; il matrimonio tra consanguinei nell'ambito di una popolazione secondaria è più frequente che tra popolazioni diverse. L'umanità, come specie biologica, è la popolazione mendeliana inclusiva. Al suo interno, troviamo una gerarchia di popolazioni mendeliane secondarie, parzialmente isolate tra loro per motivi geografici e nel nostro caso culturali. Soltanto le ripartizioni più piccole – abitanti di qualche villaggio, membri di una stessa classe sociale all'interno di una piccola città – si possono considerare approssimativamente panmittiche».

Le razze corrispondono in questo senso all'astrazione delle caratteristiche identificanti di popolazioni mendeliane secondarie all'interno di una medesima specie (155).

Ora, un certo grado di segregazione riproduttiva rappresenta un elemento fondamentale per il mantenimento – se non di per sé sufficiente per la creazione – di tali popolazioni (156). Lo studio della differenziazione genetica di popolazioni intraspecifiche resta comunque assai complesso. Sono stati in particolare suggeriti tre modelli fondamentali. Il primo, il più maneggiabile da un punto di vista matematico, è quello dell'"isola"; gli altri due sono il modello dell'isolamento progressivo in funzione della distanza su un'area uniformemente abitata, e il modello del "trampolino". Il modello dell'isola presuppone che la specie sia formata da colonie discrete in cui prevale la panmissia, ma che ricevono una frazione m di immigranti provenienti dal resto della specie. L'isolamento delle isole può variare nel tempo e nello spazio, con m oscillante da zero (isolamento completo) a uno (nessun isolamento). Se gli "immigranti" provengono – come spesso si verifica in pratica – da colonie vicine anziché indistintamente dal resto della specie, abbiamo il modello del trampolino. Nell'uomo si riscontrano situazioni conformi a tutti e tre i modelli, e anche agli stadi intermedi tra di essi (157).

Gli studi classici nel campo delle popolazioni umane restano quelli di Cavalli-Sforza [alias] (158), cui è tra l'altro capitato di studiare la "migrazione matrimoniale" tra città e villaggi della diocesi di Parma, così come Harrison ha analizzato i dati disponibili relativamente alle comunità dell'Oxfordshire inglese (159). Entrambi gli autori hanno constatato che nei dati disponibili la probabilità di matrimonio è una funzione esponenziale negativa della distanza reciproca dei villaggi, ed è anche una funzione della dimensione dei villaggi stessi: più numerosa è la popolazione di un villaggio, maggiore è il numero dei potenziali compagni ivi contenuti. Un altro fattore importante della mobilità matrimoniale e sessuale, e di conseguenza del flusso genico tra popolazioni mendeliane, è non soltanto la distanza fisica, ma la facilità di spostamento. Nelle comunità studiate da Cavalli-Sforza, ad esempio, è stato possibile mettere in relazione la maggiore mobilità, e anche la più elevata densità di popolazione, che si riscontra in pianura con la differenziazione genetica degli abitanti dei vari paesi.

Nel 1969, Neel e i suoi collaboratori effettuarono studi sulla frequenza di venticinque geni differenti in trentanove villaggi della tribù Yanomama dell'Orinoco superiore in Venezuela (160). Per parecchi geni si registrarono differenze molto sensibili a seconda del villaggio considerato. Cavalli-Sforza attribuisce tali eterogeneità alla deriva genetica, non essendo plausibile ipotizzare differenze locali a livello di selezione naturale per popolazioni stanziate su un territorio sostanzialmente identico. Secondo Neel, «queste differenze riflettono principalmente il modo in cui ebbero origine i nuovi villaggi», e ci raccontano perciò in sostanza la storia della regione.

Quelli precedenti sono d'altronde esempi di differenziazione microgeografica di popolazioni secondarie della specie umana. Certo, come osserva Dobzhansky [alias], la differenziazione macrogeografica si distingue quantitativamente più che qualitativamente: «Le popolazioni umane vivono in un'ampia varietà di ambienti fisici e culturali. Popolazioni insediate in differenti continenti e porzioni delimitate dello stesso continente spesso presentano molti geni dissimili; di conseguenza si diversificano in molte caratteristiche morfologiche e fisiologiche. In altre parole, l'umanità è un aggregato di popolazioni distinte in senso razziale».

La genetica delle popolazioni porta un contributo originale all'identificazione e definizione delle identità razziali suddette; contributo che si aggiunge, più che sostituirsi, al modello tipologico già discusso. Le popolazioni mendeliane possono essere descritte in termini di incidenza di caratteristiche separate, ed idealmente di alleli di geni varianti (161). In effetti, se si riportano su un grafico le frequenze di alleli genici o di caratteristiche fenotipiche distinte, si osservano regolarmente gradienti o clini di frequenze crescenti o descrescenti verso qualche punto centrale, simili ad isobare genetiche.

Osserva ancora Dobzhansky [alias]: «L'allele 1B del sistema dei gruppi sanguigni fondamentali (A, B, 0) raggiunge nell'Asia centrale e nell'India settentrionale frequenze comprese tra il 25 e il 30%. Le sue frequenze declinano verso occidente al 20-25% nella Russia europea, al 5-10% nell'Europa occidentale e si abbassano ancor più in alcune zone della Francia e della Spagna. Le frequenze diminuiscono altresì in direzione sud-est, sino a giungere praticamente a zero tra gli aborigeni australiani, e in direzione nord-est sino al 10% tra gli esquimesi, per annullarsi di nuovo tra gli amerindi puri. Il centro della pigmentazione chiara della pelle e degli occhi si trova in Europa nord-occidentale: la pigmentazione si scurisce verso est ma soprattutto verso sud, raggiungendo il massimo nell'Africa sub-sahariana, nell'India meridionale e nella Melanesia. L'indice di Roher (peso corporeo diviso per il cubo dell'altezza) arriva ai valori massimi tra gli esquimesi ed è al minimo in Asia meridionale, in Africa e in Australia».

Tali dati meritano un'analisi più approfondita, che come abbiamo detto aggiunge qualcosa di significativo all'analisi tipologica. Se la risultante complessiva di tutti i possibili gradienti genici o la variazione nella distribuzione delle caratteristiche fenotipiche fossero uniformi, le frequenze geniche aumenterebbero o diminuirebbero regolarmente di tante unità percentuali per tanti chilometri percorsi in una data direzione. Con gradienti uniformi i confini delle razze potrebbero essere soltanto arbitrari; e le razze sarebbero unicamente un modello "ideale". Al contrario, spesso i gradienti sono molto ripidi in alcune direzioni o zone, e più dolci od assenti in altre.

Conclude Dobzhansky [alias]: «Consideriamo due alleli genici, A1 e A2 in una specie con un'area di distribuzione di 2100 chilometri. Supponiamo che per 1000 chilometri la frequenza di A1 declini dal 100 al 90%, per i successivi 100 chilometri dal 90 al 10, e per i restanti 1000 dal 10 allo 0%. Chiunque vede che è ragionevole e conveniente dividere la specie in due razze, rispettivamente caratterizzate dalla predominanza di A1 e A2, e tracciare un confine geografico nel punto in cui il clino è scosceso».

Ma se ciò non bastasse, esistono tra le razze umane, oltre che significativi ed improvvisi sbalzi quantitativi nella distribuzione dei geni – che nella loro risultante complessiva danno ragione della convergenza delle nostre intuizioni tipologiche al riguardo, malgrado la presenza in ciascun individuo di un certo numero di caratteristiche che sono dominanti in altre razze e invece minoritarie nella sua –, differenze cosiddette qualitative, che si definiscono come quelle in cui l'appartenenza ad una data popolazione si rileva del tutto determinante quanto alle possibili caratteristiche individuali. Cosa che si verifica evidentemente quando un allele o un insieme di alleli genici si presentano nel cento per cento di una popolazione, e sono del tutto assenti in un'altra.

Un carattere di questo tipo, che non a caso ha assunto storicamente una valenza simbolica particolare, è il colore della pelle. Come osservò già Darwin: «Di tutte le differenze tra le razze umane il colore della pelle è la più cospicua e una delle meglio marcate». Anche se il meccanismo soggiacente pare sia in realtà più complicato, tale carattere si comporta esattamente come se fosse controllato da quattro coppie di geni con effetti addittivi. Ora, è ben vero che come nota André Langaney (162) si può passare senza discontinuità dagli uomini più chiari (gli europoidi del nord) agli uomini più scuri, nell'esempio i Sara del Ciad, scegliendo gli intermediari solo in altre due popolazioni, i Nordafricani e i Boscimani; ma non esiste semplicemente nessuna possibilità che un indigeno dell'Africa subsahariana (a parte i casi di albinismo) nasca con una pigmentazione chiara come un europeo, né che un europeo etnico nasca con la pigmentazione scura come un africano o un melanesiano, qualsiasi possa essere la gamma di variazioni individuali presenti nelle rispettive popolazioni di appartenenza per altre caratteristiche. Anzi, pur essendo tutte le variazioni della pigmentazione cutanea dipendenti in sostanza dalla quantità di melanina prodotta, è assai dubbio che le variazioni intrarazziali (le variazioni di colore all'interno della stessa popolazione genetica) siano comandate dagli stessi geni che governano le variazioni interrazziali (ovvero le variazioni stabilmente esistenti tra una razza e l'altra).

Esistono a quanto pare varie altre caratteristiche dello stesso tipo, o molto simili, pur se meno vistose. Uno degli alleli del sistema Rh (cDe) supera spesso frequenze del cinquanta in popolazioni africane, ma ha percentuali tanto basse altrove da essere coerente con la probabilità di progeniture africane recenti nei pochissimi portatori. Aggiunge Dobzhansky [alias]: «Un allele del locus 'Diego' sembra mancare tra gli Europei e presentarsi regolarmente tra gli Amerindi, pur non raggiungendo il 100%. Un allele del sistema Duffy ha frequenze superiori al novanta per cento tra i negri dell'Africa occidentale, e di nuovo è praticamente assente tra gli europei».

Certo, è perfettamente vero che la maggior parte delle singole caratteristiche si presentano distribuite in modo irregolare e diversificato attraverso le razze, e che i determinismi genetici di tali caratteristiche sono ancora nella maggior parte dei casi poco noti, a cominciare da quelli che regolano il rapporto tra le dimensioni della testa (determinando la "dolicocefalia" e la "brachicefalia"). Altri caratteri, nonostante dipendano rigorosamente dal patrimonio genetico, sono poco stabili, come l'altezza; è noto infatti come il ventesimo secolo abbia visto un aumento molto rapido della statura media nei paesi industrializzati, per ragioni non interamente chiarite, e del tutto a prescindere dalla taglia media della razza di appartenenza delle relative popolazioni.

Ugualmente, rileva Jacquard, «le popolazioni di pelle scura si trovano soprattutto in Melanesia, ovvero nella parte sudoccidentale del Pacifico, nella penisola indiana e nell'Africa a sud del Sahara. Indipendentemente dalla comune vicinanza di tali regioni all'equatore, e dalla questione se ciò possa costituire un argomento in funzione di una valenza adattativa di tale caratteristica (cosa su cui del resto sono stati recentemente avanzati dubbi), va notato come queste tre popolazioni non possono in alcun modo essere considerate come costituenti una "razza"; a parte il colore della pelle, tutto le differenzia: l'analisi dei loro sistemi sanguigni, ad esempio, mostra come sia impossibile considerarle come tre rami provenienti da uno stesso gruppo; il loro "albero filogenetico" non può essere rappresentato da tre diramazioni di uno stesso tronco. Se così fosse, nell'ipotetica popolazione antenata sarebbero presenti altri caratteri, oltre il colore nero, che si ritroverebbero in questi tre insiemi di popolazione. Questa constatazione mostra come una classificazione basata solo sul colore della pelle non può avere un senso biologico; è un fatto molto irritante per chi ritiene possibile una definizione delle razze fondata solo su questo criterio» (sarebbe d'altronde facile obbiettare che resta però vero il contrario, ovvero che la pigmentazione chiara degli europoidi rappresenta un caso sufficientemente unico, con l'eventuale modesta eccezione rappresentata dagli Ainu [alias] nel nord del Giappone – di cui comunque sono state ipotizzate parentele protoindoeuropee).

Ma anche qui lo studioso sceglie, a fini retorici, bersagli immaginari per proclami di natura morale. Nessun antropologo ha mai davvero immaginato che un melanesiano ed uno zulu appartengano allo stesso gruppo razziale per il fatto di essere ugualmente neri, né viceversa foss'anche il più sprovveduto militante analfabeta del Ku Klux Klan [alias] ha mai considerato un negro albino come facente parte, per "merito" di tale affezione, del suo gruppo razziale.

La verità è che è l'esperienza quotidiana a confermare quanto sia facile indovinare almeno il grande gruppo razziale di appartenenza di qualcuno a partire da una foto in bianco e nero con un tempo di esposizione ignoto, o persino da un identikit, pur essendo impossibile in tali condizioni appurare quanto sia scura la pelle della persona ritratta, e rientrando invece in conto, in tale valutazione, il soppesamento inconscio di una serie di parametri quantitativi, che magari rientrano tutti nell'arco di variabilità interna delle singole razze che presentano le relative caratteristiche, ma la cui convergenza non lascia dubbi nella maggior parte dei casi neppure ad un osservatore non particolarmente perspicace – e neppure ad un "sistema esperto" ben addestrato in esecuzione su un elaboratore elettronico.

Sembra perciò del tutto implausibile concludere, come fa Jacquard, che «l'accumulazione di dati sempre più precisi, la loro trattazione con procedimenti sempre più complessi non porta che a rendere più difficile la classificazione delle diverse popolazioni che compongono la nostra specie». Semmai tale classificazione diventa anzi più raffinata, documentata e penetrante.

L'unica ragione che motiva la opposta conclusione di chi la pensa come Jacquard è la tesi che si vuole dimostrare, avanzata per ragioni nient'affatto scientifiche.

Continua infatti il biologo francese: «Così, la visione tanto chiara della geografia della nostra infanzia, i Bianchi, i Gialli, i Neri, è adesso ingarbugliata: non si riscontra più alcuna linea direttrice. La ricerca scientifica, non sarà forse stata fuorviata? In realtà, il ruolo della scienza non è quello di fornire infallibilmente risposte a tutti gli interrogativi. A certe domande non si deve rispondere [corsivo nostro]; dare una risposta anche parziale o imprecisa a una domanda assurda è farsi complici di una mistificazione, essere colpevoli di un abuso di fiducia. Se la classificazione degli uomini in gruppi più o meno omogenei, che si possono chiamare 'razze', avesse senso biologico reale, il ruolo della biologia sarebbe quello di stabilire al meglio tale classificazione; ma questa classificazione non ha senso. È vero che il mio amico Lampa, contadino Bedick del Senegal orientale, è molto nero e io sono grosso modo bianco, ma alcuni dei suoi gruppi sanguigni potrebbero essere più vicini ai miei di quelli del mio vicino di pianerettolo, il signor Dupont. Il risultato messo in rilievo da Lewontin [alias] (163) significa che la distanza biologica che mi separa dal Sig. Dupont è, in media, solo un quinto inferiore dalle distanze che mi separano da Lampa [...] Questa piccola differenza merita tutta l'attenzione che da secoli le accordiamo?».

Tale chiusa ad effetto – che trascura di considerare che Jacquard, se per questo, come tutti gli esseri umani ha anche in comune il 98% del proprio corredo genetico con gli scimpanzé (164), pure per tale risibile differenza percentuale pregiudizialmente esclusi, immaginiamo, dal giro delle sue amicizie più intime – illustra esemplarmente il fenomeno psicologico della rimozione già più volte citato: se qualcosa è intollerabile, non esiste; e se anche esistesse è opportuno, doveroso, fare finta che non ci sia.

Capita invece che l'esistenza delle razze, ovvero la relativa segregazione e "tipificazione" delle varianze tra le popolazioni degli esseri umani, così come di qualsiasi altra specie animale e vegetale, è esattamente ciò che fornisce il materiale genetico per l'emersione, il mantenimento e la selezione di quella differenza – ovvero ricchezza, flessibilità, polimorfismo di tratti stabili di gruppo – al cui "elogio" Jacquard pure intitola con involontaria ironia il suo pamphlet e cui, non a torto, viene attribuita decisiva valenza con riguardo all'adattabilità e alle chance di sopravvivenza a lungo termine di una specie.


Deriva, adattamento, differenziazione

È grazie ad un italiano già citato, e precisamente a Luigi Luca Cavalli-Sforza [alias], che negli ultimi dieci anni conosciamo per la prima volta con discreta precisione la storia delle razze umane negli ultimi centomila anni, grazie ad uno studio imponente 165 la cui portata è ancora difficilmente apprezzabile, ed è unicamente paragonabile a quella di Georges Dumézil per ciò che concerne i cinque o diecimila anni di storia dell'identità europea.

Da cosa derivano d'altronde tali differenze? «Un secolo fa», scrive Dobzhansky [alias], «Darwin si sentiva frustrato in tutti i tentativi di spiegare la differenza delle razze umane». In particolare, riteneva difficile chiamare in causa la selezione naturale, perché «ci scontriamo immediatamente con l'obiezione che in tale modo possono conservarsi unicamente le variazioni benefiche; e per quanto possiamo giudicare (sempre soggetti ad errore) nessuna delle differenze esterne tra le razze umane è di qualche diretto o particolare aiuto all'uomo». Afferma in effetti Darwin testualmente in L'origine dell'uomo: «Da parte mia, concludo che tra tutte le cause che hanno determinato le differenze nell'aspetto esterno tra le razze umane, e in certa misura le differenze tra l'uomo e gli animali inferiori, la più efficiente è stata di gran lunga la selezione sessuale» (166).

Tale punto di vista è naturalmente superato, in particolare nella confusione tra la selezione intraspecifica e quella interspecifica (in cui la selezione sessuale per definizione non può giocare alcun ruolo), ma soprattutto nell'artificiale distinzione tra la selezione naturale in senso stretto (intesa come capacità di sopravvivenza individuale) e la selezione sessuale (ovvero la capacità di attirare partner fecondi, e i migliori possibili tra di essi), che la sociobiologia riduce ad un solo fattore, ovvero la capacità di un gene di replicare efficacemente se stesso, la sopravvivenza individuale o il sex appeal non essendo che presupposti tra altri in vista del raggiungimento di tale "fine".

Ciò che più interessa qui è però il fatto che i dubbi di Darwin e la sua incertezza al riguardo non sono molto cambiati sino ad un'epoca molto recente. Come osserva infatti Dobzhansky [alias], «sino a meno di una generazione fa, i principali antropologi ritenevano che le differenze razziali fossero per la maggior parte adattativamente neutre e di conseguenza non si sforzavano granché per scoprirne gli eventuali valori selettivi. I radicali mutamenti negli ambienti umani provocati dagli sviluppi culturali rendevano particolarmente difficoltoso l'approccio al problema (167): un carattere genetico può aver giocato un milione di anni or sono un ruolo adattativo completamente diverso da quello di diecimila anni fa, a sua volta magari differente da quello attuale. Infine, con una curiosa inversione di ragionamento, la dottrina dell'uguaglianza umana pareva escludere la possibilità di un adattamento (adaptedness) genetico differenziato», in quanto concetto pericolosamente suggestivo della possibile idoneità degli uomini e delle razze a ruoli e modelli di vita diversi, secondo quanto suggerito invece da un celebre passo di Aristotele [alias] 168.

Lo stesso significato adattativo di una caratteristica così ovvia come il colore della pelle è aperto alla discussione. La nozione secondo cui un corredo genetico che provvede una pigmentazione scura protegge dalle scottature solari e dai tumori alla pelle – esattamente come il meccanismo fisiologico che governa la produzione di melanina, e perciò l'"abbronzatura", nei singoli individui – è molto antica, ed è resa plausibile, oltre che dal buon senso, dal fatto che le razze a pelle scura invariabilmente abitano (o almeno abitavano) le zone tropicali ed equatoriali del pianeta.

Meno chiara era l'utilità di una minor dotazione di melanina per chi fosse al contrario meno esposto alle radiazioni solari, ma più recentemente è stato rilevato come il maggiore assorbimento della luce solare, in ipotesi scarsa, consenta una migliore sintesi della vitamina D, la vitamina antirachitica.

È vero d'altronde che la pelle scura provoca un assorbimento maggiore del calore convogliato dalla luce solare proprio là dove tale effetto sarebbe meno desiderabile; ed ancora, la regola della distribuzione geografica della pigmentazione bruna non è senza eccezioni: gli indiani del Sudamerica equatoriale non sono particolarmente scuri, e alcuni dei nativi della Siberia nordorientale sono bruni almeno quanto quelli del Nordafrica. Esistono però varie possibili spiegazioni delle "eccezioni" in questione, sia fondate sulla supposizione che i popoli con pelle abbastanza chiara nei paesi molto caldi (e forse quelli con carnagione piuttosto scura nei paesi molto freddi) siano immigrati relativamente recenti, sia sulla base di valutazioni più penetranti delle relative realtà ambientali, che vedono ad esempio gli abitanti dell'America meridionale dimorare all'ombra delle foreste più a lungo che all'aperto, o gli abitanti delle regioni polari godere di una razione di UV moltiplicata dal riverbero della neve e dalla lunghezza estrema delle giornate estive, tanto che i "bianchi" in tali condizioni fanno oggi tipicamente uso di prodotti anti-scottature.

Altri hanno ancora rilevato la possibile valenza mimetica del colore della pelle nella foresta tropicale: e in effetti, nelle diverse razze delle specie animali allo stato selvatico (ad esempio, la tigre siberiana rispetto alla tigre di Sumatra) questa è la chiave di lettura più ovvia e frequente delle differenze di pigmentazione riscontrate.

In ogni modo, le ipotesi sul significato adattativo della pigmentazione nelle razze umane non si escludono l'un l'altra, e la loro stessa molteplicità rende tale valenza adattativa fortemente plausibile.

Similmente, una notevole massa di attente indagini sono state dedicate alla fisiologia di popolazioni umane adattate a certi ambienti particolarmente rigorosi, come per esempio gli indiani degli altopiani andini (freddo, scarsità di ossigeno) e gli eschimesi (169). Altri hanno confrontato le reazioni allo sforzo di giovani maschi bianchi e negri in condizioni di caldo-umido estremo (170). Tutte le indagini hanno constatato differenze statisticamente sicure nelle direzioni attese, a prescindere dall'adattamento acquisito o meno nel corso della vita individuale. Più empiricamente, è il negro primatista mondiale dei cento metri piani Ben Johnson a notare, in risposta ad una domanda durante un'intervista televisiva sulla assoluta dominanza di atleti di origine africana nella sua specialità olimpica, come la velocità nella corsa abbia per almeno una trentina di generazioni conservato in Africa una valenza ben superiore, in termini di probabilità di sopravvivenza e successo individuale (dalla caccia agli scontri tribali alla fuga dai predatori), a quanto sia accaduto alle razze abitanti in altri luoghi.

Analoghe considerazioni possono essere avanzate per un tratto quale il cosiddetto "quoziente di intelligenza", che a tante polemiche ha dato luogo, e che oggi sappiamo con certezza tanto essere oggetto di una forte componente genetica, quanto presentare curve di distribuzione nettamente differenziate su base razziale (171). La critica secondo cui i test non sarebbero culturalmente e razzialmente neutri, in quanto predisposti da studiosi "occidentali" e "bianchi", è infatti facilmente rovesciabile nella constatazione che ciò in effetti i test misurano sono esattamente... le caratteristiche selezionate nel medesimo ambito che esprime i test, e che sicuramente potrebbero avere avuto un significato adattativo diverso o nullo in un contesto diverso – in cui tratto razzialmente e selettivamente saliente poteva essere invece, poniamo, la resistenza statistica alla malaria, o l'empatia estatica con gli altri membri del gruppo nel corso di riti sciamanici, o appunto la velocità nella corsa.

L'esempio riporta per altro immediatamente alla constatazione già ricordata che gli ambienti umani sono per definizione, a partire dalla rivoluzione neolitica e dall'avvento del "secondo uomo", ambienti culturalmente modificati e determinati, in cui il valore adattativo in senso sociobiologico e le caratteristiche plasmate attraverso pressioni selettive di tipo culturale si mischiano inestricabilmente.

Ciò ha rilevanza anche per la demistificazione della contrapposizione "naturale"/"culturale", che sottintende normalmente il sospetto che venga attribuito a caratteristiche naturali, o comunque geneticamente programmate, ciò che in realtà sarebbe dipendente dall'influenza della cultura in cui ciascun essere umano è cresciuto (se non dall'"educazione", o dall'"ambiente sociale").

Infatti, mentre la creazione di culture costituisce propriamente la natura degli esseri umani, è ragionevole immaginare che gli stessi tratti identificanti di una macrocultura determinata siano figli non soltanto del "caso", ma di uno psichismo collettivo che è espressione (anche) di un'identità etnobiologica precisa; così che le caratteristiche della popolazione di riferimento – salvo il caso di individui allevati al di fuori della propria comunità di provenienza – sono doppiamente determinanti quanto al fenotipo individuale, e cioè sia per ciò che attiene al bagaglio genetico che l'individuo condivide con il resto del gruppo, sia per ciò che attiene appunto alle pressioni direttamente plasmatrici, nonché geneticamente selettive, di un ambiente "culturale" che a sua volta è espressione di tale popolazione e stirpe, e di nessun'altra.

Una conferma di tale circostanza l'abbiamo in particolare con riguardo ad una caratteristica umana sufficientemente "discreta" (ovvero con salti bruschi tra chi la possiede e chi no) come la lingua, che è certamente ed eminentemente caratteristica culturale.

Sappiamo infatti da Noam Chomsky [alias] e dalla linguistica moderna come la capacità di parlare sia programmata geneticamente nella specie umana, grazie alla disponibilità innata di una "grammatica universale" che deve essere attivata al massimo entro i tre o quattro anni di età attraverso l'apprendimento di una serie di "parametri" (o switch) che a loro volta definiscono la struttura di una lingua particolare tra tutte le altre. Sappiamo inoltre empiricamente che qualunque essere umano, estratto dalla sua comunità di provenienza, può essere allevato come madrelingua in qualunque idioma esistente. Come capita allora che sia una certa popolazione, e non altre, ad avere sviluppato una data lingua? O, in altri termini, perché le lingue non sono tutte uguali?

Pare inevitabile concludere che esiste un legame tra le caratteristiche che identificano la popolazione in questione rispetto a tutte le altre e quelle che sono le caratteristiche specifiche (pure per definizione oggetto non di ereditarietà genetica, bensì squisitamente culturale) della famiglia linguistica di cui la medesima popolazione sia stata la culla (172) – attraverso i consueti meccanismi, in questo caso solo pseudobiologici, di segregazione, deriva e selezione.

Ciò è altrettanto vero per quella che Darwin definiva "selezione sessuale", ovvero quella operante attraverso le preferenze dei potenziali partner riproduttivi. Mentre la sociobiologia ha dimostrato tali preferenze essere a loro volta dettate dalle "aspettative" dei geni del partner quando al successo riproduttivo della prole comune, le stesse preferenze sono fortemente determinate dalla conformità a ideali sociali, estetici, morali, culturalmente determinati, conformità che a sua volta garantisce tendenzialmente maggiori probabilità di successo riproduttivo alla propria prole all'interno della comunità in questione.

Tutto ciò ha poco a che fare, già nelle specie animali, con l'adattamento o il "miglioramento" nel senso in cui li interpretava Darwin. Già Konrad Lorenz notava come la selezione sessuale possa favorire l'affermazione di caratteristiche fisiche o comportamentali che provocano un pregiudizio ben identificabile con riguardo alle chances di sopravvivenza del singolo (173). D'altronde, le caratteristiche visive, olfattive, uditive, comportamentali dei membri di un gruppo possono facilmente determinare un fenomeno di "rinforzo" capace di enucleare facilmente una razza distinta – se non alla fine persino una specie diversa. La preferenza geneticamente determinata per alcune caratteristiche nei partner sessuali tende infatti ovviamente a rafforzare la segregazione del gruppo in cui si manifesta, e a rafforzare parallelamente la frequenza ed intensità delle caratteristiche stesse nel gruppo medesimo, in cui a loro volta tali preferenze diventeranno un vantaggio riproduttivo, in un circolo vizioso o virtuoso che sia.

Tutto ciò per la specie umana si colora di aspetti particolari, perché, come abbiamo visto, tale specie già con il "secondo uomo" modella culturalmente il suo ambiente, con riguardo a tutti i fattori che ne possono plasmare l'identità biologica. Nel "terzo uomo", il problema è reso ancora più complesso dal fatto che, come già visto in relazione al "pericolo disgenico", le caratteristiche che l'ambiente (artificiale) seleziona, o cessa di selezionare, possono non corrispondere affatto a quelle astrattamente desiderabili, foss'anche da un punto di vista umano, e non solo "darwiniano". Gli stessi meccanismi relativi alla selezione sessuale vengono d'altronde distorti nel caso della nostra specie in modo del tutto peculiare. Gli elementi tradizionali dell'abbigliamento, della profumazione, della cosmesi, dell'utilizzo di ornamenti simbolici, si compongono infatti sempre di più con i risultati ottenibili mediante l'utilizzo di trattamenti farmacologici, mesoterapici e chirurgici di vario genere, non esclusi i trapianti, che alterano ovviamente la "lettura del fenotipo" da parte dei possibili partner, ivi compreso per le caratteristiche che tendono ad identificare i tratti razziali più vistosi, quali il taglio degli occhi che le donne giapponesi si facevano cambiare chirurgicamente alla fine della seconda guerra mondiale per conformarsi ai caratteri somatici (e presumibilmente ai canoni estetici) dei vincitori, fino ad arrivare oggi all'alterazione della propria pigmentazione naturale richiesta ed ottenuta tra gli altri da personaggi come Michael Jackson.

Già negli anni settanta Dobzhansky [alias] notava comunque come secondo le vedute moderne la "selezione naturale" e "selezione sessuale" non sono più distinte nel senso in cui le vedeva Darwin. Il coefficiente di selezione, ovvero la differenza tra le idoneità "darwiniane" di genotipi diversi, misura infatti unicamente i tassi di trasmissione di certe componenti di questi genotipi da generazione a generazione, restando relativamente trascurabile il fatto che la trasmissione genica differenziale sia dovuta, in taluni casi, ad un maggior successo nell'accoppiamento, mentre, in altri, sia provocata da una mortalità o fertilità differenziale, oppure da uno sviluppo più accelerato, o da qualsiasi altro fattore. Le varianti genetiche favorite dalle risultanze di tutti questi fattori aumenteranno la loro frequenza nelle popolazioni, mentre quelle svantaggiate subiranno una diminuzione. Un ridotto successo nell'accoppiamento può essere compensato da una maggiore vitalità o fertilità, o viceversa.

Benché quasi tutti coloro che arrivano alla pubertà abbiano, nelle società primitive ed ancor più nella società moderna, l'opportunità di accoppiarsi e procreare, alcuni individui non soltanto possono accedere ad un maggior numero di partner, ma a partner di qualità migliore, e sono in aggiunta spesso in grado di assicurare alla prole con esso concepita condizioni migliori, che a loro volta ne aumentano la probabilità di sopravvivenza e successo riproduttivo. Abbiamo anche visto come nella società moderna i tratti genetici di questi individui possono benissimo non corrispondere affatto a caratteristiche funzionali alla sopravvivenza in condizioni diverse, o anche solo plausibilmente auspicabili ed accettabili per la maggior parte dei nostri contemporanei; e comunque possono senz'altro non rispecchiare nel loro insieme uno spettro di varianze razziali sufficienti a mantenere la flessibilità o la ricchezza della specie. Ciò che però qui importa è in quale misura la divergenza razziale delle popolazioni sia provocata da una selezione "direzionale"; ovvero il decidere se un dato tratto genetico sia influenzato dalla selezione; e ancora (e questo è un problema di più difficile soluzione) perché in differenti popolazioni siano favorite differenti varianti del medesimo tratto.

Lo stato delle nostre conoscenze in questo campo è tuttora assolutamente rudimentale; non ultimo, in relazione a ciò che concerne specificamente le razze umane, per il clima di sospetto e la scarsità di fondi che oggi ovviamente circondano le ricerche nel settore.

Sappiamo d'altronde che la risposta per ciò che concerne le razze di animali domestici è molto più semplice: tali tratti sono consapevolmente selezionati dall'allevatore, sulla base del materiale genetico posto a sua disposizione dalle linee germinali, di origine selvatica, presenti nella specie.

Ora, anche se il primo formarsi di razze umane risale indubbiamente al periodo dell'ominazione, ed è perciò molto più antico della nascita delle "culture spengleriane", è lecita l'ipotesi che almeno a partire dalla rivoluzione neolitica le razze umane come le conosciamo (o le abbiamo conosciute sinora) siano anche il frutto di un gigantesco esperimento di autodomesticazione umana, a sua volta oggettivamente mirante appunto alla selezione direzionale di caratteristiche culturalmente determinate. La "riscoperta" da parte di Platone di miti e norme in tal senso, che lo stesso considera ancestrali e già oscurati nella sua epoca, è al riguardo eloquente quanto alla antichità in ambito indoeuropeo della relativa consapevolezza (174); ma prima ancora Esiodo, o il Mahabharata [alias] indiano, o i miti di fondazione, anteriori alla dispersione ed al muro della scrittura, che ha messo in luce Dumézil, ben riflettono il definitivo passaggio, avvenuto da migliaia di anni, dai meccanismi "naturali" allo stadio cosciente e storico – sino a giungere nella nostra epoca al passaggio appunto allo stadio della autocoscienza o coscienza superiore.

La selezione direzionale non può d'altronde spiegare da sola né l'origine delle differenziazioni razziali, né esaurire la descrizione dei relativi meccanismi, che vedono un ruolo altrettanto importante giocato dalla deriva genetica. Tale fenomeno è stato studiato, con riguardo alla specie umana, soprattutto con riferimento a popolazioni fortemente isolate, e rimaste sostanzialmente al di fuori della rivoluzione neolitica sino alle soglie della nostra epoca. Alcuni autori hanno studiato alcune popolazioni amazzoniche (175), altri gruppi di aborigeni australiani (176). Al riguardo, in uno dei villaggi esaminati è stato constatato come addirittura un quarto della intera popolazione attuale possa essere fatta risalire a soli due individui, presumibilmente maschi dominanti o capitribù del passato (177).

È vero che in tali popolazioni, mentre le donne sono uniformemente esposte alla probabilità di una gravidanza e di rado vengono meno al compito assicurare la riproduzione, gli uomini sono caratterizzati da una varianza sensibilmente più elevata nelle prestazioni riproduttive. Ma la cosa non è sufficiente a spiegare il fenomeno, del resto ben descritto anche nelle popolazioni animali e vegetali ove sussistano condizioni di sufficiente segregazione. In particolare, la stessa identica situazione è stata osservata in... gruppi religiosi autosegregati negli Stati Uniti (178); benché la gente che vi appartiene pratichi presumibilmente una rigorosa monogamia, inevitabilmente si hanno variazioni nel numero dei figli per famiglia, e della percentuale di questi che resta malgrado tutto celibe. Con il trascorrere del tempo le variazioni, sommandosi, conducono alla diversificazione delle frequenze geniche, ovvero alla diversificazione razziale incipiente.

In contrasto con la selezione, che è un processo direzionale e deterministico, siamo qui in presenza di processi genetici stocastici o casuali: non solo tutta la popolazione umana attuale discende da una popolazione che anche solo diecimila anni fa era di due ordini di grandezza inferiore, ma innumerevoli linee genetiche in essa presenti si sono nel frattempo estinte, e continuano ad estinguersi ad ogni generazione. "Deriva genetica casuale", "cammino casuale", "principio del fondatore" ed "evoluzione non-darwiniana" sono alcuni dei molti nomi attribuiti a questi processi.

Nota Dobzhansky [alias]: «Le differenze razziali indotte ad opera della selezione naturale hanno, da un punto di vista biologico, un significato molto diverso da quelle imputabili alla deriva genetica. La selezione naturale rende in ipotesi le popolazioni differenzialmente adattate ad ambienti diversi. In altre parole, le differenze razziali che insorsero per selezione sono – o ad un certo punto furono – armonizzate alla vita in un certo tipo di circostanze. La situazione non è necessariamente identica con le differenze dovute alla deriva. Almeno all'inizio, può darsi che due popolazioni siano adattativamente equivalenti – e ciononostante ampiamente differenziate. Senza dubbio, è possibile che la selezione agisca sulle differenze originariamente neutre, e le inserisca in corredi ereditari adattivamente integrati. Selezione e deriva possono intrecciarsi nel corso dell'evoluzione delle razze» (179).

D'altronde, per chi dubitasse che le relative questioni siano "ideologicamente" indifferenti, basta ripercorrere i tempi del relativo dibattito. L'importanza attribuita al fattore stocastico (e perciò, in un senso non del tutto metaforico, al "destino") ha seguito un ciclo interessante. Il prestigio attribuito alla selezione naturale come agente nella diversificazione delle razze, e più in generale nell'evoluzione, toccò in particolare il fondo nella prima metà del Novecento, quanto la genetica cominciava ad afferrare i suoi concetti fondamentali, tanto che persino Haldane o Wright, i fondatori della cosiddetta teoria sintetica dell'evoluzione, finiscono per riconoscre tra il 1926 e il 1932 l'importanza fondamentale della deriva genetica casuale, talvolta addirittura definita "principio di Sewall Wright".

Molti altri autori, d'altronde, in particolare dell'Europa continentale, riconobbero il ruolo della deriva genetica come ipotesi utile nella spiegazione delle differenze tra organismi cui non possa essere facilmente attribuito alcun particolare valore in termini di sopravvivenza (o, più modernamente, in termini di successo riproduttivo), categoria in cui rientrano certamente numerose differenze razziali riscontrabili nella specie umana.

La reazione si manifestò poderosamente negli anni cinquanta e sessanta. Benché non potesse essere negato il ruolo teorico della deriva genetica, se ne dichiarò trascurabile la portata nelle popolazioni naturali, e quindi nell'evoluzione delle razze e delle specie, posto che a selezione ed adattamento viene attribuita, per la loro essenza deterministica, una valenza in un certo senso più "tranquillizzante" e "progressista" (dopo tutto le razze non sarebbero che conseguenze, seppure indirette e geneticamente fissate, dell'"ambiente") rispetto ad una identità emergente in quanto tale dall'intreccio tra il caso e la scelta – e perciò appunto dal destino.

Il relativo dibattito concerne in particolare le caratteristiche razziali, ma, come è ovvio, ha portata più generale con riguardo alla storia naturale. Ad ogni modo, già dalla fine degli anni sessanta l'importanza della deriva genetica non ha più potuto essere negata, non da ultimo a seguito della constatazione di come la maggior parte delle micromutazioni non abbiano alcun effetto sull'adattamento degli organismi, e perciò la loro diffusione ed affermazione debba necessariamente avere a che fare con la deriva casuale del pool genetico della popolazione (180); così che oggi il ruolo della deriva è unanimente riconosciuto, in particolare dai biologi molecolari e da chi si occupa della genetica delle popolazioni. Del resto, in questo senso in Darwin stesso si trovano sorprendentemente accenni che oggi sarebbero considerati "non-darwiniani", come quando lo stesso scrive nell'Origine della specie: «Le variazioni non utili né dannose non sarebbero influenzate dalla selezione naturale e verrebbero lasciate quale elemento fluttuante, come forse si osserva nelle specie definite polimorfe» (181).

In effetti, se come è vero in tutte le popolazioni di esseri viventi sessuati la presenza di caratteristiche selettivamente neutre è soggetta a fluttuazioni, tali caratteristiche sono inevitabilmente soggette ad una possibile deriva genetica, ovvero al fatto che alcune delle variazioni andranno perdute in certe popolazioni, si fisseranno definitivamente in altre, e resteranno fluttuanti in altre ancora, dato un numero di generazioni sufficientemente lungo. Tale numero, più esattamente definito come il numero medio di generazioni comprese tra l'origine e la fissazione di un gene mutante adattivamente neutro, come illustrato da Kimura (182), è prossimo a 4N(e), essendo N(e) la popolazione efficace in senso genetico.

Ciò è importante perché anche tenuto conto dell'incidenza combinata dei fattori selettivi "naturali" i numeri in questione richiedono, per giungere al grado di differenziazione riscontrabile tra le razze umane (183), che le popolazioni dei "fondatori" si siano ripetutamente ridotte a relativamente poche unità nel corso della storia e/o che la popolazione effettivamente partecipante al pool genetico delle generazioni successive si sia mantenuta a lungo su valori molto bassi. In altri termini, le razze presenti devono per forza derivare da gruppi modesti e ben delimitati, e/o da gruppi il cui differenziale riproduttivo dei vari membri era altamente differenziato. Il che significa ovviamente segregazione genetica (endogamia) (184) e selezione orientata, quali abbiamo già visto implicite nella diversificazione culturale dei gruppi razziali. Cosa significa tutto ciò?

Oggi la specie umana, come altre specie animali e vegetali sessuate, è divisa in razze principali (sottospecie), razze secondarie e popolazioni locali. La suddivisione in questione è strettamente legata inoltre, in modo complesso, ad altre differenziazioni tipicamente umane (ovvero culturali), quali quelle linguistiche, politiche, religiose, etc., che con essa interagiscono nella definizione delle comunità concrete e diversificate di cui l'umanità si compone. Tale situazione può essere "approvata" o "disapprovata", ma costituisce incontrovertibilmente l'eredità di cui siamo portatori.

Chi ritenga desiderabile il suo mantenimento e sviluppo – o anche semplicemente non accetti di ignorare stolidamente il prezzo da pagare per ribaltare e rinnegare tale eredità, ad esempio in termini di ricchezza della specie e di chances di sua sopravvivenza a lungo termine – non può evitare di confrontarsi con le condizioni sulla cui base tale tipo di suddivisione abbia potuto affermarsi e mantenersi in passato.

È facile ad esempio constatare che se la separazione geografica ha sempre giocato un ruolo relativo in termini di segregazione (e di riflesso di differenziazione) delle popolazioni umane il suo ruolo è oggi progressivamente vanificato.

In aggiunta alla mobilità spaziale, l'entropia culturale, con rimozione delle relative barriere, ad esempio linguistiche, non è solo oggetto di progetto ideologico preciso – che del resto promuove apertamente il melting pot anche genetico (pur nella contraddizione con la contemporanea affermazione di una supposta "irrilevanza" delle differenze etno-razziali) – ma costituisce un effetto diretto della globalizzazione delle comunicazioni, e di nuovo dell'eliminazione delle distanze.

La crescente uniformizzazione dell'ambiente umano su scala planetaria (dalla dieta, alla climatizzazione, alle abitudini di vita, all'alterazione, in chiave uniforme e come abbiamo visto potenzialmente disgenica, delle pressioni selettive) parimenti tende a rimuovere gli effetti della selezione "direzionale", e converge con la mescolanza generalizzata direttamente promossa dall'"immigrazionismo" contemporaneo (185). D'altra parte, come nota Gregory Stock [alias], «noi siamo il risultato di una complessa interrelazione tra i nostri geni e il nostro ambiente, e i due sono interdipendenti. Le nostre tendenze genetiche possono conformare il nostro ambiente pilotando le nostre scelte, e le influenze ambientali possono attivare o meno certe espressioni dei nostri geni. Ciò significa che tanto più una società elimina con successo variazioni estreme nell'ambiente (ad esempio, fornendo a tutti accesso ad una alimentazione ed educazione di base) tanto maggiormente i geni diventeranno più, non meno, importanti nella nostra conformazione» (186).

In queste circostanze, non solo è chiaro che la ricchezza della specie in termini di varianza tra le popolazioni sarebbe "naturalmente" destinata, sia pure asintoticamente, a scomparire; ma risulta altresì evidente che nuove razze non potrebbero mai più nascere (a parte l'ipotesi della dispersione della specie su pianeti diversi), se non in scenari davvero post-atomici, ed ancora in tempi geologici 187.

La questione non è più se è vero che "gli uomini sono diversi e resteranno sempre tali", oppure se è vero che "gli uomini sono uguali, o almeno lo devono diventare". Il punto è che oggi la sopravvivenza e lo sviluppo della diversità sono oggetto di una responsabilità unicamente umana, e possono essere solo "artificiali", frutto di una scelta autocosciente, di tipo fondamentalmente politico, affettivo ed estetico. Opporsi davvero alla globalizzazione significa non solo uscire radicalmente dalla sfera mentale ugualitaria ed umanista, ma anche dall'illusione di poter ritardare per più di poche generazioni da posizioni puramente reazionarie i processi in corso.

Cavalli-Sforza [alias], la cui opera è assolutamente preziosa dal punto di vista scientifico, ma la cui scelta di valori personale, malgrado le accuse di cui è stato talora oggetto, è assolutamente conforme all'ideologia dominante, conclude Geni, popoli e lingue (188) come segue: «L'avvenire genetico dell'uomo è molto poco interessante [corsivo nostro], perché è probabile che non ci saranno grandi cambiamenti, e certo meno di quanti ne siano avvenuti sinora (189). [...] La forza che cambia in modo più importante la nostra biologia è la selezione naturale, che agisce tramite le differenze di mortalità e fertilità tra gli individui. La medicina ha quasi abolito la mortalità prima dell'età riproduttiva, e la fertilità dovrà abbassarsi a valori molto modesti per dominare l'esplosione demografica che ci minaccia. Se tutte le famiglie avessero due figli e nessuna mortalità prima della riproduzione, la selezione naturale scomparirebbe completamente. La deriva genetica – un'altra causa dell'evoluzione – è quasi completamente congelata, all'attuale livello di densità della popolazione. Le mutazioni possono essere considerate, in questo momento, pericolose, in quanto causa di mutamenti del DNA potenzialmente nocivi, ed è perciò probabile che verranno limitate ed evitate per quanto possibile. A questo punto la trasformazione biologica dell'uomo si arresta. Ciò sarà vero, naturalmente, se l'uomo non avrà la follia di cambiarsi volontariamente [corsivo nostro]. Per fortuna le possibilità dell'ingegneria genetica nell'uomo sono ancora pressoché nulle (190). Altrimenti, potrà esservi sempre qualche pazzo che voglia creare razze migliori. In un futuro ancora più lontano ci vorranno controlli speciali, come quelli attuali per le esplosioni atomiche, per essere sicuri di risparmiare ai nostri discendenti gli incubi del Mondo Nuovo di Huxley [alias] (191)? Per fortuna [ed ecco che viene di nuovo ripreso il tema della fede in questa versione laica della Provvidenza, e nel fatto che possa essere evitato ciò che in tutta evidenza è per l'autore moralmente "insopportabile"] sarebbe molto difficile tenere a lungo nascosto un vivaio di esseri umani destinati a preparare un'umanità diversa per il mondo nuovo».

E ancora: «Vi è comunque un grande cambiamento genetico che sta per avere luogo nella specie umana, a causa delle migrazioni che portano ad una mescolanza continua e complessa. Alla fine di questo processo, e se – come sembra probabile – esso continuerà, si avrà un'umanità meno varia in un senso molto preciso: diminuiranno le differenze tra i gruppi. Vi saranno meno ragioni per il razzismo, il che sarà un vantaggio. In questo processo, comunque, ci sarà un cambiamento del tipo medio della popolazione. Almeno oggi, i vari gruppi etnici mostrano tassi di riproduzione molto diversi. Gli europei sono demograficamente stazionari, o quasi, mentre le popolazioni di molti dei paesi non industrializzati sta aumentando ad una velocità che non si è mai vista sulla Terra. Il tipo europoide, dunque, diminuirà di frequenza relativa» (192)

A tali conclusioni è facile opporre che è proprio nel Mondo Nuovo di un progetto di umanità "normalizzata" su scala planetaria che siamo oggi immersi sino alle narici; e che il controllo umano e politico del destino biologico della specie e delle sue popolazioni, sino alla manipolazione diretta del corredo genetico e delle linee germinali, potrebbe certamente agire in funzione di un'accelerazione del processo, ma parimenti potrebbe essere (e in un certo contesto ideale certamente sarebbe) indirizzato a scopi esattamente opposti.

D'altronde, a tale normalizzazione, e in particolare all'estinzione (salvo un modesto riassorbimento) di alcune componenti etniche dell'umanità contemporanea, in particolare la... nostra, non è possibile opporre unicamente la "difesa" dei fattori tradizionali che le hanno prodotte.

Il genio è fuori dalla bottiglia. La tecnologia dei trasporti esiste, così come l'uniformizzazione degli ambienti; le barriere naturali hanno perso di significato, non solo grazie al predominio globale dell'ideologia universalista, ma all'estensione globale delle comunicazioni audiovisive, con le conseguenze che abbiamo visto in termini di tendenza al monoglottismo planetario; parimenti, difficilmente sono destinati a scomparire i portati della medicina moderna o la disponibilità di metodi anticoncezionali sicuri e affidabili.

Va del resto sottolineato che questo è non solo un frutto diretto del compimento dell'avventura del "secondo uomo", ma un portato dello specifico europeo nel quadro di quest'ultima. Scrive Spengler: «La cultura faustiana dell'Europa forse non è l'ultima [tra le "culture superiori" del secondo uomo] ma è certamente la più potente. [...] E' anche la più tragica di tutte. [...] Una volontà di potenza, che irride tutti i limiti di tempo e di spazio, che ha per meta lo sconfinato, l'infinito, assoggetta interi continenti, e da ultimo abbraccia tutto il globo con le forme del suo traffico e delle sue comunicazioni e lo trasforma con la violenza della sua energia pratica e i prodigi dei suoi processi tecnici» (193).

Perciò, le razze e le popolazioni e le culture umane, se continueranno ad esistere, non potranno come dicevamo che essere pienamente artificiali, in un senso ulteriore rispetto a quello già insito nella "natura culturale" che abbiamo visto propria in generale dell'uomo: potranno cioè esistere solo in quanto, come sottolinea Cavalli-Sforza, direttamente e deliberatamente progettate e create, sulla base di criteri, non "razionali", ma direttamente dipendenti dalla visione del mondo, e dalle scelte affettive ed estetiche, dei loro artefici.

Tale possibilità è ben presente anche a dichiarati fautori della fine della storia filosoficamente ben più attrezzati di Cavalli-Sforza. E' così un autore di lucidità indiscutibile come Jürgen Habermas a mettere in guardia contro quello che egli considera lo "scenario spettrale" di un "comunitarismo genetico", in cui diverse culture potrebbero portare avanti una «auto-ottimizzazione genetica del genere umano in direzioni diverse, finendo così per mettere in discussione l'unità della natura umana come fondamento rispetto al quale tutti gli uomini avevano potuto finora intendersi, e mutuamente riconoscersi, quali membri di una stessa comunità morale» (anche se in realtà ciò che Habermas presenta qui come stato "naturale" e tradizionale è ciò cui è semmai proprio il mondo contemporaneo a tendere, per la prima volta nella storia) (194).


La "tentazione eugenetica"

La "frattura" della storia che stiamo vivendo, e le scelte di campo che questa impone all'uomo e alle società contemporanei, si manifesta prima come inquietudine, poi come possibile risposta con la nascita ed affermazione della tendenza storica sovrumanista (195), ma tende a diffondersi generalmente nella prima metà Novecento, ed in tale ambito è innegabile che essa si presenta variamente intrecciata con le espressioni direttamente politiche incarnate, in vari stadi, nelle rivoluzioni fasciste e nelle loro tendenziali aspirazioni a farsi carico dell'identità e dell'avvenire "millenario" delle comunità di riferimento (nazionale, culturale ed etnica) (196). In tal senso, non c'è dubbio che la teoria e la politica nazionalsocialista, pur sotto vari profili più che ambigue (197), rappresentano un punto di rottura, che conduce rapidamente ad una polarizzazione delle posizioni (198), ed in parte ad un'oscuramento e rimozione di tutta la questione nella seconda parte del ventesimo secolo.

Tali elementi sono d'altronde regolarmente ripresi, a livello propagandistico, come specifico anatema contro ogni possibile approfondimento e dibattito pubblico sulle relative questioni; e ciò attravero il richiamo rituale a provvedimenti o prese di posizione dell'epoca, tuttora evocati a distanza di oltre mezzo secolo come interlocutori immaginari in un dibattito tra il Bene umanista, egualitario e antifascista, e il Male in essi incarnato esemplarmente, così da paralizzare e squalificare e rendere "impresentabile" qualsiasi posizione eterodossa (199).

In effetti, l'azione governativa nazionalsocialista si occupa già di tutti o quasi gli aspetti e strumenti di intervento noti all'epoca con riguardo al futuro della popolazione di riferimento, dall'anamnesi familiare, all'orientamento dei matrimoni, alla sterilizzazione ed aborto selettivi, all'assistenza alla maternità, alla politica demografica, alle politiche in materia di adozione, concessione della cittadinanza o immigrazione, all'eutanasia, a tutte le altre misure più in generale connesse alla autogestione da parte della comunità della propria dimensione anche "biologica"; ivi compreso quanto finalizzato a promuovere o rafforzare alcune caratteristiche, a rarefarne altre, a rimuovere o controbilanciare paventati effetti disgenici (ad esempio, la possibile selezione negativa di caratteristiche quali il coraggio o lo spirito di servizio), a proteggere ed enfatizzare la relativa identità collettiva nelle direzioni giudicate desiderabili.

È durante l'era nazionalsocialista che Konrad Lorenz scrive ad esempio nel 1940 (come i vincitori non mancheranno più tardi di rimproverare al premio Nobel di fisiologia e medicina, nonché padre fondatore dell'etologia moderna): «Bisognerebbe, per la preservazione della razza, considerare un'eliminazione degli esseri per noi moralmente inferiori ancora più severa di quanto non lo sia oggi. [...] Dobbiamo – e ne abbiamo il diritto – affidarci ai migliori di noi e incaricarli di compiere una selezione che determinerà la prosperità o l'annientamento del nostro popolo» (200). Ed ancora: «Nei tempi preistorici la selezione in base alla durezza, all'eroismo, all'utilità sociale era fatta solo dai fattori esterni ostili. Bisogna che questo ruolo venga ripreso oggi da un'organizzazione umana, altrimenti l'umanità, in mancanza di fattori selettivi, sarà annientata dalla degenerescenza dovuta all'addomesticamento» (201). Nello stesso senso, Othmar von Verschurer, direttore dell'Istituto di Antropologia, Ereditarietà Umana e Eugenetica di Berlino, il cui prestigio scientifico non è messo in discussione neppure da Jacquard che lo cita (202), notava nel 1943: «Il capo dell'etnoimpero [Volksreich] tedesco è il primo uomo di Stato che abbia fatto dei dati della biologia ereditaria un principio direttivo della condotta dello Stato» (203).

Quello che è tra l'altro interessante dell'atteggiamento fascista in generale, e nazionalsocialista in particolare, su tali questioni, è l'antidogmatismo e l'empirismo dimostrato sulle questioni in oggetto, che vede dibattere, adottare, sospendere o ripristinare misure diverse; finanziare ambiziosi programmi di ricerca; e riprendere indifferentemente posizioni tradizionalmente considerate "di destra" (così come l'esclusione forzata delle devianze indesiderabili, o il rifiuto di mobilitare la manodopera femminile ancora in una fase molto avanzata della guerra, o la difesa della famiglia), o "di sinistra", come quando Hitler nelle Conversazioni a tavola dichiara di essere a favore del "libero amore", quando qualche teorico ipotizza l'abolizione a fini demografici ed eugenetici della monogamia nel dopoguerra, o quando viene dal partito pubblicamente difeso il diritto, e il dovere, delle donne tedesche di procreare figli alla nuova Germania (il cosiddetto Führerdienst) anche fuori dal matrimonio – a costo di suscitare in quest'ultimo caso l'unica pubblica manifestazione antifascista di tutto il periodo, segnatamente quella cattolica organizzata a Monaco dalla Rosa Bianca.

La questione propriamente razziale è più complessa, ma certamente centrale. Sin nel suo discorso al congresso del partito tenutosi a Roma nel 1921, Benito Mussolini dichiara: «Intendo dire che il fascismo si preoccupi del problema della razza. I fascisti devono preoccuparsi della salute della razza, con la quale si fa la storia» (204).

Il concetto fascista di "razza" è da un lato trattato come un concetto squisitamente empirico, dall'altro – particolarmente in ambito nazionalsocialista, ma non solo – viene assunto come mito politico-religioso utile a definire un'identità, ovvero in tale prospettiva a scegliere delle radici cui appartenere in funzione dell'avvenire che ci si vuole creare (205). Del resto, è normale che a livello politico il "popolo" significhi qualcosa di più e di diverso dalla "popolazione" che studia il biologo o il demografo, così come è cosa diversa in senso politico la nazione rispetto al mero concetto etnografico, o la classe rispetto al mero concetto sociologico.

In tale contesto, il mondo fascista si riallaccia innanzitutto ad una specificità ed identità europea, assunta sia attraverso il richiamo alle sue origini culturali ultime (la romanità dei primordi, la classicità, le tradizioni celtiche, germaniche e indoarie) che al suo substrato biologico (appunto europoide, o "ariano") (206). In tale ambito, il nazionalsocialismo individua innanzitutto a livello propriamente politico una comunità di riferimento nazionale, tedesca, e più ampiamente etnoculturale, germanica, che costituisce al tempo stesso il soggetto e l'oggetto primario dell'azione storica promossa. Nell'autodeterminazione e nel progetto che in tale soggetto si incarna, la politica che si afferma durante il nazionalsocialismo promuove poi la protezione e lo sviluppo all'interno della comunità popolare tedesco-germanica della componente "nordica" (Aufnordnung, "nordizzazione"), definibile come una serie di tratti genetici presenti in vari gradi all'interno della razza europoide, che definiscono una sottorazza in tale ambito (207), e che vengono giudicati desiderabili o "nobili" per ragioni di tipo sostanzialmente estetico, affettivo e culturale (208). Ciò lascia in sostanza impregiudicato il pieno riconoscimento delle altre componenti razziali presenti nella sfera tedesco-germanica (e più in generale della razza europea di cui questa è parte), del loro contributo storico all'identità comune, e della loro piena partecipazione alla comunità popolare – come del resto è reso ovvio dal fatto che la classe dirigente nazionalsocialista stessa rappresentava uno spaccato fedele della comunità stessa (con incluse componenti razziali alpine, faliche, dinariche, mediterranee), né alcuno dei suoi esponenti ha mai pensato che le cose stessero altrimenti (209).

Che questo fosse, al di là di pretese che gli stessi nazionalsocialisti consideravano puramente propagandistiche, il quadro di riferimento generale, è confermato anche dall'humus culturale da cui il movimento nasce. Così Jünger nell'Operaio (210) parla esattamente di una Wille zur Rassenbildung, "volontà di creazione di una razza" (211).

Della razza ariana polemicamente non sono considerati parte per definizione gli ebrei (212), malgrado il fatto che in realtà i membri delle comunità ebraiche dell'Europa occidentale siano quanto meno razzialmente misti. E ciò per ragioni essenzialmente politico-culturali, in relazione cioè al rifiuto che l'appartenenza alla comunità ebraica esprimerebbe rispetto a quella che il nazionalsocialista considera identità europea, al di là della proporzione delle componenti genetiche che possono incarnarsi nel singolo individuo; ovvero alla scelta che tale appartenenza comporta in termini di "comunità etnoculturale di riferimento" (213).

Abbastanza significativamente, il nazionalsocialismo considera viceversa "ariana" ed europoide, benché razzialmente mista quanto e più degli ebrei europei, almeno parte della popolazione dell'India settentrionale; e non ha difficoltà a riconoscere che la percentuale propriamente nordica della popolazione norvegese è nettamente più significativa di quella presente nelle frontiere del Reich, o a ipotizzare la germanizzazione di immigrati europei con caratteristiche desiderabili; ma non si sognerebbe certo di considerare né "nordico", né anche solo membro della comunità popolare germanica, un ebreo dolicocefalo, con gli occhi azzurri, i capelli biondi e il naso greco – ebreo cui del resto basta talora una goccia di "sangue", specie dal ramo materno, per sentirsi sufficientemente connesso alla stirpe ed identità abramitica (214).

Nell'ambito del programma descritto, il ripristino o la creazione di un "orgoglio di stirpe" e di una "coscienza razziale" nella comunità tedesco-germanica, o nelle altre comunità di riferimento dei diversi movimenti fascisti europei, rappresenta come è ovvio un tassello fondamentale, ed in effetti tutti i movimenti in questione – che pure si mostrano sovente nei propri esponenti molto meno provinciali della media dell'epoca, e profondamente interessati alle culture altrui – incoraggiano apertamente l'etnocentrismo. Da qui la propaganda sulla propria rispettiva "superiorità", che in realtà in un contesto relativista ed antiuniversalista si risolve integralmente nella prospettiva della comunità di appartenenza; così che, a fronte di un'alta considerazione e ammirazione per il mondo arabo (altrettanto e più semita nella sua composizione etnica di quello ebraico!) o per quello giapponese ed orientale in generale, nessuno si sognerebbe di pensare ad esempio che tali mondi dovrebbero promuovere il meticciato con la razza (e la cultura) europea, o considerare quest'ultima come un modello "superiore" di caratteristiche da imitare e selezionare nei rispettivi ambiti.

Ciò d'altronde spiega anche come il Reich ritenga "esportabile" l'antisemitismo – che è ritenuto dai nazionalsocialisti un problema politico-razziale dell'intero "mondo ariano" – mentre consideri unicamente affari interni alla comunità tedesca (e poi germanica) su cui insiste gli orientamenti ed i progetti relativi alla "autodeterminazione" razziale di quest'ultima (appunto la "preferenza nordica" espressa dalla maggioranza dei dirigenti tedeschi dell'epoca).

Il tema della razza viene comunque declinato in modo diverso e variegato dai vari altri movimenti tedeschi, dai vari ambienti politici e scientifici del regime stesso, e dai vari movimenti e regimi fascisti degli altri paesi, così che le eccessive generalizzazioni e semplificazioni contemporanee appaiono sovente del tutto arbitrarie (215).

Ciò che giova però sottolineare ancora una volta è come la determinante influenza sovrumanista che a seconda dei casi è più o meno consciamente presente in tali ambito (216) fa sì che le preoccupazioni di tipo etno-razziale ed eugenetico vi vengano regolarmente declinate - a differenza di quanto accadeva ed accade tuttora nella sfera culturale americana ed in generale "democratica" - secondo la prospettiva, intrinsecamente relativista, di una soggettività popolare e di un progetto storico collettivo miranti a competere e ad affermarsi rispetto ad altre prospettive ed identità omologhe, piuttosto che a negarle.

Risulta infine interessante come normalmente il piano biopolitico sia quello dove allo Stato – certo ad esclusione del "problema ebraico", specie in relazione al suo precipitare nella temperie bellica (217) – viene affidata essenzialmente un compito educativo, più che legislativo, amministrativo o repressivo. L'anamnesi familiare, ad esempio, viene incoraggiata, ma esclusivamente nel caso delle SS i suoi risultati in qualche modo influenzano direttamente la libertà di scelta in campo matrimoniale. La campagna contro il fumo, all'epoca alquanto avveniristica, non si traduce in alcuna forma di proibizionismo. La "dottrina delle razze" (Rassenkunde) diventa materia di insegnamento scolastico, ma non si riflette in alcuna diversificazione dei diritti politici o civili dei cittadini del Reich sulla base della sottorazza di appartenenza, cosa che avrebbe ovviamente compromesso la desiderata coesione della comunità popolare; e in Germania una siffatta diversificazione neppure si verifica in materia demografica, a differenza della Roma augustea (dove l'emancipazione femminile era legata alla nascita del terzo figlio o della più modesta pressione esercitata al riguardo nell'Italia fascista, in particolare a livello fiscale con la cosiddetta "tassa sul celibato".

Più sottilmente, un'idea diffusa era anche che la modificazione dei valori dominanti e conseguentemente del successo relativo degli individui all'interno della comunità (ad esempio, nello spostamento dell'importanza sociale relativa della capacità di accumulare mezzi di scambio sotto forma di denaro rispetto a coraggio, prestanza, lealtà, bellezza, spirito di servizio o combattività) finisse per influenzarne la composizione anche biologica attraverso un vantaggio riproduttivo differenziale delle componenti genetiche favorite.

Se questo schizzo tiene certo poco conto di contraddizioni, equivoci e deviazionismi che è storicamente facile documentare, la campagna propagandistica di parte antifascista relativamente all'eugenetica e alla biopolitica nazionalsocialista resta d'altronde molto dubbia sotto vari profili.

Fatti salvi ulteriori possibili approfondimenti storiografici che esulano dallo scopo di questo saggio, a tale operazione possono essere opposte, con riguardo alle prese di posizione nazionalsocialiste (e latu senso fasciste), alcune ipotesi di lavoro che meriterebbero maggiore attenzione, e che vanno nel senso di una "storicizzazione" delle posizioni stesse, non per invocare dal punto di vista umanista improbabili giustificazioni o attenuanti delle stesse, la cui condanna in tale prospettiva è del tutto giustificata, ma semplicemente per comprenderne meglio la natura e la portata.

In particolare, le analisi pubblicate sull'argomento raramente tengono conto delle seguenti considerazioni:
- quello che di tali posizioni e proposte (del resto alquanto variegate) viene additato come ridicolo e superato anche al di fuori da una scelta di valore pregiudiziale in senso antifascista può essere legato semplicemente allo "stato della tecnica", ovvero rispecchiare le conoscenze, le mode e gli strumenti scientifici e culturali dell'epoca; in tal senso meriterebbe di essere meglio analizzato quanto in esse è propriamente legato a presupposti teorici nazionalsocialisti e fascisti e quanto semplicemente alla temperie storica ed alle teorie degli anni venti e trenta;
- alternativamente, altre posizioni concretamente assunte da Tizio o Caio possono talora non discendere affatto dall'ideologia di riferimento, ma anzi essere con essa in contrasto, e derivare da influenze di altra matrice, influenze di cui ovviamente nessun regime politico per quanto radicale e totalitario è immune;
- altre scelte o progetti o preferenze (ad esempio la "preferenza nordica" in Germania) ancora possono essere considerate relativamente arbitrari nell'ambito della nuova prospettiva aperta al riguardo, ciò che è essenziale consistendo invece proprio nell'opzione storica e politica per il fatto di avere scelte e progetti collettivi al riguardo anzichenò;
- infine, talune posizioni, che apparivano a cavallo tra i due secoli scorsi del tutto plausibili a personaggi di orientamenti politici e filosofici disparati, vengono oggi percepite come "squalificate" e "criminalizzate", più che per loro una "intollerabilità" o "assurdità" intrinseca, esattamente e soltanto per il legame che si è stabilito tra esse e il nazionalsocialismo.

In ogni modo, gli aspetti suddetti si inseriscono poi in un complessivo progetto di creazione di un uomo nuovo che investe integralmente anche gli aspetti "ambientali" del suo quadro di vita, per esempio dal punto di vista ecologico, urbanistico, psicologico, sanitario, sociale, educativo, etc., e di cui le tematiche eugenetiche non sono che una componente (218).

D'altronde, in campo biopolitico vari temi sono suscettibili di letture diverse, che i regimi fascisti non hanno mancato di sfruttare propagandisticamente e tatticamente, magari facendo leva sulle contraddizioni interne della tendenza umanista comunque culturalmente dominante. La previsione di reati connessi all'aborto e alla propaganda della contraccezione nel Codice Rocco (espressivamente ricompresi sotto un titolo che fa espresso riferimento alla "sanità della stirpe"), sono ovviamente coerenti con una politica volta al mantenimento ed allo sviluppo della demografia della comunità di riferimento, ma si trovano anche a soddisfare tradizionali posizioni cattoliche, in cui tali pratiche sono condannate proprio in quanto espressione... di un "blasfemo" controllo da parte dell'uomo sulla sua propria biologia.

Similmente, l'uso della sterilizzazione o dell'eutanasia per limitare il perpetuarsi e la propagazione di caratteristiche suppostamente disgeniche ben può essere difeso e promosso anche in rapporto a considerazioni di tipo "umanitario", edonista e fondamentalmente individualista (quali quelle oggi avanzate dal Partito Radicale), che rappresentano il contrario esatto dei nuovi valori anche su tale piano affermati.

La percezione stessa delle questioni sopra discusse è oggi del tutto oscurata da una rimozione, falsificazione e demonizzazione che rende difficoltoso ripercorrere la storia delle idee sotto tale profilo, che pure riserva a chi sia interessato a percorrerla qualche sorpresa. Ma i documenti di tale storia ovviamente esistono ancora.

Jeremy Rifkin, per "denunciare" le profonde radici delle concezioni in discussione, apre deliberatamente il capitolo intitolato "Una civiltà eugenetica" de Il secolo biotech con una citazione "scioccante": «Un giorno noi tutti realizzeremo che il primo dovere di ogni buon cittadino, uomo o donna, di giusta razza, è quello di lasciare la propria stirpe dopo di sé nel mondo; e che, nello stesso tempo, non è di alcun vantaggio consentire una simile perpetuazione di cittadini di razza sbagliata. Il grande problema della civiltà è di riuscire ad ottenere, nella popolazione, l'aumento degli elementi di valore rispetto a quelli di poco valore o che risultano addirittura nocivi. [...] Per raggiungere questo obbiettivo è indispensabile prendere piena coscienza dell'immensa influenza esercitata dalla ereditarietà... Spero ardentemente che agli uomini disonesti venga impedito del tutto di procreare; e che ciò avvenga non appena la cattiva natura di questa gente sia stata sufficientemente provata. I criminali dovrebbero essere sterilizzati e ai malati di mente dovrebbe essere vietato avere dei figli. [...] È importante che solo la brava gente si perpetui».

Queste frasi non sono messe in bocca da qualche film hollywoodiano ad un ufficiale delle SS da fumetto, ma sono tratte da dichiarazioni del 1913 del ventiseiesimo presidente degli Stati Uniti d'America, Theodore Roosevelt (219)!

Del resto, dalla fine dell'ottocento alla Depressione, quasi la metà dei genetisti degli USA, paese teoricamente più lontano, per la propria stessa identità storica, dalle nuove idee erano coinvolti in un modo o nell'altro, secondo quanto riporta Kenneth Ludmerer (220), nel movimento eugenetico. Secondo Rifkin, ciò è del resto facilmente spiegabile con la convergenza da un lato delle preoccupazioni dell'élite Wasp, white-anglosaxon-protestant, di trovare giustificazioni "ideologiche" al proprio potere nonché ricette per perpetuarlo; dall'altro, con il tentativo di accademici e politici di trovare spiegazioni al fallimento dei propri progetti di riforma sociale.

Molti, ricorda Rifkin, erano già all'epoca allarmati per quello che consideravano essere un «declino della qualità dell'ereditarietà del popolo americano», e gli scienziati assunsero ruoli leader nella causa genetica nella speranza di «poter aiutare a invertire la tendenza». Michael F. Guaire giunse sino a riconoscere che «il destino della nostra civiltà dipende da questo problema» (221) (impregiudicata la questione del fatto a quale "civiltà" lo stesso potesse fare riferimento, e di che punto di vista che se ne possa avere).

Il famoso genetista Edwin G. Conklin, ricorda sempre Rifkin, osservò che «sebbene la nostra riserva umana includa alcune delle persone più intelligenti, morali e progressiste al mondo, questa include anche un numero sproporzionatamente grande delle peggiori categorie di persone» (222). Il Prof. Herbert S. Jennings della John Hopkins University ebbe a sua volta modo di far presente al pubblico americano la sua opinione secondo cui «le preoccupazioni del mondo e i rimedi a queste preoccupazioni risiedono fondamentalmente nelle diverse costituzioni degli esseri umani. Le leggi, le abitudini, l'educazione, l'ambiente circostante sono creazioni degli uomini e riflettono la loro natura fondamentale. Tentare di correggere queste cose è come curare solamente i sintomi specifici. Per andare alle radici dei disturbi, deve essere prodotta una stirpe migliore di uomini, una stirpe che non dovrà contenere le razze inferiori. Quando una stirpe migliore sarà stata creata, leggi, usanze, educazione e condizioni materiali si prenderanno cura di se stesse» (223).

Nel 1910, Charles B. Davenport, del Dipartimento di Genetica del Cold Spring Harbor Laboratory, New York, spinse la moglie di un famoso industriale a fornire i fondi per istituire il primo ufficio americano di registrazioni eugenetiche. Secondo Davenport, l'entusiasmo della finanziatrice per il progetto era dovuto al fatto di essere «cresciuta tra cavalli di razza, i quali la aiutarono ad apprezzare l'importanza dello studio dell'ereditarietà e di una riproduzione umana ben controllata» (224).

A partire dallo stesso anno, società eugenetiche sorsero nelle città di tutti gli Stati Uniti. Fra le più influenti, ricorda sempre Rifkin, c'erano la Società Galliano di New York e le Società di Educazione Eugenetica di Chicago, St. Louis, Madison (Wisconsin), Battle Creek (Michigan) e San Francisco. Nel 1913 venne fondata l'Eugenic Association e nel 1922 l'American Eugenic Committee (più tardi noto come American Eugenics Society [alias).

In effetti, come sottolineano sia Jacquard che Rifkin, tale movimento arrivò talora arimettere in discussione alcuni postulati fondamentali della società americana, come quando William McDougall, studioso inglese poi divenuto direttore del Dipartimento di Psicologia dell'Università di Harvard, preoccupato che la democrazia politica tradizionale rappresentasse un fattore di affermazione delle «razze inferiori» rispetto a quelle "superiori", auspicò apertamente un sistema di caste per gli Stati Uniti, basato su differenze biologiche misurabili, in cui i diritti politici sarebbero dipesi dalla casta di appartenenza, nonché la promulgazione di «leggi che limitino la riproduzione delle caste inferiori e i matrimoni tra caste diverse» (225)

Comunque, negli Stati Uniti la "preoccupazione eugenetica" viene ovviamente declinata secondo canoni moralistici, classisti, riduzionisti ed universalisti: se Bene e Male sono assoluti garantiti dal Dio della Bibbia o da qualche suo avatar secolarizzato come il Progresso, se esiste un unico modello umano rispetto a cui la pluralità di culture e razze non è che un accidente (o magari una "punizione" divina, come nel mito della torre di Babele), esistono allora effettivamente caratteri, individui ed etnie "superiori" ed "inferiori" in senso assoluto, così che il "paradiso in terra" coincide con l'eliminazione dei secondi, e il buon cittadino, pronto a farsi docile strumento della storia e a lavorare per la felicità futura, deve prestarsi al genocidio non solo delle etnie diverse ("primitive" o "pagane"), ma anche semplicemente dei "peccatori" all'interno della sua comunità, o delle "classi inferiori" nell'ambito di questa (226). Lo stadio delle conoscenze dell'epoca e il positivismo tradizionalmente imperante nella cultura americana fanno il resto.

Così, con presunzione tipica, Charles R. Van Hise, all'epoca preside dell'Università del Wisconsin, scrive nel 1914: «Sappiamo abbastanza dell'eugenetica... Se le nostre conoscenze venissero applicate, le classi imperfette [sic] sparirebbero nel giro di una generazione» (227).

Tali posizioni erano del resto abbondantemente trasversali rispetto alle tradizionali suddivisioni ideologiche e professionali nella società americana dell'inizio del secolo scorso.

Se Irving Fischer, il famoso economista di Yale, scrive nello stesso anno che «l'eugenetica è sicuramente la più grande preoccupazione della razza umana» (228), nel 1928 sono più di tre quarti i college e le università statunitensi in cui sono attivi corsi specialistici sull'eugenetica. Fra gli insegnanti ad Harvard c'era il criminologo Ernest A. Hooton, che predicava che «il crimine è il risultato dell'impatto dell'ambiente sugli esseri umani di grado inferiore», e che «la soluzione del crimine è l'estirpazione dell'incapace fisico, morale e mentale e (se questo sembra troppo severo) la sua completa segregazione in un ambiente socialmente asettico» (229). Come nota Rifkin, il mondo dei media e della cultura popolare era ampiamente sulla medesima lunghezza d'onda: «Potrebbe essere interessante per gli odierni abbonati di prestigiosi giornali della sinistra liberal come The Nation o The New Republic che i fondatori di entrambe le pubblicazioni erano crociati delle riforme eugenetiche. Edwin Laurence Godkin, fondatore di The Nation, credeva che solamente gli appartenenti ai gruppi biologicamente superiori avrebbero dovuto partecipare agli affari del paese, ed Herbert David Croly di The New Republic era convinto che i negri siano "una razza in possesso di qualità intellettuali e morali inferiori a quelle dei bianchi". Immaginate, se vi riesce, un futuro presidente degli Stati Uniti che sulla rivista Good Housekeeping scrive che: "ci sono considerazioni razziali troppo gravi per essere ignorate per qualsiasi ragione sentimentale". Secondo il presidente Coolidge, le leggi biologiche ci dicono che ci sono razze differenti che non si mischieranno o non si integreranno mai. Coolidge conclude che "i popoli nordici si sono diffusi con successo, mentre, con altre razze, il risultato mostra un deterioramento in entrambi i sensi"» (230).

Altri americani famosi non si esprimevano diversamente. Alexander Graham Bell, che contende a Meucci l'invenzione del telefono ed il cui nome è all'origine della Bell Company, parlando all'American Breeders Association nel 1908, afferma: «abbiamo imparato ad applicare le leggi dell'ereditarietà allo scopo di modificare e migliorare le razze dei nostri animali domestici. Può con la conoscenza e l'esperienza che sono state così ottenute restare l'uomo incapace di migliorare la specie al quale esso stesso appartiene?». Bell credeva così che «gli studiosi di genetica sono in possesso delle conoscenze per [...] migliorare la razza» e che fosse necessaria «l'educazione dell'opinione pubblica per acquisire l'approvazione delle politiche eugenetiche» (231).

Nemmeno l'allora nascente movimento dei Boy Scouts rimase insensibile a tali idee. David Star Jordan, che fu vicepresidente del movimento nei primi anni di vita, esprimeva in ogni occasione il suo convincimento che il programma scoutistico avrebbe potuto aiutare a coltivare il "nuovo uomo eugenetico" 232.

Aggiunge ancora Rifkin: «Molte femministe dei nostri giorni saranno dispiaciute nell'apprendere che Margaret Sanger [alias], leader nella lotta per i programmi per il controllo delle nascite, era una profonda credente nella superiorità ed inferiorità biologica di gruppi diversi. La Sanger, usando parole tra le più forti che siano mai state usate dal movimento eugenetico, rimarcò che "è un fatto curioso, ma da non trascurarsi, che proprio a coloro che in tutta carità dovrebbero essere cancellati dalla razza umana sia stato permesso di riprodursi e perpetuare il proprio gruppo, grazie alla politica di indiscriminata carità di 'cuori caldi' non controllati da 'menti fredde'". La Sanger aveva le sue idee su come sbarazzare la società dai problemi della contaminazione biologica e per promuovere una razza migliore. Così scrisse: "Tra le persone intelligenti esiste una sola risposta alla richiesta di una maggiore qualità di nascite e questa risposta bisogna richiederla al governo, prima di caricarci sulla schiena il fardello dei matti e dei deficienti. [...] La soluzione è la sterilizzazione" (Birth Control. Facts and Responsibilities, Williams & Williams Co., Baltimora 1925)».

In effetti, se i fascismi puntano soprattutto sulla differenziazione del successo riproduttivo attraverso l'educazione a valori nuovi e lo stabilirsi di nuove gerarchie sociali, e i razzisti e darwinisti sociali inglesi e francesi sulla rigida separazione sociale delle classi e delle etnie, «gli eugenisti americani», ricorda sempre Rifkin, «guardavano alla sterilizzazione di massa come principale strumento per i loro sforzi volti all'eliminazione biologica dei gruppi inferiori dalla popolazione americana».

Nel 1914, Harry H. Laughlin [alias] in un rapporto per l'American Breeders Association – nel quale, davvero sorprendentemente per un americano, esprime l'idea propriamente fascisteggiante che «la società deve considerare il germoplasma come appartenente alla società e non solamente all'individuo che ne è il portatore» – concludeva che almeno il 10% della popolazione era costituita da «varietà socialmente inadeguate» che avrebbero dovuto essere segregate dalla popolazione della federazìone e sterilizzate (233).

Tali posizioni si tradussero del resto in misure concrete. All'inizio del Novecento decine di migliaia di cittadini americani furono sterilizzati contro la loro volontà grazie a una serie di leggi emanate dai singoli Stati. Nel 1907 l'Indiana emanò la prima, che prevedeva la sterilizzazione obbligatoria, nelle istituzioni statali, di criminali recidivi, idioti, imbecilli e altri, e che fu preso successivamente come modello sotto il nome di "idea dell'Indiana" (234).

Nel periodo tra il 1907 e la prima guerra mondiale altri quindici Stati emanarono leggi in tal senso. L'avvio della "mania della sterilizzazione" venne in particolare segnalato da un curioso disegno di legge, presentato in Missouri, che richiedeva la sterilizzazione forzata di tutti i soggetti «accusati di omicidio, rapimento, furti sulle strade, furti di galline, per i dinamitardi o per i ladri di automobili» (!) (235).

È facile per personaggi come Rifkin, ai fini della condanna moralistica di qualsiasi intervento umano sulla propria identità biologica, ironizzare sull'idea, abbastanza bizzarra anche all'epoca, che esistesse una cosa come... il gene per il furto delle automobili. Resta il fatto che nell'ambito del sistema di valori egualitario, non sono neppure oggi in discussione gli scopi originari di una tale legislazione – l'affermazione, in chiave moralistica anziché culturale, universale anziché particolare, di un'ideale "civilizzazione americana" cui è attribuito il ruolo di redimere il mondo (236).

La costituzionalità di queste leggi non venne presa in esame fino al 1927, anno in cui la Corte Suprema decise, in un caso proveniente dalla Virginia, che la sterilizzazione era positivamente ricompresa nei poteri di polizia dei singoli Stati. Uno dei più grandi nomi della storia giuridica americana, Oliver Wendell Holmes Jr. [alias] scrisse: «Abbiamo visto più di una volta come il bene pubblico possa richiedere ai migliori cittadini la loro vita. Sarebbe strano se esso non potesse ormai chiedere a coloro che hanno indebolito lo Stato un sacrificio minore, allo scopo di prevenire noi stessi il fatto di essere sommersi dall'incompetenza. Sarebbe molto meglio, per il mondo intero. se invece di aspettare i risultati della loro imbecillità, la società potesse prevenire quelli che manifestamente sono incapaci dal continuare i loro piaceri... Tre generazioni di imbecilli sono sufficienti» (237). Ora del 1931, trenta Stati avevano promulgato leggi sulla sterilizzazione forzata.

Nel 1925, pubblici funzionari tedeschi avevano nel frattempo contattato le amministrazioni di vari Stati americani per acquisire appunto informazioni sulle loro leggi in materia di sterilizzazione. Pare anzi che uno dei sostenitori dell'eugenetica nella Germania dell'epoca ebbe a rimarcare: «Quello che viene promosso dagli igienisti razziali non è per niente nuovo o qualcosa di mai sentito. In una nazione colta e prim'ordine come gli Stati Uniti d'America, alla quale noi ci sforziamo di somigliare, questo concetto è stato introdotto molto tempo fa. È tutto molto semplice e chiaro» (238). Se è vero, la cosa dovrebbe far riflettere gli esponenti del terrorismo ideologico militante con riguardo alle vere origini di certe influenze presenti nel pensiero europeo dell'epoca!

Che questo ordine di idee, pure nelle intenzioni ispirato ai più autentici valori americani, finisse per cortocircuitare il sistema ideologico relativo (239), è d'altronde dimostrato con riguardo alla storia successiva, ed in particolare al dibattito incentrato sulla legge federale in materia di immigrazione [alias, alias]che promulgata nel 1924 resterà in vigore sino al 1965; e ciò foss'anche negli aspetti di tale dibattito che è legittimo considerare caricaturali, e che certamente sono tali più di qualsiasi analoga letteratura di fonte fascista.

Anche in Europa, la "trasversalità" delle problematiche aperte dalle scoperte della genetica e dalla coscienza nascente del "terzo uomo" è del resto totale. Nota Eric Delcroix, trattando della letterale illegalità contemporanea di quest'ordine di idee: «in Austria, il più intransigente dei partigiani dell'eugenetica fu senza dubbio Karl Kautsky [alias] (1854-1938), parallelamente marxista ortodosso. Prima di lui, il tedesco Woltmann (1871-1907) (240) aveva tentato di riconciliare marxismo, darwinismo e razzismo ariano. In Germania, ancora vari anni dopo la prima guerra mondiale, un buon numero di eugenisti erano ebrei e dunque poco sospettabili di "nazismo", come Kallmann (che voleva sterilizzare il 10% della popolazione tedesca), il genetista Goldschmidt, o il medico Löwenstein (vedi Paul Weindling in L'hygiène de la race, Editions de la Découverte, Parigi 1998, pag. 32 [version originale: Health, Race and German Politics between National Unification and Nazism])» (241).

È d'altronde non a caso nel contesto americano che il sociologo liberal Edward A. Ross [alias] pubblica, dopo uno studio durato sedici mesi, un rapporto (242) in cui rileva tra l'altro che i popoli mediterranei sarebbero «dediti al sesso e alla violenza ed irrazionali per natura; gli slavi, un popolo passivo imbevuto di ignoranza e superstizione, tendente all'alcolismo ed alla violenza sulle donne; gli ebrei, riuniti in clan, infidi e segreti negli affari». Un altro eugenista, Madison Grant, cui gli USA tuttora intitolano scuole, aggiunse all'analisi gli indiani, che «per anni sono stati a contatto con le migliori civiltà ma non ne hanno tratto alcun giovamento, né intellettualmente, né moralmente, né fisicamente» e i negri, «che sono volontari seguaci dei nordici e che chiedono solamente di obbedire e di assecondare gli ideali e i desideri della razza padrona» (!) 243.

D'altronde, fu il ministro del lavoro dell'amministrazione Coolidge, James J. Davis, a "fare il punto" sulla discussione in questi termini: «l'America è sempre stata orgogliosa di avere alle sue origini la razza definita nordica. [...] Dovremmo bandire dalle nostre coste tutte le razze non naturalizzabili e [comunque] tutti gli individui, di tutte le razze, che fisicamente, moralmente e spiritualmente sono indesiderabili, e che costituiscono una minaccia per la nostra civiltà» (244).

Lo House Committee on Immigration and Naturalization nominò da parte sua Laughlin [alias] come esperto di questioni eugenetiche, e ne ottenne queste conclusioni: «Facendo tutte le concessioni alle condizioni ambientali [...] il recente fenomeno dell'immigrazione, considerato nella sua interezza, presenta un'alta percentuale di qualità innate socialmente inadeguate rispetto alla immigrazione passata» (ovvero quella, in sostanza, degli antenati di Laughlin stesso e dei suoi connazionali di terza o quarta generazione ed oltre) (245). Ciò condusse ad una legislazione sull'immigrazione per quote etniche che rimase come abbiamo detto in vigore sino al 1965.

Se quest'ordine di idee non poteva durare, a pena di rimettere in discussione i miti fondanti e la stessa ragione d'essere degli Stati Uniti, nati come sfida e rifiuto delle sovranità e identità collettive e dell'autodeterminazione popolare che queste implicano, resta il fatto che gli Stati Uniti, anche dopo il tramonto del tentativo Wasp di difendere il proprio ruolo particolare nel paese, continuano a permettersi, come "centro dell'impero", un controllo sui flussi (im-)migratori e sulla loro composizione etnica che va ben al di là di quello che il Sistema consente agli altri paesi "occidentali" (Israele ovviamente escluso).

Secondo Rifkin, la crisi del 1929 da un lato, e l'affermazione del fascismo in Europa furono i fattori che contribuirono a "polarizzare" le posizioni gettando il "movimento eugenetico" americano in una profonda crisi di identità (246).

D'altra parte, Mark Adams, nel suo studio comparato sull'eugenismo in diverse parti del mondo, prende giustamente di mira quello che definisce i "quattro miti" dell'eugenetica «Il primo consiste nel ritenerla un movimento omogeneo, in sé coerente e riconducibile esclusivamente al modello tedesco o angloamericano; il secondo sta nel pensare che essa si sviluppò solo dove crebbe la genetica mendeliana, mentre in realtà paesi come la Francia, la Russia o il Brasile, dove fu dominante il lamarckismo, ebbero i loro, ed anche forti, movimenti eugenetici; il terzo mito è che l'eugenetica si affermò come una pseudoscienza, mentre in realtà almeno fino a tutti gli anni venti essa fece un tutt'uno con la genetica; il quarto mito consiste nel pensare all'eugenetica come ad una scienza reazionaria, mentre essa fu invece un fenomeno storico molto più articolato, legato anche a politiche considerate "progressiste" o "riformiste"». (247).

Del resto, la valenza prettamente ideologica e biopolitica delle scelte di campo rispetto all'eugenismo viene sottolineata dall'erosione crescente, con il progresso tecnico, dei costi soggettivi delle pratiche eugenetiche, in costante diminuzione, in particolare nel momento in cui all'esposizione dei neonati ed allo stretto controllo parentale o comunitario sugli accoppiamenti subentra la sterilizzazione chimica o chirurgica dei ritardi gravi e la riproduzione orientata; e a queste l'anamnesi prematrimoniale in chiave mendeliana; e a questa ancora la diagnosi prenatale e lo screening genetico; ed a queste infine la fecondazione artificiale e la manipolazione diretta e "terapeutica" in senso proprio delle linee germinali; interventi questi ultimi rispetto a cui la naturale empatia nei confronti dei soggetti coinvolti milita interamente in senso favorevole, al punto da renderne imbarazzante il rifiuto preconcetto in relazione agli stessi valori umanitari ed invidualisti della visione del mondo egualitaria (248).

La seconda guerra mondiale, e la fondazione consapevolmente "antifascista" del Mondo Nuovo che da essa è uscito, finirà comunque per rappresentare lo spartiacque definitivo, specie in relazione alla demonizzazione esemplare proprio degli aspetti "biopolitici" delle dottrine e prassi fasciste. D'altronde, se oggi è lo spauracchio dell'eugenetica e del razzismo che risulta utile per confermare la definitiva condanna morale del fascismo in generale, e del nazionalsocialismo in particolare, ancora nel dopoguerra è invece... l'accusa di fascismo che serve a scomunicare consapevolezze biopolitiche che ancora alla fine degli anni quaranta e negli anni cinquanta risultavano diffuse e quasi ovvie.

Naturalmente, l'onda lunga della demonizzazione tarda ad arrivare soprattutto là dove sospetti di "filofascismo" sarebbero apparsi ridicoli. Così Charles De Gaulle una volta al potere poteva ancora permettersi di dichiarare: «Va benissimo che vi siano francesi gialli, neri e bruni. Mostrano che la Francia è aperta a tutte le razze ed ha una vocazione universale. Ma a condizione che restino un'infima minoranza. Diversamente la Francia non sarebbe più la Francia. Noi siamo comunque prima di tutto un popolo europeo di razza bianca» (249). Ed ancora, in una direttiva al ministero francese della giustizia: «Sul piano etnico, conviene limiare l'afflusso degli orientali e dei mediterranei che da mezzo secolo hanno profondamente modificato la composizione della popolazione francese. Senza giungere sino ad utilizzare come gli Stati Uniti un sistema rigido di quote. è opportuno che la priorità sia accordata alle naturalizzazioni nordiche (belgi, lussemburghesi, svizzeri, olandesi, danesi, inglesi, tedeschi, etc.)» (250). Di conseguenza, l'Alto Comitato per la Popolazione gollista proponeva un'immigrazione strettamente limitata, e regolata secondo questa "ricetta" ottimale: «50% di nordici, 30% di latini del nord, 20% di slavi» 251.

Al di là delle preoccupazioni etno-demografiche, anche il movimento eugenista in senso stretto continua comunque il suo cammino. È del 1971 la pubblicazione di un numero di Nouvelle Ecole, la rivista diretta da Alain de Benoist, integralmente dedicato all'eugenetica (252), che contiene l'ultimo e più ampio studio in materia anteriore all'"era biotecnologica", e che crea un profondo scandalo nella Francia post-sessantottina e tra la borghesia benpensante e di destra.

La rivista ripercorre con Jean-Jacques Mourreau le radici e i rami del pensiero eugenetico europeo, dalle tradizioni antiche di cui abbiamo già discusso a Rabelais, Montaigne, Moro, Campanella, Buffon, sino agli albori dell'eugenetica scientifica e filosofica con Frank, Mai, Lucas, de Gobineau [alias] Morel, Galton, Ploetz [alias], Molinari, Vacher de Lapouge, [alias], Schwalbe, Lenz, Richet, Mjoen [alias], e proseguire poi sino a giganti come Alexis Carrel e Jean Rostand [alias] e alle legislazioni eugenetiche dei paesi scandinavi e mitteleuropei, per giungere a descrivere le posizioni eugeniste espresse... in Unione Sovietica, dove Riazanov, il presidente dei sindacati di Pietrogrado nonché direttore dell'Istituto Marx-Engels, cita nel 1929 con approvazione nell'opera Comunismo e matrimonio un intellettuale di partito come Evgenij Preobrazenskij laddove lo stesso sostiene «il diritto imprescrittibile della società di intervenire nella vita sessuale al fine di perfezionare la razza [corsivo nostro] tramite selezione sessuale artificiale» (253).

La conclusione dell'articolo principale, di Jean-Yves Christen (254), centrato invece sullo "stato dell'arte" dell'epoca, annuncia già del resto la rivoluzione di questo secolo. «Possiamo dare per scontato che l'uomo deterrà ben presto una "potenza biologica" che non ha mai avuto e che questo stadio (dobbiamo rammaricarcene?) sarà raggiunto prima che egli abbia risolto i suoi problemi etici correlati, e quelli che concernono il suo comportamento al riguardo. È una ragione in più per prospettare in termini cinetici il futuro deliberato. Le possibilità eugenetiche attuali saranno presto rese caduche, o superate. Il certificato prenuziale migliorato, l'aborto terapeutico, il family planning organizzato, la sterilizzazione delle tare più notorie, le inseminazioni artificiali programmate, appariranno molto in fretta come nulla più di misure di bricolage, o d'urgenza, dal momento in cui le prospettive eugenetiche lasceranno intravedere la prospettiva della programmazione dei tipi desiderabili. Ci si può allora chiedere se le concezioni etiche si "adegueranno", o se si produrrà un inquietante scollamento, a livello di maggioranza o di alcuni. [...]».

L'ideologia contemporanea non è in grado di gestire le novità che tutto ciò comporta. «Ma, anche nella peggiore delle ipotesi», continua Christen, «meglio correre il rischio che la specie umana si riveli incapace di superare i limiti del passato, piuttosto che cadere nella decadenza genetica. La vita non è fatta di assoluti, ma di occasioni prese qui e là. Di rischi consapevolmente accettati e calcolati, il più grande rischio essendo sempre quello di non far nulla. La termodinamica, la biologia molecolare, la genetica, l'etologia, risolvono tante equazioni quante ne restano di sconosciute. Bisogna scegliere».

Trent'anni dopo, gli oppositori della "tentazione eugenetica" non si fanno più illusioni, se non forse in esorcismi di sapore ormai rituale. Il bioetico George Annas dell'Università di Boston, uno dei primi a proporre la messa al bando dell'ingegneria genetica da parte dell'ONU, è giunto ad affermare, durante... una visita al museo dell'Olocausto a Washington: «La genetica moderna è eugenetica» (255). Gilbert Meilaender, un altro membro del Concilio Presidenziale sulla Bioetica americano, ha scritto sin nel 2001: «La nostra presente condizione è questa: siamo entrati nuovamente in un'era eugenetica. La scienza che tenta di migliorare le caratteristiche ereditarie della specie e che è diventata tanto improvvisamente fuori moda dopo la seconda guerra mondiale e i medici nazisti ora si riaffaccia prepotentemente alla rispettabilità» (256).

In tale contesto, dire come fa Ramez Naam, che «la connessione qui con la Germania del periodo della seconda guerra mondiale è piuttosto esplicita» (257), pare in effetti un eufemismo. Senonché, il richiamo incapacitante a passate esperienze "totalitarie" appare abbastanza problematico per gli "antieugenetici". Nota infatti l'autore nella stessa pagina: «è interessante che nel dibattito in questione, sono oggi proprio quelli che vorrebbero vedere le tecniche in questione proibite a propugnare un ferreo controllo di Stato sulla "sacralità" del pool genetico della popolazione. [...] Sono coloro che si oppongono ad ogni scelta al riguardo che hanno in sostanza deciso che esiste una certa "corretta" eredità genetica per l'umanità (quella che abbiamo oggi) e che al "popolo ignorante" non dovrebbe essere data alcuna voce in capitolo».


La manipolazione del vivente

L'obiezione morale di matrice umanista contro la manipolazione del vivente è ben espressa da un dialogo tratto da Jacquard (258) da una sua conversazione con un giornalista: «Domanda: Lei pretende che non sia possibile migliorare la specie umana; tuttavia, l'Uomo è riuscito a migliorare numerose specie animali o vegetali; non può mettere in dubbio, per esempio, il miglioramento delle razze equine. Risposta: Se fosse un cavallo, penserebbe davvero che si tratti di un miglioramento?».

La risposta ovviamente è: l'allevatore, il "secondo uomo", ha fatto esattamente la scelta di tenere conto del suo punto vista, e non di quello del cavallo, perché è in rapporto a questo punto di vista che si definisce il suo essere-nel-mondo, la sua umanità intrinseca.

Di converso, è anzi legittimo ritenere che tale "soggettività", e il processo di domesticazione della realtà e di se stesso che essa implica, costituisca proprio lo specifico umano, uno specifico forse tragico, ma che certo può venir giudicato, specie nella prospettiva indoeuropea, ineluttabile e/o da perseguire.

Abbiamo già visto d'altronde come la "naturalità" del mondo del secondo uomo, quella che pure oggi è in crisi, sia ampiamente sopravvalutata, per l'ovvia ragione che la troviamo come un dato ricevuto, spesso immutato da secoli. Non c'è niente di naturale ad esempio in un campo di grano, e il disboscamento dell'Italia centrale o l'eliminazione di alcune specie di predatori nella stessa zona non è frutto della rivoluzione industriale, ma era già ad uno stadio avanzato in epoca pre-romana.

La domesticazione degli animali ha seguito di poco la comparsa dell'agricoltura organizzata; quella del cane, specie come aiutante del cacciatore, sembra addirittura averla preceduta, perché sarebbe avvenuta almeno dodicimila anni fa. Quella dei cavalli, degli ovini e dei bovini pare più recente, e non andare oltre seimila anni fa; è stata d'altronde ampiamente preceduta da quella del maiale, primo animale da carne che ha poi finito, circostanza interessante, per costituire l'oggetto di complessi significati simbolici ed interdetti religiosi (259).

Come ammette Jacquard, questa domesticazione è stata sin dall'inizio accompagnata da un'azione mirante ad accrescere le caratteristiche che gli allevatori giudicavano utili o piacevoli; anzi, sembra che gli sforzi per conservare tratti eccezionali considerati piacevoli abbiano largamente preceduto quelli tendenti a migliorare i "rendimenti" in termini di lavoro, carne, latte o lana.

Un'azione sistematica per migliorare certe caratteristiche utili del bestiame tramite incroci diretti risale per i bovini almeno al diciottesimo secolo. È certamente vero che vi sono conseguenze indirette "sfavorevoli" della selezione mirata, in particolare in termini di "fragilità" degli animali e/o accresciuta incapacità di sopravvivere o riprodursi autonomamente, che rende necessario rinnovare indefinitamente tale processo (260). A partire dagli anni trenta, grazie ai progressi della genetica delle popolazioni, i metodi messi a punto in modo empirico nel corso dei secoli hanno potuto ricevere una solida base teorica. Dalle iniziali analisi di Fisher [alias] (261), è tutto un fiorire di modelli che permettono di guidare in modo più ragionato le scelte del selezionatore, e la cui diffusione non è estranea all'interesse per l'eugenetica umana venuto in luce proprio nello stesso periodo.

Come ammette Jacquard, i risultati raggiunti già in epoca pre-biotecnologica non possono essere messi in discussione: «Il rendimento in latte delle mucche, il ritmo di crescita dei maiali, la produzione di uova dei polli, tutte le caratteristiche degli animali da cui dipende la nostra alimentazione sono state migliorate in modo talvolta spettacolare: se in una nazione "tradizionale" [e la cui popolazione bovina è già e dappertutto frutto di una domesticazione e selezione secolare, N.d.A.] una vacca fornisce 400 litri di latte all'anno, negli Stati Uniti il rendimento medio raggiungeva nel 1955 i 4725 litri, e nel 1967 aveva superato i 5500». Risultati altrettanto indiscutibili sono del resto raggiunti nella selezione di caratteristiche quali le prestazioni dei cavalli da corsa, o la specializzazione ed addestrabilità dei cani.

I risultati nella manipolazione delle specie vegetali, ad esempio nella coltivazione dei cereali, sono ancora più spettacolari (262).

Esistono per la verità ragionevoli teorie per cui gli esseri umani non sono realmente adattati ad una dieta basata sugli amidi – che presuppone semina, coltivazione, lavorazione e soprattutto cottura (un uomo nudo in un campo di grano muore di fame), così che l'assunzione di tali alimenti è entrata nelle abitudini della nostra specie, attestata da almeno trecentomila anni (263), solo da una manciata di millenni. Anzi, i portati della paleopatologia tendono a dimostrare che una serie di malattie (dalla carie al diabete, alle disfunzioni cardiovascolari, a certi tipi di cancro, alla tendenza all'obesità), che si tende facilmente ad attribuire alla "vita moderna", sono molto più antiche e risalgono in effetti al mutamento di dieta seguito all'avvento dell'agricoltura, mentre lasciano pressoché indenni le popolazioni che nello stesso periodo o anche successivamente continuano a vivere in società di caccia e raccolta (264). Anche qui, è del resto interessante notare come le aristocrazie della società del "secondo uomo" tendono regolarmente a perpetuare modi di vita arcaici, tramite una dieta in media molto più ricca di proteine e verdure fresche che di cereali (265).

Sia quel che sia, una società basata in via generale su un'economia di caccia e raccolta necessita di un territorio immenso per sostentare una popolazione minima, e costringe di fatto quest'ultima al nomadismo, così che è appunto il passaggio ad una dieta basata per la gran parte della popolazione sui carboidrati che ha consentito la prima grande esplosione demografica, ed il cambiamento di abitudini culturali insito nella nascita di agglomerati urbani e nella vita stanziale. Ed è sempre l'agricoltura che ha accompagnato lo sviluppo esplosivo della popolazione mondiale negli ultimi due secoli, dalla rotazione delle colture sino a giungere alla "rivoluzione verde" del secondo dopoguerra.

Un esempio notevole è quello del grano e dei risultati ottenuti dal Centro Internazionale di Miglioramento del Grano dell'Università di Chapingo, in Messico 266. In tale paese la coltivazione del grano non aveva da secoli compiuto alcun progresso, sino all'istituzione di tale centro alla fine degli anni quaranta. All'epoca il rendimento raggiungeva appena i 9 quintali per ettaro; la raccolta annuale di 3 milioni di quintali non copriva neppure metà del fabbisogno nazionale. Norman Burla, responsabile del centro, cercò, tra le circa cinquemila varietà coltivate nella regione, quelle che offrivano la migliore resistenza alla ruggine dei cereali; le incrociò con una varietà giapponese a culmo corto, effettuò decine di migliaia di tentativi di ibridazione e ottenne nuove varietà che avevano tutte le caratteristiche desiderate dai coltivatori: una pianta sufficientemente corta per non allettare, in grado di resistere alla siccità, capace di tollerare una forte concimazione azotata e di sfruttarne l'apporto per produrre chicchi più grossi e più numerosi. In condizioni ideali, fu possibile ottenere 75 quintali per ettaro. Dal 1965 la quasi totalità dei coltivatori messicani utilizza le sementi messe a punto dall'Istituto, e già in tale anno la locale "battaglia del grano" portò ad un raccolto superiore ai 22 milioni di quintali.

Gli sforzi di ricerca mirati di altri paesi hanno presto raggiunto analoghi successi, consentendo ad esempio di raggiungere rendimenti vicini ai 20 quintali per ettaro in condizioni semidesertiche. I risultati raggiunti non sono stati del resto solo quantitativi. Ad esempio, ricercatori indiani sono riusciti già negli anni sessanta, grazie a mutazioni indotte con raggi X, a ottenere nuove varietà di grano più ricche di proteine, e in particolare di proteine contenenti lisina, in modo da limitare i danni di un'alimentazione largamente basata sul cereale in questione, ad esempio sotto forma di pane.

Altre piante hanno beneficiato di simili ricerche. Le diverse varietà di riso coltivate nella stazione di ricerca dell'Università agricola del Pendjab indiano avevano, sempre nel 1965, un rendimento medio di una tonnellata per ettaro; la creazione e diffusione di varietà semi-nane ha fatto passare tale rendimento a 1,8 tonnellate nel 1970 e 2,6 nel 1975. Tutti conoscono lo straordinario sviluppo della coltivazione del mais; prima ancora delle varietà OGM, le stazioni sperimentali dell'Iowa e del Wisconsin non solo avevano già rendimenti che in altre epoche sarebbero stati ritenuti miracolosi, e superiori a 50 quintali all'ettaro, ma un'uniformità tale da renderne possibile la raccolta meccanizzata.

La manipolazione di tali specie comporta inevitabilmente rischi e problemi sia dal punto di vista strettamente biologico ed umano, che da quello politico-economico e culturale, come vedremo in particolare con riguardo ai cosiddetti "organismi geneticamente modificati" (267); ma giova notare sin d'ora come rispetto ad essa siano difficilmente sostenibili risposte neo-primitiviste, o ingenuamente "di destra".

Dal punto di vista egualitario, sussiste un ovvio conflitto tra la "peccaminosità" intrinseca di tali, pure tradizionali, manipolazioni e la preoccupazione umanitaria legata alla "fame nel mondo". Da altri punti di vista, non è possibile ignorare il significato che l'adozione o meno di tali tecniche assume in chiave di autosufficienza alimentare, e perciò in ultima analisi di indipendenza politica, ed in termini di capacità delle società che ne fanno uso di sostenere una demografia radicalmente diversa a parità di territorio, esattamente come è successo all'epoca della rivoluzione neolitica e dell'avvento dell'agricoltura, e di nuovo con conseguenze ovvie in termini di sopravvivenza a medio-lungo termine della comunità di riferimento e della sua base biologica, rispetto alle altre con cui si trova in concorrenza riproduttiva.

Abbiamo visto come sia d'altronde ugualmente inadeguato l'approccio progressista ingenuo, da Ballo Excelsior [alias], che considera gli effetti della manipolazione del vivente ed il progresso delle tecniche al riguardo in chiave indiscriminatamente "ottimista" ed universalista, come stadi in un percorso di graduale miglioramento, inteso in termini essenzialisti ed assoluti, destinato a portarci dritti dritti nel paradiso terrestre dell'abbondanza, e della fine dei conflitti e dell'alienazione (268). Anzi, proprio l'acquisita consapevolezza dell'insostenibilità di tali visioni si trasforma oggi, specie da sinistra, in argomento di condanna e "dubbio" sistematico rispetto alla manipolazione del vivente, alla luce anche di una aumentata presa di coscienza della sua portata prometeica, nel momento in cui tale manipolazione viene a sfociare in una determinazione globale dell'uomo e del suo ambiente da parte dell'uomo stesso.

Scrive Jacquard: «Ad ogni tappa dei loro sforzi i selezionatori hanno migliorato per esempio le razze di fagioli; non si tratta di mettere in dubbio l'interesse di ciascuno dei progressi realizzati, ma il risultato finale è davvero un miglioramento? Le varietà ottenute hanno rendimenti meravigliosi nelle condizioni molto particolari in cui le coltiviamo; sono incapaci di sopravvivere nelle dure condizioni che il più delle volte offre l'ambiente naturale. [...] Non abbiamo migliorato né il grano né i cavalli: abbiamo migliorato la capacità del grano di utilizzare certi concimi, la capacità delle mucche di produrre latte, la capacità dei cavalli di correre rapidamente. [...] Il patrimonio genetico di queste qualità è migliore del patrimonio ancestrale? O, al contrario, gli è inferiore? A questa domanda non può essere fornita alcuna risposta. Il risultato dipende dalle condizioni in cui effettuiamo il confronto» (269).

Ciò è assolutamente vero, ed anche ovvio. Ciò che è invece del tutto immaginaria è l'esistenza di un patrimonio ancestrale, di un ambiente naturale, cui sia oggi possibile fare riferimento. Il granoturco, o mais, è stato selezionato ed incrociato per migliaia di anni, prima che dagli agronomi e dai genetisti, dagli indiani Maya; ancora prima della scoperta dell'America, le varietà coltivate erano già così lontane dall'avere le caratteristiche naturalmente necessarie alla riproduzione da non potersi affatto perpetuare senza un intervento umano. Oggi, se un cataclisma provocasse l'estinzione della specie umana, contemporaneamente scomparirebbe dalla faccia della terra anche il mais; ne rimarrebbe probabilmente una sola specie, la teosinta, inadatta alla coltivazione ed oggi considerata un'erbaccia, ma che a quanto è stato ipotizzato sarebbe la lontana antenata del mais, o almeno una discendente selvatica di un antenato del mais. Cos'ha di "naturale" il mais con cui da secoli viene preparata la polenta nelle valli alpine e nella bergamasca, e da millenni le pappe o le pannocchie abbrustolite delle popolazioni andine?

La verità è che qualunque giudizio sulla validità di un corredo genetico non può che essere relativo; ma la relatività del giudizio in questione non lo rende meno "vero", a partire naturalmente dal contesto e dalle scelte di valore cui lo stesso fa riferimento.

Ugualmente, se la varietà e ricchezza della biosfera sono oggi minacciate, la loro conservazione futura non può che essere frutto di una scelta deliberata, politica, e del tutto artificiale, così come la conservazione nel patrimonio genetico delle specie vegetali ed animali, uomo compreso, di caratteristiche "ancestrali" e/o prive di un significato adattativo nelle concrete condizioni ambientali in essere, ma che è possibile scegliere di mantenere, per lungimiranza – in vista della sopravvivenza nel caso di un mutamento profondo di tali condizioni ambientali –, oppure per ragioni estetico-affettive e culturali. La raccolta, classificazione e protezione del selvatico e delle razze locali, per il relativo patrimonio genetico, è anzi una prospettiva moderna, o meglio post-moderna, che ben può porsi in contrasto con pratiche millenarie volte invece alla riduzione e specializzazione, specie delle varietà vegetali, a favore di quelle utili, e tra queste a quelle qualitativamente e quantitativamente preferibili per il contadino e i suoi padroni o clienti. In questo senso sembra problematico rappresentare l'agricoltura tradizionale, decantata in questo senso ad esempio da Giovanni Monastra (270), come "custode" di una varietà biologica che essa storicamente non ha mai fatto altro che ridimensionare e combattere.

Naturalmente, la prima manipolazione della biosfera avviene, prima ancora che tramite la selezione o lo sterminio (o... la conservazione deliberata ed artificiale) di specie e razze vegetali ed animali, indirettamente, attraverso l'alterazione dell'ambiente, alterazione che costituisce il marchio del "secondo uomo" rispetto al primo.

Tale alterazione oggi non fa altro che giungere a compimento: prima dell'industria, dell'inquinamento industriale, delle grandi monoculture, dell'effetto serra, il panorama del pianeta è stato radicalmente trasformato dal disboscamento, dal pascolo, dalla seminatura, dall'insediamento artificiale di specie al di fuori al di fuori del loro habitat originario. Se tutto ciò nell'Europa centrale e meridionale e nel bacino del Mediterraneo è in atto da migliaia di anni, la radicale trasformazione di zone periferiche come Islanda o Australia si è compiuta integralmente nella nostra era. E tutto ciò va certamente nel senso di una diminuzione della ricchezza biologica della Terra. Le specie e le razze si sono sempre estinte, e conservare specie destinate all'estinzione è altrettanto "manipolatorio" che accelerare quest'ultima; ma se è vero come sostengono alcuni autori che all'epoca dei dinosauri si estingueva circa una specie ogni mille anni, all'inizio dell'era industriale una ogni dieci, ed oggi saremmo al ritmo di tre specie estinte all'ora (271), è lecito porsi il problema, in particolare quando non sono affatto chiarite le condizioni e modalità della (possibile) apparizione di nuove specie, ed è addirittura rimesso in dubbio, e non solo da parte dei fondamentalisti biblici, il fatto che processi di speciazione siano oggi tuttora in corso (272).

La varietà e ricchezza della vita sulla Terra riguarda del resto tanto il grado di varianza all'interno delle popolazioni, quanto il grado di varianza delle popolazioni l'una rispetto all'altra; e per quanto riguarda le popolazioni umane, parrebbe naturale che la sua difesa debba riguardare innanzitutto la difesa appunto della differenza della popolazione interessata, e la lotta all'entropia etnoculturale da cui tale differenza è inevitabilmente minacciata. Entropia che abbiamo visto agire attraverso una crescente eliminazione dei fattori di segregazione (immigrazione, monoglottismo, sradicamento, panmissia, etc.) e di selezione orientata (uniformizzazione dell'ambiente e dei modelli culturali a livello planetario).

La manipolazione del vivente verificatasi dalla rivoluzione neolitica non si è fermata comunque all'alterazione dell'ambiente, alla domesticazione ed alla selezione orientata. Clonazione, innesti, ibridazione, monocultura, fecondazione artificiale, fanno ugualmente parte di un repertorio di strumenti tradizionale, anche se a lungo principalmente vertente sul mondo vegetale. Nel diciannovesimo secolo l'oidio, la pebrina e la filossera hanno messo in ginocchio in pochi anni l'allevamento dei bachi e la coltivazione della vite nel continente europeo a seguito appunto dell'utilizzo esclusivo, da secoli, di ceppi poi rivelatisi vulnerabili (273). Come sanno anche i bambini, il mulo che accompagnava e talora accompagna ancora oggi l'alpino è un ibrido sterile prodotto deliberatamente ad ogni generazione tramite l'incrocio "contronatura" di due specie diverse, per gli scopi del medesimo alpino.

Ciononostante, la frattura epocale cui siamo oggi confrontati non può essere sottovalutata, e le sue conseguenze sono politiche ed esistenziali ad ogni livello. Siamo di fronte non solo a scelte di civiltà, ma a scelte che decideranno dell'egemonia futura sul pianeta e della nostra capacità di cambiare, o secondo i casi conservare, i modi di vita che abbiamo conosciuto sino ad ora.

Nota Kempf, a proposito che quella che definisce da parte sua la rivoluzione biolitica: «L'umanità ha compiuto l'impresa di affermare la sua signoria sulla natura aperta con la rivoluzione neolitica; essa si impegna ora in un'impresa di affermazione della sua signoria sugli organismi biologici al livello individuale e di trasferimento di proprietà biologiche alla materia inerte (274). L'effetto delle potenti tecniche che cominciamo ad impiegare per manipolare il vivente e per animare l'artificiale rende cruciale per la nostra generazione riattualizzare le questioni di ciò che sono e l'uomo e la vita. Non cambiamo di mondo, cambiamo di essere» (275).

E ancora: «La mia ipotesi è che le ricerche contemporanee manifestino, al di là delle loro preoccupazioni immediate e dei loro metodi, una coerenza globale. Il loro avvento non ha luogo come un'insorgenza disordinata, ma come il prodotto di una volontà comune di agire dall'interno sul vivente, trasformando l'organismo biologico, animando costruzioni minerali o logiche, o avvicinando i due tipi di tecnica. Tale volontà pare abbastanza antica perché se ne possano cogliere le traccie in diverse mitologie. Ma mai aveva preso una espressione così manifesta come oggi. Offrendogli i mezzi della sua realizzazione, le nuove tecniche forgiano un cambiamento del rapporto dell'umano con il mondo così profondo da apparentarsi ad una rottura, una rottura di cui si trovano pochi esempi equivalenti nella storia umana» (276).

L'esempio paradigmatico è quello che abbiamo già discusso: «Qualche migliaio di anni fa, le società umane hanno cominciato a passare da un modo di sussistenza basato su caccia e raccolta a un'economia fondata sull'agricoltura e l'allevamento – in breve, dal saccheggio allo sfruttamento. La costituzione di riserve alimentari ha permesso di affrancarsi dalle costrizioni ecologiche immediate. Questa mutazione, che ha definitivamente trasformato l'organizzazione delle società umane, fu battezzata rivoluzione neolitica dall'archeologo australiano Gordon Childe negli anni trenta. Se l'archeologia ha precisato la descrizione del fenomeno – un processo disteso su vari secoli e millenni, ed affermatosi in circa sette focolai geografici principali – ne ha conservato l'idea generale. L'entrata nell'era neolitica ha marcato un cambiamento radicale del rapporto tra l'uomo e la natura. Prima, bisognava sottomettersi ad una potenza incommensurabile che dispensava arbitrariamente gli alimenti della sopravvivenza; presto, divenne possibile mettere sotto controllo queste forze minacciose o misteriose per asservirle alla soddisfazione dei bisogni umani. [...] Oggi, fortificata dai nuovi poteri usciti dalla conoscenza scientifica, la civiltà neolitica ha compiuto la sua impresa: non esiste più una natura "selvaggia". Come ha constatato la rivista Science, "non vi sono più posti sulla terra che non siano nell'ombra dell'umanità". L'umanità influenza oggi totalmente la biosfera, per trasformazione diretta o tramite modifica dei suoi equilibri biochimici. Non che essa ne padroneggi i processi, ma non ne esiste più alcuna parte che sia immune dalla sua influenza. [...] Ebbene, come i nostri antenati sono entrati in un'era nuova quando hanno cominciato la conquista della natura selvaggia, nello stesso modo, trasformando il vivente e tentando di proiettarne le caratteristiche nella materia inerte, noi entriamo in una nuova era, dominata dalle tecniche che sposano il vivente (βίος, bios) al minerale (λύθος, lithos) e che è appropriato chiamare biolitica» (277).

Pur se declinato nell'ambito di limiti mentali americani ed economicisti, è interessante quello che scrive al riguardo di questa rivoluzione il più volte citato Jeremy Rifkin: «I grandi cambiamenti nella storia avvengono quando forze culturali, economiche e tecnologiche si uniscono per creare una nuova "matrice operativa". Ci sono sette elementi che compongono la matrice operativa del secolo delle biotecnologie».

Questi i sette elementi individuabili secondo l'autore: «Innanzitutto, la possibilità di isolare, identificare e ricombinare i geni fa del pool genetico una nuova materia prima. Le tecniche del DNA ricombinante e altre biotecnologie consentono agli scienziati di individuare, manipolare e sfruttare le risorse genetiche per fini specifici. In secondo luogo, la concessione di brevetti sui geni, sulle linee cellulari, sui tessuti, sugli organi e sugli organismi manipolati geneticamente, nonché sui processi usati per alterarli, crea i presupposti per lo sviluppo e lo sfruttamento economico delle relative risorse. In terzo luogo, la globalizzazione rende possibile una ricostruzione complessiva della biosfera mediante una seconda genesi concepita in laboratorio, la creazione di una natura bioindustriale prodotta artificialmente e costruita per rimpiazzare gli schemi propri dell'evoluzione. Un'industria mondiale delle scienze della vita sta per acquisire un potere senza precedenti sulle vaste risorse biologiche del pianeta. In quarto luogo, la mappatura dei circa centomila geni che fanno parte del genoma umano, le nuove scoperte nel campo dello screening genetico, i bio-chip, la terapia genica a livello di cellule somatiche e di manipolazione genetica degli ovuli, degli spermatozooi e delle cellule embrionali umane, stanno aprendo la strada all'alterazione della specie umana e alla nascita di una civiltà eugenetica pilotata dal commercio. In quinto luogo, una serie di nuovi studi scientifici sulle basi genetiche del comportamento umano e la sociobiologia, che privilegia la natura rispetto all'educazione, forniscono un contesto culturale per l'estesa accettazione delle nuove idee e tecnologie. In sesto luogo, il computer fornisce il mezzo di comunicazione e di organizzazione per gestire le informazioni genetiche che costituiscono la materia delle biotecnologie. In tutto il mondo, i ricercatori usano comunemente i computer per decifrare, scaricare, catalogare e organizzare le informazioni genetiche, e ciò permette loro di creare un nuovo magazzino di capitale genetico da usare nell'era bioindustriale. Le tecnologie del calcolo e quelle genetiche si stanno fondendo in una potente nuova realtà tecnologica (278). In settimo luogo, un nuovo atteggiamento culturale nei confronti dell'evoluzione sta cominciando a rimpiazzare l'impostazione neo-darwiniana con una visione della natura che sia compatibile con gli assunti delle nuove tecnologie e della nuova economia globale» (279).

Parte di ciò che Rifkin descrive, e denuncia, è un "incubo" solo per chi sia legato ai pregiudizi ideologici egualitari e umanisti dell'autore, e per altri potrebbe anzi contenere gli elementi di un sogno di scala fino ad oggi impensabile. Per il resto, ovvero per la parte più genericamente pessimista, lo scenario ipotizzato è certo perfettamente possibile, ma non è che una delle alternative che si aprono al "secolo biotech"; e ciò che unicamente può evitarlo non saranno certo atteggiamenti di luddismo primario, proibizionismi improbabili, o "denuncie" di questo tipo, ma solo una volontà tragica, di natura politica e culturale, che raccogliendo la sfida della postmodernità trasformi la crisi che si annuncia nell'opportunità di una rifondazione ed una rinascita dei destini storici dell'uomo. Come insegna Hölderlin, «dove il pericolo è più grande, là nasce ciò che salva» (280).


Il secolo biotech

Il secolo che Jeremy Rifkin definisce "il secolo della biotecnologia" è quello cominciato pochi anni fa, ma in realtà i suoi primi passi li muove attorno la metà del Novecento. Per la verità già dal 1914 Hermann Müller aveva provocato le prime mutazioni artificiali in un animale sottoponendo mosche della frutta ai raggi X. «Per la prima volta, una forza artificiale, una macchina ai raggi X, aveva cambiato la struttura fondamentale di un animale. Questo era un impatto pratico, tangibile, non un trucco, non un cambiamento provocato da un incrocio vecchio stile. I media riportarono l'esperimento e dissero che un giorno, forse presto, gli scienziati avrebbero creato individui progettati» (281). Ma all'epoca nessuno aveva idea di quale fosse esattamente la base biologica dei geni.

All'origine potremmo invece porre forse la scoperta del ruolo degli acidi nucleici con riguardo all'ereditarietà da parte di Oswald Avery. Avery pubblicò la sua scoperta nel febbraio 1944, in un articolo nel Journal of Experimental Medicine. «Non fu, come un profano potrebbe aspettarsi, intitolato "Eureka! Rivelato il segreto della vita sulla Terra! I geni sono fatti di DNA!". Il codice tribale della scienza, specie negli anni quaranta, richiedeva ai ricercatori di attenersi strettamente ai fatti, e sperare che i loro colleghi potessero vedere attraverso il gergo anodino e rendersi conto, cosicché all'articolo di Avery fu dato il titolo impenetrabile di "Studi sulla natura chimica della sostanza che induce trasformazioni nei tipi di pneumococco. Induzione di una trasformazione da parte di una frazione di acido desossiribonucleico isolato da uno pneumococco di tipo III"» (282).

Tale scoperta costituisce anche una prima premonizione del matrimonio annunciato tra genetica ed informatica. Certo, la genetica di Mendel era "digitale" nel suo essere particolata rispetto agli assortimenti indipendenti di geni attraverso i pedigree. Ma la base fisica dei geni era sconosciuta, ed essi avrebbero ancora potuto essere elementi con qualità, varietà, incidenza, variabili in modo continuo ed inestrecabilmente connessi alla loro manifestazione fenotipica. Quello che diventerà la genetica di Crick [alias, alias] e Watson è intrinsecamente digitale e discontinua, sino al suo cuore stesso, la famosa doppia elica. La dimensione di un genoma può essere esattamente misurata in gigabasi con la stessa precisione con cui la capienza di un disco per computer può essere misurata in gigabytes. «Oggi la genetica è pura tecnologia dell'informazione. E' esattamente per questo che un gene antigelo può essere copiato da un pesce artico ed incollato in un pomodoro» (283).

La prima base per ricadute pratiche venne comunque alla luce verso metà degli anni cinquanta, quando i citologi riuscirono a trovare dei metodi per la costruzione del "carotino", ovvero per la separazione dei cromosomi dal resto della cellula, così da consentirne lo studio al microscopio elettronico. Per la prima volta, fu così possibile correlare le anomalie dei cromosomi con le malattie genetiche, facendo nascere «la genetica medica, ovvero quel ramo della genetica che abbraccia lo studio delle malattie genetiche sia a livello cromosomico sia a livello del paziente» (284).

Nel 1968, due ricercatori svedesi, Torbjörn O. Caspersson e Lore Zech, scoprirono poi che ogni gene ha una diversa quantità delle quattro basi azotate che formano i nucleotidi, e cioè guanina, adenina, timina, e citosina, nonché individuarono un composto, la mostarda di acridina e chinarcina, che ha affinità con la guanina, e consente perciò di colorare i cromosomi evidenziando le quantità di guanina, rendendo per la prima volta possibile l'identificazione di singoli cromosomi umani. Con l'aggiunta di altre simili tecniche di colorazione, verso la fine degli anni settanta i genetisti si trovarono già in grado di collegare tratti genetici specifici a malattie note, tanto che al primo convegno nel 1972 sulla mappatura genica venne annunciata la mappatura di circa cinquanta geni supplementari, portando il numero a centocinquanta, destinati ad arrivare a circa millecinquecento nel 1986.

Nel 1988 venne quindi lanciato il Progetto Genoma [alias], promosso da Watson e Crick [alias, alias] (285) e che vide coordinati tutti gli enti pubblici di ricerca statunitensi in uno sforzo miliardario e pluriennale volto alla mappatura dell'intero DNA umano (286). Poco dopo altri governi lanciano progetti analoghi, ma sarà una società commerciale, la Celera Genomics, a completare il progetto nell'aprile del 2000, circa un decennio in anticipo sul previsto, lavorando a partire dai dati già resi pubblici e sviluppandoli sulla base dell'impiego massiccio di risorse di calcolo computerizzato, e richiedendo alcune migliaia di brevetti in relazione ai risultati conseguiti (287). Naturalmente, la mappatura del codice genetico è solo l'inizio per identificare il ruolo e la funzione di ciascun singolo gene, ma costituisce il presupposto per giungere a capire il funzionamento dell'intero corredo genetico di un dato organismo. A questo punto sono del resto da tempo in corso analoghi "Progetti Genoma" per piante, microorganismi ed altre specie animali, per un investimento mondiale complessivo di miliardi di dollari (288).

Richard Dawkins ha d'altronde recentemente provveduto ad estrapolare nel futuro l'andamento di tempi e costi per la mappatura genetica, notando come nel 1965 è costato circa mille sterline per "lettera", o coppia di basi, sequenziare l'RNA di alcuni batteri, che nel 1975 sequenziare il DNA del virus .X174 è costato circa dieci sterline per coppia; e che nel 1995 eravamo già a una sterlina nel caso del nematoda Caenorhabditis elegans. Quando è stato completato il progetto Genoma Umano nel 2000, eravamo già a 10 pence. Ora, anche ammettendo che tale evoluzione si assesti su una progressione simile a quella dettata dalla legge di Moore (289), la previsione più prudente parrebbe indicare che al più tardi nel 2050 saremo in grado di sequenziare l'intero genoma di un singolo individuo umano (o, se per questo, animale o vegetale) con tempi e prezzi simili a quelli oggi applicabili ad un banale esame del sangue (290).

Craig Venter ritiene invece che entro il 2008 il suo Center for Advancement of Genomics (oggi J. Craig Venter Institute) sarà in grado di sequenziare l'intero genoma individuale di un uomo per circa mille dollari, ed altri fanno previsioni ancora più aggressive (291).

Naturalmente, conoscere il codice genetico di un organismo non significa ancora capire tutto di quell'organismo, e come nota Dawkins ci sono tre passi ulteriori da fare. Il primo, difficile ma ormai completamente risolto, è calcolare la sequenza di aminoacidi nella proteina prodotta dal gene dalla sequenza di nucleotidi di quest'ultimo. Il secondo, è calcolare la forma tridimensionale della proteina dalla sequenza degli aminoacidi che la compongono. Il terzo, è calcolare che embrione il gene è destinato a produrre tenuto conto del suo "ambiente" (costitutuito in primo luogo dagli altri geni compresenti, ma anche dalla cosiddetta informazione perigenetica) (292). L'idea è che sempre nel 2050 sia possibile imputare in un computer il codice genetico di un mammifero, ed ottenere il calcolo del tipo di embrione che tale codice è destinato a produrre. E' possibile d'altronde che stante l'irriducibilità dei calcoli necessari, il programma e l'hardware più efficienti per effettuare tale calcolo restino, come vedremo,... il gene stesso ed un utero (293).

A sua volta, il calcolo delle differenze tra il genoma di specie diverse, per esempio gli esseri umani e gli scimpanzé, consente di individuarne i tratti distintivi, e magari ricostruire specie diverse ed estinte imparentate con entrambi (294). Altra questione non irrilevante è la prospettiva dell'introduzione di alterazioni importanti negli animali superiori: «I bioetici discutono frequentemente le possibili sfide di un'intelligenza umana incrementata», nota Gregory Stock [alias], «senza rendersi conto che tali possibilità saranno necessariamente precedute da incrementi su animali, dato che non esistono altri modi per sviluppare e testare interventi di questo tipo. Raddoppiare come è stato fatto l'arco di vita di un verme o di un topo può non minacciare le nostre nozioni di identità umana, ma incrementare sostanzialmente l'intelligenza di un topo è un'altra questione. Qualsiasi sostanziale modifica o miglioramento dell'intelligenza di una scimmia superiore o di un cane solleverebbe ulteriori questioni, specialmente se la loro intelligenza venisse ad avvicinarsi alla nostra» (295).

Scriveva Faye già nel 1998: «Una delle tesi centrali della nozione di archeofuturismo che cerco di promuovere è la seguente: in modo paradossale la tecnoscienza del XXI secolo sta mettendo alle corde la modernità. Essa rischia di riabilitare concezioni inegualitarie e arcaiche. Un semplice esempio in materia di genetica: la mappatura del genoma umano, lo studio delle malattie ereditarie, la messa a punto delle terapie genetiche, le ricerche sulla chimica del cervello, sull'AIDS e sulle malattie virali, etc., cominciano già a far apparire concretamente, nei suoi fattori determinanti, l'ineguaglianza dell'uomo. La comunità scientifica è presa tra l'incudine e il martello: come al tempo stesso obbedire alla censura del politically correct, cedere al terrorismo intellettuale dell'egualitarismo, e proclamare verità scientifiche che potrebbero rivelarsi terapeuticamente utili (296)? Ci sarà conflitto, e conflitto grave. Già ora i genetisti, i sessuologi, i virologi, hanno sempre più difficoltà a nascondere che uno dei mitemi canonici della religione dei Diritti dell'Uomo, cioè il postulato della "sostanziale" uguaglianza genetica dei diversi gruppi umani e quello dell'individualizzazione genetica degli uomini è scientificamente insostenibile» (297).

E aggiunge: «D'altra parte, è chiaro che le biotecnologie (procreazione assistita, impianti biotronici, organi artificiali ed addizionali, clonazione, terapie geniche, manipolazione del genoma, tutte tecnologie che senza osare pronunciare la parola rispondono ad una logica eugenetica), non saranno accessibili a tutti né rimborsabili dal sistema sanitario nazionale, né applicabili altrove che nei grandi paesi industrializzati. Un eugenismo di fatto, proposto ad una minoranza la cui aspettativa di vita ne uscirà in più rafforzata: il colmo dell'ineguaglianza sta per scivolare come un virus nel cuore della civiltà egualitaria e moderna. Altro problema seccante: come reagiranno i nostri umanisti quando saranno prodotte chimere (ibridi uomo-animale) e cloni per creare banche d'organi e del sangue, migliorare lo sperma, testare medicine? Tenteranno di vietarlo? Non ci riusciranno. Per sopportare lo choc globale della genetica del futuro, occorrerà una mentalità arcaica». Una mentalità non-umanista, che sia in grado di orientare, legittimare e integrare il nuovo potere dell'uomo su se stesso nel quadro della costruzione di un destino collettivo di razza e di specie, e che appare oggi alternativa necessaria alla disumanizzazione che la paralisi e la resa dell'ideologia dominante finiscono per comportare.

Infatti, nel corso del periodo esaminato e sino ad oggi, l'accumulo con velocità crescente di nuovi dati e lo sviluppo di nuovi metodi per isolare ed identificare i geni si sono costantemente affiancati alla scoperta di una complessa serie di tecniche di manipolazione e trasformazione dei geni stessi. Uno dei più notevoli di questi metodi è quello del DNA ricombinante. Nel 1973 venne realizzata da due biologi di Stanford, Paul Berg e Maxine Singer, un'impresa che, come nota Rifkin, «secondo alcuni esperti di biotecnologia, nel mondo della materia vivente, è paragonabile per importanza alla scoperta del fuoco» (298). I due ricercatori spiegarono di aver preso due organismi non correlati tra loro, ossia che non si accoppiano in natura, di aver isolato un frammento di DNA da ciascuno, e quindi di aver ricombinato i due frammenti di materiale genetico (299).

Se per più di diecimila anni gli uomini hanno manipolato la biologia del mondo vegetale ed animale, e più o meno indirettamente la propria, le tecnologie in questione rappresentano un salto di qualità evidente. L'austera e conservatrice Enciclopedia Britannica, già nel 1976 scriveva al riguardo: «come in passato abbiamo manipolato la plastica e i metalli, adesso stiamo costruendo materiali viventi» (300). In effetti, le tecniche tradizionali di ibridazione possibili tra specie diverse incontrano limiti severi in campo vegetale, ed ancor più in campo animale, dove tali limiti sono stati indeboliti solo in modo minimo dalla fecondazione artificiale. L'ingegneria genetica supera invece radicalmente le costrizioni imposte dai confini di specie.

Lo stesso concetto di specie come entità riconoscibile, unica, e stabile per sua natura, diventa un anacronismo quando cominciamo a ricombinare i tratti genetici superando i confini dell'interfecondità "naturale o quasi". Rifkin cita al riguardo tre dei primissimi esempi pratici dei risultati raggiungibili.

«Nel 1983, Ralph Brinster dell'Università della Pennsylvania inserì in embrioni di topo i geni umani che regolano l'ormone della crescita. I topi espressero i geni umani, si svilupparono con una rapidità più che doppia del normale e raggiunsero una taglia più che doppia di qualsiasi altro membro della stessa specie, trasmettendo la relativa caratteristica alla propria discendenza. A tutt'oggi esistono discendenti di questo esperimento, in cui geni umani sono stati permanentemente incorporati nel corredo cromosomico di questi animali. Agli inizi del 1984, alcuni scienziati lavorarono su cellule embrionali di capra e pecora, trasferendo l'embrione che ne risultò in un animale che diede alla luce una chimera capra-pecora, che costituisce il primo esempio di fusione di due animali assolutamente non correlati. Nel 1986 altri scienziati presero il gene che codifica l'emissione della luce nella lucciola e lo inserirono nel codice genetico di una pianta di tabacco. Risultato: le foglie di tabacco brillavano al buio!» (301).

Questi primi risultati, sia pure inutili o vagamente orrendi, naturalmente non sarebbero stati realizzabili utilizzando le tecniche di riproduzione o ibridazione tradizionale. Nei moderni laboratori biotecnologici le possibilità di ricombinazione sono al contrario virtualmente illimitate. Le nuove tecnologie consentono di combinare materiale genetico di qualsiasi provenienza, in vista di qualsiasi possibile scopo. Le caratteristiche genetiche degli organismi viventi si avviano perciò a divenire frutto unicamente di scelte e preferenze esplicite.

Giova sottolineare anche che tale radicale trasformazione del nostro rapporto con la natura non è data dall'applicazione delle tecniche in questione, ma dall'esistenza stessa della possibilità di applicarle. È perfettamente possibile sparare con una mano davanti agli occhi, e lasciare che "il destino segua il suo corso", ma nel momento in cui ci vedo, o posso vederci se lo desidero, la responsabilità di dove vada la pallottola resta comunque mia, così come resta mia quella di piantare varietà vegetali meno produttive, o non rimediare ad un difetto genetico in un embrione. Mentre conservare immutate specie antiche, o addirittura resuscitare specie estinte (302), rientra tra le opzioni possibili, tutto questo non è più frutto ormai che di un (possibile) gusto o interesse o scelta in tale senso, esattamente come lo sarà il permettere la nascita di un bambino con malformazioni di origine genetica.

La declinazione dei primi impieghi delle acquisizioni suddette, nel clima culturale contemporaneo e in mancanza di qualsiasi ispirazione storico-politica, è ovviamente mercantilista, nel quadro di una dialettica limitata alla contraddizione tra moralismo impaurito e "mercato". Gli equilibri di forze, nel panorama finanziario mondiale e nei rapporti tra i singoli paesi, ne sono comunque già significativamente toccati.

Centinaia di aziende di bioingegneria si contendono posizioni di mercato, cervelli, brevetti e capitale di rischio (in particolare nelle borse note come "Nuovi Mercati" e dopo l'esplosione della bolla speculativa della New Economy della fine anni novanta), con nomi come Amgen, Organogenesis, Genzyme, Calgene, Mycogen; ma guerre di posizione rilevanti coinvolgono pressoché tutte le multinazionali farmaceutiche, della chimica e del comparto agricolo-alimentare, tra cui Novartis, DuPont, Monsanto, Pfizer, Eli Lilly, Dow Chemical, Ciba-Geigy, Bayer, Pharmacia, etc. (303)

Le applicazioni sono praticamente illimitate, e verranno ad incidere progressivamentesulle risorse e sull'indipendenza e potere economico dei paesi coinvolti.

Nell'industria mineraria, i ricercatori stanno sviluppando nuovi microorganismi capaci di rimpiazzare i minatori e le loro macchine nell'estrazione dei metalli. Già dall'inizio degli anni ottanta sono stati testati microorganismi che consumano metalli come cobalto, ferro, nickel e manganese. Una società ha riferito di aver introdotto con successo un batterio «in composti a bassa concentrazione di rame, nei quali ha prodotto un enzima che ne elimina i sali, lasciando una forma di rame quasi pura» (304). Per i metalli a bassa concentrazione, difficili da estrarre con metodi tradizionali, saranno i microorganismi a fornire lo strumento utile a renderne possibile l'estrazione e la lavorazione. Simili applicazioni sono già in atto per degradare i minerali nei quali è presente oro metallico, prima della sua estrazione chimica, così da incrementare la resa di quest'ultima. Rileva Rifkin: «Si pensa che in futuro l'industria mineraria incrementerà notevolmente l'uso di microorganismi, come la via più economica per utilizzare rocce metallifere a bassa concentrazione e quei minerali che normalmente verrebbero scartati» (305).

Tra le applicazioni utili a minimizzare l'impatto dannoso dell'uomo sull'ambiente e i pericoli insiti in alcune lavorazioni viene citata altresì la progettazione di microorganismi che consumino il gas metano presente nelle miniere, una delle maggiori cause di incidenti, a seguito della sua tendenza ad esplodere (306). Le biotecnologie vengono considerate effettivamente uno strumento promettente per la bonifica ambientale, e in particolare per la sostituzione delle sostanze tossiche con sostanze utili o quanto meno innocue da parte di funghi, alghe e batteri appositamente modificati (307). L'Institute for Genomic Research ha d'altronde sequenziato il genoma di un microbo caratterizzato da una elevata capacità di assorbire radiazioni, e conta di utilizzare le conoscenze acquisite per creare nuovi metodi atti alla gestione delle scorie radioattive.

In realtà, a seconda dei casi, risulta interessante tanto la capacità di aumentare quanto quella di ridurre l'assorbimento di scorie chimiche o radioattive da parte di una data specie vegetale, così come di qualsiasi altro elemento. Mentre una specie coltivata a scopo di bonifica è immaginabile debba immagazzinare quanto più possibile degli elementi indesiderabili, il contrario è vero per una specie allevata a fini alimentari, magari sul medesimo territorio inquinato, in cui al più andrà incrementato l'assorbimento di oligoelementi che ne migliorino le caratteristiche nutrizionali, e in particolare la loro collocazione nella parte edibile della pianta (ad esempio, il frutto, o le foglie). Ma il concetto può essere spinto ancora un po' più in là. Per esempio, la Purdue University in Indiana sta studiando l'alterazione dell'assorbimento vegetale di metalli pesanti non solo a scopo di bonifica, ma di addirittura di riciclaggio dei metalli stessi (308). Alcune specie di alberi, in particolare pioppi geneticamente modificati, sono in grado da soli di pompare tramite il loro sistema radicale, concentrare e biodegradare pericolosi composti organici, rimpiazzando un'intera filiera di bonifica industriale (309). Le società di silvicoltura stanno inoltre esaminando la possibilità di isolare geni che possano essere inseriti negli alberi per farli crescere più velocemente, in tal caso non solo a fini di rimboschimento, ma produttivi. La Calgen ha già negli anni novanta isolato il gene dell'enzima che controlla la produzione della cellulosa nelle piante, in vista di un'utilizzo per ottenere piante maggiormente efficienti per le industrie della pasta di cellulosa e per le cartiere.

Altri esperimenti, industrialmente ancora più rilevanti, sono in corso per quello che riguarda il settore energetico, con particolare riguardo alla ricorrente proposta di sostituire i combustibili fossili con l'etanolo, il normale alcool presente nelle bevande e nei disinfettanti, ad esempio come carburante per i veicoli, o per la produzione di energia elettrica. A tale fine sono in corso esperimenti volti ad aumentare la produttività specifica delle risorse vegetali, come la canna da zucchero. Un batterio del ceppo Escherichia coli è stato reso capace di consumare i residui agricoli, gli scarti di produzione alimentare, i rifiuti solidi urbani, convertendoli direttamente in etanolo. Sempre in vista della sostituzione del petrolio, una ditta britannica chiamata ICI pare abbia sviluppato batteri in grado di produrre plastica con varie caratteristiche, mentre nel 1993 Carlo Sommerville, del centro di botanica del Carnegie Institute di Washington ha inserito un gene in una pianta di senape che la rende ugualmente capace di produrre sostanze plastiche, che la Monsanto si ripromette di utilizzare industrialmente.

La suddetta Monsanto, una delle maggiori multinazionali attive nel settore chimico, ha liquidato integralmente nel 1997 la sua divisione attiva nel campo della chimica tradizionale, ed ha integralmente ancorato i propri programmi di ricerca, sviluppo e marketing alle biotecnologie. Ricorda ancora Rifkin: «Nel campo dell'agricoltura, la bioingegneria viene considerata una parziale alternativa all'industria chimica e ai suoi prodotti. Gli scienziati sono impegnati a creare nuove coltivazioni che possano prendere l'azoto direttamente dall'aria, piuttosto che essere obbligati a fare affidamento sui costosi fertilizzanti petrolchimici attualmente in uso. Inoltre si fanno esperimenti per trasferire le caratteristiche genetiche da una specie all'altra al fine di migliorare il valore nutrizionale delle piante e aumentarne il raccolto e il rendimento. [...] Le prime varietà alimentari geneticamente trattate furono piantate nel 1996. Più di tre quarti dei campi di cotone dell'Alabama sono stati modificati geneticamente al fine di combattere gli insetti nocivi. Già nel 1997 negli Stati Uniti soia geneticamente modificata veniva piantata in più di otto milioni di acri e grano dal genoma ugualmente modificato in più di tre milioni e mezzo di acri; nel 1998, siamo ai 28 milioni di ettari su scala mondiale» (310).

Batteri e vegetali non sono certo gli unici organismi coinvolti. «In Florida, nel 1996, è stato realizzato il primo insetto geneticamente modificato, un acaro predatore. I ricercatori dell'Università della Florida sperano che possa mangiare gli altri acari che danneggiano le fragole e gli altri raccolti. Gli scienziati dell'Università della California a Riverside hanno svolto invece la sperimentazione per inserire un gene letale nel corredo cromosomico dell'antonoma rosa del cotone, un parassita che causa ogni anno nei campi danni per milioni di dollari. Il gene killer si attiva in primavera, uccidendo i giovani parassiti prima che essi possano danneggiare il cotone, accoppiarsi e riprodursi. L'idea dei ricercatori Thomas Miller e John Peloquin è quella di allevare fino a maturità milioni di questi antonomi geneticamente modificati, in modo da rilasciarli pronti ad accoppiarsi con quelli del ceppo selvatico. La progenie conterrà il gene letale e di conseguenza morirà in massa per effetto di questa nuova forma di peste volutamente creata» (311).

Se la rivoluzione del secondo uomo presto o tardi vede sempre nell'avvento dell'agricoltura un elemento caratterizzante, non è detto che tale situazione sia destinata a restare immutata, a meno che non sia la politica a decidere che l'agricoltura stessa vada conservata per ragioni sociali o di altro genere. Se la fantascienza ha da tempo preconizzato l'avvento delle colture idroponiche, vi è chi ritiene che a breve termine la maggior parte dei prodotti agricoli potranno effettivamente essere fabbricati indoor e industrialmente.

Già alla fine degli anni ottanta, la Escagenics annunciava di essere riuscita a produrre vaniglia in laboratorio. La vaniglia è l'essenza più diffusa in America, ed è contenuta in un terzo dei gelati venduti, senza contare gli altri utilizzi in pasticceria, profumeria e cosmetica, ma ha un costo di produzione elevato, richiedendo un'impollinazione manuale e delicati processi di raccolta. La tecnologia proposta dalla Escagenics, basata sullo splicing genetico, dovrebbe consentire di ottenere la vaniglia da colture batteriche modificate con il gene della pianta relativa, in grandi serbatoi, eliminando d'un colpo la necessità del seme, della pianta, del terreno di coltura, della sua concimazione, della coltivazione, del raccolto e del contadino. Analogamente, vescicole di aranci e limoni sono stati fatti crescere da colture di tessuti, anticipando il momento in cui la spremuta verrà fatta "crescere" in grandi vasche, senza alcuna necessità di piantare agrumeti (312). Similmente, secondo un articolo del Washington Post (313), il Dipartimento dell'Agricoltura degli Stati Uniti ha persuaso cellule di cotone a riprodursi in serbatoi pieni di sostanze nutritive; essendo tale ambiente privo di microbi, l'idea sarebbe di utilizzare tale procedura inizialmente per la produzione di garze sterili, per poi generare le economie di scala utili a stabilire un'offerta competitiva per il settore tessile in genere.

Due biologi dello stesso dipartimento, che all'epoca avevano l'amministrazione dell'attività di ricerca, nel 1994 hanno rilasciato un'intervista (314) in cui prevedono che ai campi verrà lasciata unicamente la coltivazione di biomasse perenni, senza altro scopo che quello di intercettare l'energia solare mediante fotosintesi. Il prodotto potrebbe poi essere convertito mediante enzimi in una soluzione zuccherina, da sfruttare come sostanza nutritiva per la produzione industriale di pasta di cellulosa ricavata da colture di tessuti, che potrebbe a sua volta venire ricostituita ed elaborata in forme e consistenze diverse per imitare quelle associate alle coltivazioni "cresciute sul terreno", in ambienti altamente automatizzati, e con minimo impiego di manodopera.

L'impatto sociale esplosivo di tutto ciò è facilmente immaginabile.


OGM ed altri mostri

In attesa di tali rivoluzionari sviluppi, è anche assolutamente vero che conosciamo pochissimo sugli effetti imprevisti ed indesiderati delle modificazioni genetiche già attuate nell'agricoltura "normale", in particolare per ciò che concerne gli alimenti, con riguardo alla salute dei consumatori.

Le questioni in materia di OGM ("organismi geneticamente modificati") sono comunque radicalmente mal poste, a partire dalla polemica che vede insieme opposti gli Stati Uniti (principali produttori di OGM) e i paesi "in via di sviluppo" (principali consumatori, almeno potenziali) all'Unione Europea, serrata dai patti GATT sulla globalizzazione dei commerci, riguardo ai rischi degli stessi per i consumatori (315).

Se è per questo, infatti, non sappiamo molto neppure sugli effetti a lungo termine delle sostanze chimiche utilizzate in agricoltura o dall'industria alimentare.

Anzi, in effetti, solo oggi cominciamo ad avere un'idea dei contenuti nutritivi e tossici delle stesse pochissime varietà vegetali "naturali" utilizzate a fini alimentari, e di una parte di quelle invece deliberatamente ibridate e selezionate che sono da sempre utilizzate in agricoltura; ma tuttora il numero di composti che esse contengono, nonché gli effetti a medio-lungo termine di una loro ingestione a scopi alimentari, restano incerti e oggetto di dibattito, così come le differenze al riguardo legate alle diverse varietà disponibili. Ai difensori anti-OGM dell'agricoltura "tradizionale" gioverebbe ricordare come la medesima agricoltura tradizionale in realtà si sia sempre basata su null'altro che l'empirismo del "ciò che non uccide ingrassa" (316).

Neppure sappiamo che succede a mangiare animali che sono stati allevati a mangimi transgenici, o del resto nemmeno con alimenti molto più tradizionali, quali quelli ricavati dalle carcasse, per nulla transgeniche, cui è (presumibilmente) attribuibile la diffusione della sindrome della "mucca pazza" (317). Altrettanto poco sappiamo cosa succede con l'assunzione di farmaci derivati da organismi transgenici, pacificamente diffusi anche in Europa.

Ed è probabile che continueremo a saperne meno di quanto sarebbe possibile, ed auspicabile, sinché la rivoluzione biologica in questione sarà governata dalle prospettive di profitto immediato della società per azioni coinvolta, o peggio dall'andamento dei suoi titolo in borsa nel corso della settimana successiva (318); o sino che addirittura ogni ricerca al riguardo sarà, come in Europa, scoraggiata o vietata.

In realtà, la maggior parte degli alimenti di origine vegetale provengono da millenni da versioni "geneticamente modificate" di varietà selvatiche, realizzate in particolare attraverso ibridazioni di specie non naturalmente interfeconde, innesti, mutazioni provocate, selezioni orientate, clonazioni tramite talea, etc. Negli stessi Stati Uniti, dove sono più forti non solo la lobby agricolo-industriale ma anche il pregiudizio ideologico avverso a queste pratiche (319), la soglia di attenzione resta semmai particolarmente elevata per le nuove tecniche, e in fin dei conti, come nota Bernard Schwetz, «quando si ha a che fare con colture biotech, sono giusto uno o due geni ad essere cambiati nella struttura della pianta, con l'ibridazione vi sono molti più geni coinvolti e certamente più incertezze sul risultato» (320).

Le principali differenze degli "OGM moderni" sono due, e nessuna delle due ha direttamente a che fare con la salute di chi se ne nutre: la prima, il fatto che la modifica al corredo genetico della pianta avviene attraverso il trapianto diretto di porzioni di DNA; la seconda, che viene oggi riconosciuta un'esclusiva ventennale e soprattutto internazionale a chi le sviluppa, attraverso un titolo brevettuale.

Ha così perfettamente ragione Enzo Caprioli quando scrive: «Per assumere adeguate posizioni [riguardo agli OGM] non occorre e non basta sapere tutto di genetica, occorre invece riconoscersi in una visione del mondo che sappia dare alle cose il loro giusto valore e ai valori il loro giusto riconoscimento» (321). Resta però ancora da capire quali comportamenti pratici immediati tali valori debbano in effetti dettare, e comunque che sorte possa attendere chi non disponga delle relative tecnologie – tenuto anche conto che specie geneticamente modificate possono comunque liberare materiale genetico nella biosfera, senza alcun riguardo per le frontiere nazionali e le normative locali. E qui esiste effettivamente un aspetto politico nel senso più immediato del termine. Il problema non è infatti l'utilizzo in sé degli OGM in agricoltura, che sono pericolosi o meno come qualsiasi altra varietà vegetale commestibile o velenosa "naturale", ma chi oggi detiene (o meglio, riesce a farsi legalmente tutelare) posizioni oligopolistiche, privative e segreti industriali al riguardo. Già nel 2002, infatti, più di un quinto dell'area coltivata nel mondo a granoturco, soia, cotone o cannella era già occupata da varietà transgeniche, con un aumento da cinque a sei milioni dei coltivatori che in sedici nazioni piantavano tali varietà rispetto all'anno precedente; e il processo sta accelerando (322), checché ne pensi un ministro italiano come Alemanno, che pare quasi sorpreso di poter assumere una posizione che risulta in qualche modo connotata in un senso che la sua parte politica ingenuamente considera "nazionalista" o "tradizionalista" o "europeista", ma i cui esiti finali appaiono profondamente incerti.

Nota al riguardo Rifkin: «Le prime dieci industrie agrochimiche, tutte multinazionali amministrate dagli USA, nel 1996 controllavano già l'81% dei 29 miliardi di dollari del mercato agrochimico. Le prime dieci industrie farmaceutiche controllano il 47% dei 197 miliardi di dollari del mercato farmaceutico. Similmente, dieci aziende multinazionali controllano oggi il 43% dei 15 miliardi di dollari del mercato farmaceutico veterinario. Al top della lista ci sono dieci compagnie alimentari internazionali i cui guadagni superavano di gran lunga i 211 miliardi di dollari nel 1995. [...] Alcune delle più grandi società operanti nel campo delle scienze della vita si stanno posizionando strategicamente al fine di controllare la maggior parte del mercato bioindustriale globale nel secolo [oggi appena iniziato]. La Novartis, un gigante mondale risultato dalla fusione della farmaceutica Sandoz e dell'agrochimica Ciba-Geigy, è un esempio tipico di concentrazione industriale della nuova era. La Novartis risulta oggi la più grande società agrochimica del mondo, la seconda nel campo delle sementi, e la quarta nel campo dei prodotti veterinari. Sta inoltre accampando diritti nel nuovo settore della genetica umana. Nel 1995 la Sandoz, poi confluita nella Novartis, aveva comprato la Genetic Therapy Inc. per 295 milioni di dollari, ditta che detiene il brevetto sulla tecnica usata per espiantare cellule da un paziente, modificarne la struttura genetica e reimpiantarle nel paziente. [...] La Monsanto ha acquistato la Holden Foundation Seeds nel 1997 per 1,2 miliardi di dollari. Più del 35% delle piantagioni di mais degli Stati Uniti deriva dal germoplasma sviluppato dalla Holden. La Monsanto detiene inoltre il 40% della quota di una seconda grande industria di sementi, la DeKalb. Le recenti acquisizioni includono la Asgrow, industria leader nella soia, la Agracetus e la Calgene, due ditte di biotecnologia agricola di notevole levatura. La Dow Elanco ha acquistato il 65% del capitale della Microgen, una società con un numero di brevetti di potenziale valore in campo agricolo. La DuPont, quinta ditta agrochimica del mondo, ha acquistato nel 1997, per 1,7 miliardi di dollari, il 20% della Pioneer Hi-Bred, l'industria di sementi più grande del mondo. La DuPont ha inoltre acquisito la Protein Technology International dalla Alston Purina per 1,5 miliardi di dollari».

E' facile tirare le conclusioni di questa situazione, che dall'epoca del quadro di Rifkin si è ulteriormente e notevolmente evoluta nella direzione indicata. E il fatto che l'interesse in materia di OGM non rappresenti un'esclusiva delle multinazionali, ma di chiunque si renda conto dello scontro di potere che va delineandosi con riguardo alla detenzione delle relative tecnologie, è attestato dalla posizione di relativa avanguardia della Cina, per non parlare della Cuba di Fidel Castro, che sta investendo in questo campo buona parte delle sue (scarse) risorse, e ha da tempo costituito un Centro di Ingegneria Genetica e Biotecnologia all'Avana (323).

In questo quadro, per la discussione sugli OGM non ha alcuna importanza se e quali varietà attuali mantengano le promesse, se questa o quella ricerca darà esito positivo, se gli OGM siano sempre e davvero economicamente più vantaggiosi delle varietà non modificate, se questo o quel prodotto sarà rifiutato dai consumatori, etc. Ciò che è impossibile, o non funziona, o è economicamente sconveniente, o fallisce, o è organoletticamente sgradevole, non ha ovviamente bisogno di essere vietato (324). Ciò che crea un potenziale problema è invece tutto quello che alla fine successo ce l'abbia, e si riveli drasticamente competitivo da un punto di vista economico (e biologico!), condizionando l'indipendenza agricola e le stesse prospettive di autosufficienza alimentare dei paesi e delle aree coinvolte (325).

La preoccupazione per l'impoverimento genetico connesso alla spinta verso la monocultura generata dal mercato (per altro da secoli) è legittima, così come quella per il fatto che le società menzionate stanno liberando nella biosfera migliaia di nuove specie, alterate geneticamente, con conseguenze ecologiche imprevedibili. Ma tutto ciò sta già succedendo, e non sarà certo sufficiente l'introduzione di una nuova forma di proibizionismo, foss'anche su scala continentale, a impedirlo. Solo maggiori investimenti europei, da un lato nella preservazione delle varietà naturali ancora disponibili e nel loro incremento, dall'altro in una ricerca concorrenziale con quella statunitense, possono limitare tali rischi.

Più immediati ancora sono gli spostamenti di potere che ciò comporta. Mentre come abbiamo visto non esiste alcuna garanzia che effettivamente non avvenga scambio genetico al di fuori dei territori coltivati con specie transgeniche (ivi compresi con le coltivazioni pretesamente naturali o addirittura "biologiche", e con le specie selvatiche), le pur legittime preoccupazioni per la sicurezza convergono purtroppo... con l'interesse economico delle società in questione a rendere naturalmente non-riproducibili le varietà vegetali commercializzate, nell'attribuire alle multinazionali in questione un monopolio di fatto nell'economia globalizzata, che tende a rendere definitiva la dipendenza economica dal Sistema dei singoli paesi e spazi continentali asserviti (326).

Ciò si aggancia con la questione della proprietà industriale sui portati delle biotecnologie. Rileva ancora Rifkin: «La restrizione commerciale sui semi del mondo è avvenuta in poco meno di un secolo. Appena un secolo fa, centinaia di milioni di contadini sparsi in tutto il pianeta controllavano i propri rifornimenti di semi, commercializzandoli liberamente tra i propri amici e vicini. Oggi, quasi tutti i rifornimenti delle sementi sono stati comprati, manipolati e brevettati dalle società attive nel settore e considerati come proprietà intellettuale» (327). A loro volta, tali sementi tendono ad essere le uniche compatibili con i prodotti (diserbanti, insetticidi, concimi,...) fabbricati dalla medesima società, e con gli equilibri ecologici modificati dall'utilizzo intensivo di tali prodotti, così che l'area e la stessa possibilità economica dell'agricoltura tradizionale ne viene progressivamente ristretta, prima ancora di ritrovarsi fuori mercato non appena esposta alla concorrenza dei nuovi metodi integrati.

La questione della proprietà intellettuale sulla biotecnologia non può d'altronde essere risolta facilmente, se non nel quadro di soluzioni radicali e di drastica rottura. Se il riconoscimento di un monopolio brevettuale consente ad un pugno di multinazionali di rafforzare il proprio potere su risorse essenziali a qualsiasi ipotesi di indipendenza politica, lo stesso monopolio brevettuale è anche quello che risulta necessario, almeno da parte del settore privato ed in un regime economico liberale, per consentire il finanziamento locale delle ricerche utili a combattere tale potere, in particolare attraverso una disponibilità indipendente delle conoscenze e delle tecnologie coinvolte. In altri termini, alcuni tipi di ricerca possono essere finanziati a livello privato solo ove il finanziatore abbia la certezza di poter godere in esclusiva i relativi risultati per un consistente lasso di tempo.

L'accanita resistenza "ideologica" del parlamento europeo ai brevetti biotecnologici 328, ha in questo senso svolto un ruolo profondamente ambiguo, nella misura in cui ha anche pregiudicato la capacità dell'industria europea di finanziare (attraverso l'aspettativa dei ritorni generati dal periodo di monopolio garantito dal brevetto) programmi di ricerca concorrenziali con quelli delle grandi multinazionali americane. Ciò è tanto più grave in mancanza di qualsiasi tutela nazionale della "materia prima" rappresentata dal materiale genetico autoctono (rappresentato dalle varietà locali, domestiche e selvatiche, per lo più predate nei paesi in via di sviluppo, specie equatoriali, ma che è ovviamente presente anche in Europa) (329); e nel quadro di un'integrazione mondialista nel "sistema economico della globalizzazione incondizionata", portato ad ulteriori conseguenze dall'Uruguay Round dell'Accordo Generale sulle Tariffe e sugli Scambi (GATT).

Perciò, per chi fa dell'Europa la propria comunità di riferimento, il problema non può certo essere risolto limitandosi a tentare velleitariamente di ritardare (del resto, solo per i prodotti alimentari) la messa in commercio nell'Unione Europea dei derivati di organismi geneticamente modificati altrui, o ritardare la produzione locale degli stessi, ma solo tentando di raggiungere un livello tecnologico autonomo in tale settore che sia equivalente e superiore a quello americano, cosa indispensabile non solo con riguardo ad una "concorrenzialità" nell'ambito di un sistema globalizzato (che si può ritenere comunque da superare ed abbattere), ma in termini di indipendenza, sovranità, e addirittura in termini di protezione, per quanto possibile, dagli esiti potenzialmente catastrofici del dispiegarsi puramente mercantilistico delle biotecnologie (330). Solo in tale contesto, che a questo stadio dovrebbe necessariamente prevedere un'incentivazione ed agevolazione della ricerca europea, la deliberata creazione di cartelli pubblici o sotto stretto controllo pubblico, ed accordi diretti con il Terzo Mondo per lo sfruttamento congiunto ed esclusivo del pool genetico delle rispettive ecosfere, può avere senso un protezionismo semi-autarchico in contrasto, ad esempio, alla diffusione di metodi di agricoltura integrata che sfuggano dal controllo politico ed economico della comunità di riferimento; o ancora può prendere significato l'adozione di politiche di licenza obbligatoria quanto a tecnologie e trovati in mani estere la cui disponibilità si riveli necessaria per l'economia nazionale/europea.

Il controllo delle tecnologie in questione appare cruciale anche al di fuori di una prospettiva "concorrenziale", o quale garanzia di effettiva sovranità dei paesi coinvolti, e riveste significato in termini di tutela del territorio e della comunità di riferimento in una chiave che trascende del tutto i pur opportuni controlli e cautele in materia di organismi geneticamente modificati, o la capacità di "combattere il fuoco con il fuoco" in caso di sviluppi incontrollati e distruttivi di questi ultimi. In realtà, infatti, l'inquinamento genetico è un rischio presente da sempre, e con cui l'Europa fa purtroppo i conti da secoli, ben prima che la biotecnologia si affacciasse all'orizzonte.

Quando gli europei riportarono dall'oriente nuove spezie e fibre tessili, introdussero in Europa anche un pacchettino di geni chiamato Yersinia pestis. L'Y. pestis a sua volta si spostò in un altro pacchetto di geni appartenente ad un organismo della famiglia Siphonaptera comunemente noto come pulce. Questo a sua volta fece il giro dell'Italia e dell'Europa in groppa ad un altro pacchetto di geni di varie specie di ratto. Tale "inquinamento genetico", ben prima che Crick [alias, alias] e Watson scoprissero il DNA, condusse all'esplosione di quella che è nota come peste bubbonica, o anche "morte nera", che in quattro anni sterminò un terzo dell'intera popolazione europea dell'epoca.

Similmente, se oggi chiedessimo ad un biologo americano di indicare le quattro peggiori infestazioni per vegetali, insetti ed altri animali, è probabile che lo stesso citerebbe il kudzu, le "api assassine" africanizzate, e i ratti (331). Nessuna di queste specie è nativa del nordamerica.

Il kudzu fu portato negli Stati Uniti nel 1876 come dono del governo giapponese. Durante la Grande Depressione il Soil Conservation Office promosse la pianta per controllare l'erosione. I contadini venivano pagati per seminare quest'erba. Ora copre circa sette milioni di acri nella parte meridionale del paese, e spazza via qualsiasi pianta osi crescere sul suo percorso. Il ratto norvegese è arrivato quasi certamente sulle navi. Ma la storia dell'"ape assassina" è la più interessante, perché mostra i rischi inerenti alle tradizionali pratiche di selezione ed ibridazione che oggi gli OGM vanno in parte a rimpiazzare. Alcuni allevatori brasiliani di api tentarono in effetti di combinare l'"intraprendenza" e la resistenza delle api africane con la produttività delle varietà europee. Al contrario, ottennero api super-aggressive che consumano il miele alla stessa velocità con cui lo producono, non lasciando niente da raccogliere agli allevatori. Gli insetti poi cominciarono un viaggio verso nord che produce ogni anno dozzine di vittime umane, e che mette in pericolo l'apicoltura in tutti gli
USA, dato che gli stessi soverchiano e schiacciano rapidamente le più mansuete api da miele tradizionali. Ugualmente, il flagello dei ratti trae origine dalla Norvegia, e tali animali sono sono sbarcati in America dalle navi insieme con gli immigranti europei.

Uno studio federale su settantanove specie nocive negli Stati Uniti calcola il danno arrecato da questi immigranti indesiderati in circa novantasei miliardi di dollari, mentre un articolo apparso nel 1998 su Bioscience calcola i costi relativi in centotrentasei miliardi di dollari all'anno. Neppure un dollaro ha qualcosa a che fare con specie transgeniche (332), e diventa sempre più evidente che è il diretto controllo della biologia del territorio l'unica risorsa in grado di garantire davvero la sicurezza nazionale al riguardo a qualsiasi paese.

D'altro canto, le illusioni che sia semplicemente possibile "tenere il diavolo biotecnologico fuori dalla porta" sono, ancor più che nel caso della proliferazione nucleare, destinate a breve durata. Per chi non sia convinto di ciò con riguardo al caso già discusso dell'agricoltura, basti pensare all'aspetto, sempre decisivo, della tecnologia militare.

Alcune applicazioni, tipicamente quelle rese pubbliche, sembrano abbastanza innocenti. Per esempio, l'esercito americano sta inserendo in alcuni batteri vari geni artificiali simili a quelli responsabili nei ragni tessitori della produzione della ragnatela: capita infatti che il filo di ragno sia una delle più robuste fibre esistenti a parità di peso. Gli scienziati sperano di utilizzare i batteri per produrne quantità arbitrarie secondo specifiche variabili, in modo da poterlo adibire a vari utilizzi, dall'ingegneria aerospaziale alle protezioni fisiche dei soldati impegnati in operazioni sul campo (333)). come è ovvio con particolari ripercussioni sull'efficienza degli stessi in scenari "antiterrorismo", o di occupazione e controguerriglia.

Altre ricerche sono molto più minacciose. Le medesime banche dati e tecnologie sviluppate per l'ingegneria genetica commerciale nel campo dell'agricoltura, dell'allevamento e della medicina è facilmente convertibile, ed è certamente già utilizzata, per lo sviluppo di una vasta serie di nuovi agenti patogeni che possano attaccare le piante, gli animali e gli uomini.

La guerra biologica, come noto, è quella che implica l'utilizzo di organismi viventi e composti organici per scopi militari. Le armi biologiche tradizionali consistono sostanzialmente in virus, batteri, funghi, protozoi e tossine, che in quanto tali non sono mai stati usati finora su larga scala. La ragione storica del ristretto utilizzo di tali strumenti è inerente tra l'altro ai costi e ai pericoli che comporta il trattamento e lo stoccaggio di grandi quantità di agenti patogeni e la difficoltà di indirizzarne la diffusione, ma anche la tracciabilità relativamente facile di attacchi biologici e la probabilità che il vantaggio connesso venisse annullato dall'inevitabile ritorsione nemica. Ora tale panorama è radicalmente cambiato.

In un rapporto risalente al maggio 1986, presentato al Committee on Appropriation della Camera dei Rappresentanti, il Dipartimento della Difesa americano già sottolineava come la biotecnologia sta rendendo molti tipi di guerra biologica realistici e vantaggiosi (334). Nel rapporto tra l'altro si legge: «Le conquiste fatte nel campo della biotecnologia permettono l'elaborazione di un'estesa varietà di nuovi materiali che possono essere usati nella guerra biologica. [...] I nuovi agenti sono il prodotto della recente capacità di modificare, migliorare o produrre grandi quantità di materiali naturali o di organismi che in passato erano considerati di nessuna importanza militare a causa di problemi quali la disponibilità, la stabilità nel tempo, il potere infettivo e la riproducibilità». Continua il rapporto: «Potenti tossine che sino ad ora erano disponibili solo in piccole quantità, e solo grazie all'estrazione delle stesse da enormi quantità di materiali biologici, adesso possono essere preparate in quantità industriali in un tempo relativamente breve. Questo processo deriva dall'identificazione dei geni che codificano la produzione della molecola desiderata e consiste nel trasferimento della sequenza in un microrganismo ricevente che in tal modo acquista la capacità di produrre la sostanza. L'organismo ricombinante può quindi essere allevato e riprodotto in qualsiasi scala desiderata. [...] Composti che precedentemente erano disponibili solo in quantità infinitesimali in questo modo diventano producibili in grande quantità a costi notevolmente bassi. [Con la tecnologia del DNA ricombinante è ora possibile sviluppare] una quantità pressoché infinita di ciò che potrebbe essere definito come "agente modellante". [...] I nuovi sviluppi dell'ingegneria genetica rendono possibile il rapido sfruttamento delle risorse della natura per scopi di guerra biologica che erano impensabili dieci o quindici anni fa».

Solo pochi mesi dopo, nell'Agosto dello stesso anno, il sottosegretario alla Difesa Douglas Feith dichiara al comitato parlamentare americano sui servizi segreti: «Adesso è possibile sintetizzare agenti per la guerra biologica pensati appositamente per scopi militari. La tecnologia che rende possibile i cosiddetti farmaci su misura rende possibile modellare tali agenti. [...] E' piuttosto semplice produrre nuovi agenti, anche se resta ancora un problema trovare degli antidoti, che possono richiedere anni, mentre gli agenti possono essere prodotti in poche ore» (335).

In effetti le tecniche biotecnologiche possono essere usate per una varietà di scopi militari, dal terrorismo di stato, alle operazioni controinsurrezionali, alle campagne su vasta scala per distruggere le economie dei paesi nemici o la loro popolazione civile, e richiedono l'allocazione di un potenziale industriale e di investimenti molto minore rispetto alla guerra convenzionale o alle armi nucleari. Un utilizzo banale degli strumenti disponibili è ad esempio quello volto a creare deliberatamente ceppi batterici alterati in modo da aumentarne la virulenza, renderne facile la conservazione, e incorporare una resistenza agli antibiotici. Un approccio più raffinato è quello di introdurre geni letali in microorganismi naturalmente innocui, che non generano alcuna risposta immunitaria negli animali o negli uomini da colpire. L'ingegneria genetica può ancora essere specificamente mirata alla distruzione di specie o ceppi specifici di piante coltivate ed animali, e persino allo sfruttamento della sensibilità diversa, geneticamente programmata, dei gruppi etnici umani a malattie specifiche. Inutile dire che ancora più facile è concepire "cavalli di troia" genetici, in particolare in campo agricolo, ovvero varietà coltivabili, alterate geneticamente e destinate a soppiantare le varietà autoctone, di cui sia attivabile l'autodistruzione. Ancora, è possibile produrre e liberare specie animali o vegetali modificate capace di sconvolgere l'equilibrio ecologico del territorio nemico, ma con incorporati meccanismi di controllo utili ad evitare l'interferenza con le proprie coltivazioni.

Naturalmente, ciò che traspira di queste ricerche riguarda sempre la "difesa" dalla guerra biologica. D'altronde, come nota uno studio dell'International Peace Research Institute di Stoccolma, «alcune comuni forme di produzione di vaccini sono tecnicamente molto vicine alla produzione di agenti utili come armi biologiche, offrendo così facili opportunità di conversione e copertura» 336. In particolare, come ammetteva Richard Goldstein, già professore di microbiologia ad Harvard, il Dipartimento della Difesa degli USA «può oggi giustificare il fatto di lavorare con gli agenti più patogeni al mondo, producendo ceppi alterati e molto più virulenti, al fine della ricerca di vaccini e sieri per proteggere le proprie truppe contro un utilizzo ostile di tali agenti [...], e allo stesso tempo studiando sistemi di diffusione degli stessi fino a quando non sia in grado di proteggersi contro qualsiasi simile forma di diffusione. Così, quello che il Dipartimento della Difesa si ritrova in mano alla fine è un nuovo sistema di armi biologiche, composto da un organismo virulento, un vaccino contro di esso e un sistema per diffonderlo. Come è facile rilevare, esiste una linea molto sottile tra un tale sistema di difesa (permesso dalle convenzioni internazionali) e un vero e proprio sistema (proibito) di attacco» (337).

Tali programmi sono sostenuti da una propaganda capillare e costante. Già nella prima guerra del Golfo, fonti americane attribuivano all'Iraq la disponibilità di quello che il "dittatore pazzo", noto anche come Saddam Hussein, avrebbe definito il "grande livellatore", ovvero un arsenale di venticinque testate di missili Scud per complessive cinque tonnellate di agenti biologici, tra cui la tossina botulinica e i germi del carbonchio, ed altre quindici tonnellate da collocare in dispositivi destinati al bombardamento aereo. Uno studio dell'Office Technology Assessment del 1993 segnalerà poi che la liberazione di soli cento chili di spore di carbonchio da un aereo sopra la città di Washington avrebbe potuto uccidere più di tre milioni di persone (338). L'apocalisse non si scatena, scopriremo, solo perché il Segretario di Stato James Baker avrebbe riservatamente fatto presente al presidente Saddam Hussein, "in toni cortesi ma fermi", che l'uso effettivo delle armi pretesamente approntate per difendere la sovranità irachena, nel momento appunto in cui questa era oggetto dell'attacco occidentale, sarebbe stata fronteggiata con "misure estreme", ovvero lo sgancio di ordigni nucleari su Bagdad 339.

Questo tipo di affabulazioni fantapolitiche, ovviamente non "ufficiali", ma accreditate da stampa prestigiosa, non spiegano come sia possibile che un'efficace arma di deterrenza in mano ad un "pazzo" non abbia sortito alcun effetto sull'avventurismo militare americano nella regione, o come il pazzo in questione avrebbe potuto essere intimidito da minacce... su una popolazione civile dal medesimo dittatore notoriamente disprezzata e tiranneggiata. Simili leggende restano nondimeno utili, da più di dieci anni, a creare un vantaggioso clima di paranoia (vedi il martellamento propagandistico sulle "armi di distruzioni di massa", di cui per altro Stati Uniti ed altri paesi dispongono indisturbati sin dagli anni cinquanta), clima che giustifica a sua volta gli enormi finanziamenti dispiegati per preparare la guerra biologica 340. Già in uno studio del 1995, la CIA attribuiva a diciassette paesi ricerche di biotecnologia militare, e precisamente a Iraq, Iran, Libia, Siria, Corea del Nord, Taiwan, Israele, Egitto, Vietnam, Laos, Cuba, Bulgaria, India, Corea del Sud, Sudafrica, nonché ovviamente Cina e Russia (341).

D'altronde, secondo un rapporto pubblicato nel 2002 dalla National Academy of Science americana «sarebbero sufficienti pochi individui dotati di competenze specialistiche e di un laboratorio adeguato per produrre, in modo economico e semplice, un'intera serie di armi batteriologiche mortali in grado di costituire una grave minaccia per la popolazione degli Stati Uniti. Inoltre, gli agenti biologici possono essere prodotti utilizzando apparecchiature disponibili sul mercato, le stesse attrezzature che vengono impiegate nella produzione di sostanze chimiche, farmaci, cibi o birra, e quindi passare inosservate. [...] La decodifica della sequenza del genoma umano e la spiegazione completa di quello di numerosi agenti patogeni... consentono di abusare della scienza per creare nuovi strumenti di distruzione di massa» (342).

Se non esiste alcun dubbio sull'attivismo del complesso militar-industriale statunitense in questo campo, l'allarmismo occidentalista sulla diffusione delle applicazioni di questo tipo ovviamente non si basa soltanto su dati inventati (343). E dal momento che, in questo campo, capacità d'attacco, capacità di difesa e deterrenza costituiscono solo aspetti diversi della disponibilità delle medesime tecnologie, è ben chiaro cosa significa per la reale sovranità dei paesi interessati esserne sprovvisti.

La capacità di difesa e di attacco risulta del resto determinante non solo in scenari di aperta aggressione militare, ma anche con riguardo a forme più subdole di guerra economica a bassa intensità, o addirittura a rilasci accidentali e non voluti di agenti patogeni. La teoria della provenienza del virus dell'AIDS da laboratori militari americani (344), per quanto rappresenti probabilmente una "leggenda metropolitana", dimostra con la sua stessa diffusione la crescente verosimiglianza di ipotesi di questo tipo, cui è possibile rispondere unicamente con la capacità di produrre e selezionare ceppi immuni, e di programmare secondo necessità tale immunità nelle popolazioni umane, vegetali ed animali (345).

D'altronde, la guerra biologica non è che un aspetto di scontri tecnologici, economici e demografici di carattere più generale, nel quadro del mutamento generale del "paradigma" epocale già più volte evidenziato. Se abbiamo già discusso delle prospettive e delle applicazioni riguardanti il mondo vegetale e l'utilizzo industriale di microorganismi modificati o insetti, le ricerche in corso abbracciano applicazioni molto più ampie e tecnicamente complesse di quelle che coinvolgono sementi e protozoi, venendo ad incidere direttamente sugli animali superiori e sull'uomo.

Riporta ancora Rifkin: «All'Università di Adelaide, è stata sviluppata un nuova generazione biotecnologica di maiali che sono più efficienti del 30% nella produzione di carne, e che giungono a maturazione sette settimane prima di quelli normali. L'Australian Commonwealth Scientific and Industrial Research Organisation ha similmente prodotto pecore trattate geneticamente che crescono più velocemente di un terzo di quelle normali e sta attualmente trapiantando geni nelle pecore al fine di far crescere una lana più abbondante e di migliore qualità. Nell'Università del Wisconsin, gli scienziati hanno alterato i tacchini da cova per aumentarne la produttività. I tacchini da cova producono da un quarto ad un terzo in meno di uova rispetto a quelli che non covano. Visto che cova quasi il 20% nelle razze attuali, i ricercatori sperano di eliminare del tutto l'istinto della cova bloccando il gene che codifica la prolattina, ormone che regola l'istinto della cova. I tacchini transgenici non mostrano più l'istinto materno, ma producono molte più uova» (346).

Uno dei progetti più strani dell'era biotecnologia è quello della canadese Nexia, che lavora sull'ipotesi di far produrre quantità massiccie di tela di ragno a capre in cui sono stati inseriti geni di ragno. Abbiamo già accennato alle particolari proprietà di questa fibra. Ora, capita che il latte delle capre transgeniche contenga una quantità della relativa proteina incommensurabilmente superiore a quella ottenibile tramite un ipotetico allevamento di ragni – che non sarebbe comunque industrialmente fattibile essendo i ragni cannibali. «Mettete un gruppo insieme e ciò che ne ricavate è un singolo, felice e grasso ragno», nota Jeffrey Turner, il genetista molecolare amministratore della Nexia (347).

Nel frattempo una società del Texas, la Yorktown Technologies, ha messo in vendita un pesce d'acquario, chiamato Glofish, di colore rosso brillante alla luce del giorno e che diventa fluorescente alla luce ultravioletta (348), basato sull'innesto "decorativo" di geni provenienti dall'anemone di mare su un pesce tropicale, il pesce zebra, in natura a strisce nere e argento. Di per sé la notizia sarebbe interessante solo da un punto di vista legale, perché nessuno sa quale organo amministrativo americano sarebbe eventualmente chiamato ad esprimere la sua opinione sul fatto che siano messi in circolazione tali pesci geneticamente modificati: la Food & Drug Administration ritiene infatti di non aver alcun potere in materia in quanto a differenza del salmone transgenico non si tratta né di un alimento, né di un farmaco o di altra sostanza destinata al consumo umano; l'Environmental Protection Agency e il Dipartimento dell'Agricoltura similmente ritengono che i pesci ornamentali non rientrino propriamente nelle proprie competenze. Ma il Glofish non è altro che la ricaduta "americanizzata" di una tecnologia sviluppata fin dal 1999 da un ricercatore dell'Università di Singapore, che scoprì come dei pesci modificati con vari gruppi di geni tratti da meduse siano in grado di "accendersi" di un determinato colore solo in presenza di metalli pesanti, estrogeni o tossine, realizzando così un "rilevatore biologico" utilizzabile in qualsiasi specchio d'acqua, e capace di assumere una particolare colorazione, come una cartina di tornasole, a seconda dell'inquinante presente.

D'altronde, a parte casi particolari come quello ricordato, la maggior parte delle ricerche sugli animali che non riguardano l'industria alimentare interessano il settore della medicina. La prima idea – che rilancia la tradizione, ormai quasi superata a favore dei prodotti di sintesi, di utilizzare gli animali per produrre sieri, ottenere vaccini od estrarre ormoni – è quella di trasformare parte degli allevamenti tradizionali in bioindustrie atte a produrre medicinali. Nell'aprile del 1996, la Genzyme Transgenic annunciava ad esempio la nascita di Grace, una capra transgenica con un gene che codifica il BR-96, un anticorpo monoclonale che è stato sviluppato dalla Bristol-Myers Squibb come farmaco antitumorale. La stessa società sta anche realizzando una capra capace di produrre antitrombina, una sostanza anticoagulante, e conta di lanciare nuovi prodotti e dimezzare i propri costi di fabbricazione di prodotti di sintesi complessi tramite l'utilizzo di animali transgenici, contando ad esempio con il farmaco utilizzato per curare la sindrome di Gaucher di raggiungere con un gregge di sole dodici capre la medesima produttività dell'impianto da dieci milioni di dollari ancora oggi in funzione (349).

Da parte sua, una società della Virginia, la PPL Therapeutics, crea nel 1997 Rosie, una mucca transgenica il cui latte contiene alfa-lactalbumina, alimento essenziale per i neonati prematuri che non possano essere allattati naturalmente, mentre in Colorado la Somatogen crea un maiale che produce emoglobina umana (350).

Nel frattempo, nell'immediato, le applicazioni dell'ingegneria genetica si estendono come abbiamo detto alla biologia marina. E' stato ad esempio trapiantato con successo un gene, che previene la formazione di cristalli di ghiaccio nel sangue, da un pesce artico alla trota e al branzino, consentendo la crescita di questi pesci in acque molto più fredde. Il trapianto invece del gene che sovrintende alla produzione dell'ormone della crescita nei mammiferi ha prodotto pesci che si sviluppano più rapidamente e raggiungono taglie maggiori. Altre ricerche hanno prodotto salmoni sterili, privi dell'istinto suicida di smettere di mangiare e risalire la corrente per deporre le uova.

Anche qui, c'è chi ha parlato, per analogia con la "rivoluzione verde" del secolo scorso, di questo secolo come quello della "rivoluzione blu", in cui grazie a clonazione ed ingegneria genetica la produzione dell'"acquacoltura" supererà quella della pesca, come da millenni l'agricoltura ha superato quella della raccolta dei prodotti spontanei della natura e ancora prima l'allevamento degli animali terrestri ha superato il contributo (oggi risibile) della caccia alla soddisfazione dei fabbisogni alimentari umani (351). Tale prospettiva può piacere o meno, ma mentre alcuni neoprimitivisti o tradizionalisti possono essere vegetariani, e perciò non sentirsi particolarmente toccati dall'alternativa caccia-allevamento, pochi tra loro suggerirebbero l'abbandono della pratica dell'agricoltura – modo di vita cui da essi vengono attribuite tutte le virtù, eppure "artificiale" e "tecnico" per definizione sin dalla sua nascita nel neolitico – a favore di una mera raccolta dei frutti spontanei della "natura". Ci si deve chiedere allora perché la pesca non potrebbe essere confinata (e d'altra parte forse deliberatamente continuata) in ambiti analoghi a quelli in cui è oggi praticata la caccia, cosa tra l'altro che consentirebbe un diverso rispetto e protezione dell'ecologia marina.

Milioni di persone stanno inoltre dagli anni novanta utilizzando medicinali di origine biotecnologica, al posto di prodotti sintetizzati chimicamente, per la terapia di patologie cardiache, tumori, e AIDS. L'insulina prodotta con l'ingegneria genetica ha virtualmente eliminato l'uso dell'insulina "naturale" estratta da grandi numeri di mucche e di maiali. Con metodi simili, l'Amgen produce l'eritropoietina, la Genentech l'attivatore tissutale del plasminogeno, altre società l'interferone usato per la terapia dei tumori e della sclerosi multipla, etc. (352).

Abbiamo già parlato delle ricerche sugli agenti patogeni. In questo campo, un lavoro interessante riguarda l'alterazione dei vettori. Sono state create zanzare in grado di mescolarsi con quelle libere in natura e di trasmettere un gene dominante per ghiandole salivari modificate che le rende incapaci quando pungono la vittima di inoculare la malaria. All'Università di Yale, un gruppo di scienziati ha introdotto batteri geneticamente modificati nell'intestino di un insetto sudamericano chiamato "scarafaggio del bacio", che trasmette un parassita responsabile della letale sindrome di Chagas. Tali batteri secernono un antibiotico che uccide il parassita direttamente nell'intestino dell'insetto (353).

Infine, sotto l'aspetto ambientale, lo sviluppo di modelli sempre più raffinati di descrizione degli ecosistemi, e le risorse di calcolo via via rese disponibili dall'elaborazione a parallelismo massivo e dalla legge di Moore, consentono di ipotizzare che possano essere in futuro deliberati interventi che vadano al di là dell'azione più o meno alla cieca su una singola caratteristica, un organismo, o una specie, ma integrino sistemicamente intere ecologie.

Essendo però impensabile ripetere le delicate operazioni di ingegneria genetica su ogni singolo individuo animale coinvolto nel caso degli animali superiori, mancava però un tassello essenziale, che viene presto aggiunto. Le prospettive per la coltura intensiva di animali superiori dalle caratteristiche stabili, esattamente come si fa in agricoltura da secoli con le varietà vegetali, si aprono infatti con la nascita di Dolly, la prima pecora clonata, avvenuta il 22 Febbraio 1997 ad opera di un embriologo scozzese (354). La tecnica utilizzata ha per la prima volta dimostrata la possibilità di produrre una grande quantità di copie geneticamente identiche di mammiferi ed altri animali superiori, e sancito una pietra miliare con riguardo alla stessa clonazione umana (355). Il significato di tale risultato non passa inosservato, e diventa oggetto di vivaci discussioni sui media e nei comitati di "bioetica", Italia compresa, e suscita notevoli emozioni anche nel pubblico, al punto che un maglione fabbricato con la lana di Dolly viene venduto ad un'asta per venticinquemila dollari. Subito dopo, sempre la PPL annuncia la nascita di una seconda pecora clonata, Polly, che però contiene già un gene umano modificato, contraddicendo le previsioni secondo cui sarebbe stata necessaria all'uopo ancora una ventina d'anni (356).

Scrive Alexander: «C'è sempre stata opposizione al fatto di "pasticciare con la Natura". All'inizio del Rinascimento, la chiesa sosteneva che la dissezione dei cadaveri fosse un sacrilegio. Frankenstein venne scritto come un'arringa per la supremazia del sublime in natura sulla possibilità che i nuovi esperimenti sull'elettricità potessero sfidarla "rianimando" dei tessuti. La fecondazione artificiale sperimentata da John Hammond era stata messa al bando dalla Chiesa di Inghilterra. E, naturalmente, ci fu il Mondo Nuovo di Huxley [alias] dopo Haldane. Ma fino alle cellule staminali, a Dolly, all'ingegneria del gene, e al movimento verso l'informazione genetica come prodotto di largo consumo, questi argomenti erano del tutto accademici. L'elettricità in effetti non rianima affatto tessuti morti. Ora, d'altra parte, la science fiction di colpo non sembra più tanto fiction» (357).

Ed aggiunge: «La realtà della clonazione e delle cellule staminali tirò fuori i bio-ludditi come Kass dal margine del dibattito politico e galvanizzò una strana coalizione tra politicanti conservatori, cristiani evangelici, la chiesa cattolica, intellettuali di sinistra ed ambientalisti verdi, i quali tutti realizzavano, come d'altra parte il piccolo movimento bioutopista, che le tecnologie dei geni, applicate alle cellule staminali ed alla clonazione, potrebbero finalmente permettere agli umani di decidere del loro futuro biologico. Con la tecnica della clonazione è possibile ingegnerizzare una cellula con un tratto desiderato, inserire questa cellula in un uovo, ed ottenere una creatura su misura. E' per questo che è stata inventata. Le cellule staminali rendono la cosa ancora più semplice, come è successo per i topi di laboratorio customizzati. Questa prospettiva guida l'improbabile alleanza. [...] Nessuna iperbole è eccessiva se ottiene il risultato di spaventare a morte il pubblico. Kass ha persino parificato la lotta contro i mali della biotecnologia con la lotta contro il terrorismo internazionale: "il futuro umano riposa sulla nostra capacità di navigare evitando gli inumani Osama Bin Laden e i post-umani adepti del Mondo Nuovo"» (358).

In effetti, per il capo del Consiglio Presidenziale sulla Bioetica di Bush, jr., come per Fukuyama, siamo sull'orlo di trasformarci in post-umani. Leggiamo così all'inizio della sua opera più nota: «Non ci rendiamo ancora conto della gravità della nostra situazione... Il processo postumanista è già cominciato. La "pillola". La fecondazione in vitro. Embrioni in bottiglia. Uteri in affitto. Clonazione. Diagnosi prenatale e screeening genetico. Manipolazione genetica. Coltivazione di organi. Parti di ricambio meccaniche. Chimere. Impianti cerebrali. Ritalin per i bambini, Viagra per i vecchi, Prozac per tutti. E, per lasciare questa vale di lacrime, un po' di morfina in più accompagnata da Muzak» (359). Nota Alexander: «Nello spazio di due pagine, Kass riesce ad evocare praticamente tutti i babau del ventesimo secolo, persino i nazisti».

I poveri emuli italiani di Kass hanno a loro volta trovato la grande occasione di impersonare come "esperti" della lotta contro il transumanismo un "potere dei chierici" difficilmente immaginabile fino a qualche anno fa. Malgrado i considerevoli risultati di anni di costante campagna metapolitica delle gerarchie ecclesiastiche e dell'Università Cattolica di Milano, il "bioetico" Francesco d'Agostino, si lamenta anzi che non sia ancora abbastanza, e rivendica per sé e per i suoi colleghi ruoli da sinedrio talmudico: «Per formulare [la legge italiana sulla procreazione assistita] credo sarebbe stato saggio chiedere un parere all'organismo che dirigo, il Comitato Nazionale per la Bioetica, che è l'organo consultivo della Presidenza del Consiglio su questioni etiche [sic!]. L'ultimo parere del Consiglio sull'argomento risale a più di dieci anni fa. Avremmo potuto suggerire, ad esempio, la costituzione di una Authority delegata ad esprimersi e ad autorizzare certe ricerche sull'embrione in casi estremi nei quali si ponga con urgenza il bisogno di trovare una terapia salva-vita» (360).

Naturalmente la popolarizzazione di queste "battaglie" continua a generare mostri. Nel dibattito sulle leggi americane contro la clonazione umane, che l'amministrazione Bush tenta di estendere al mondo tramite l'ONU (361), il parlamentare relatore, Cliff Stearns della Florida, ha brillantemente spiegato: «Quando fai un clone ci sono questi tentacoli, parte dell'ovulo. Loro li tolgono. C'è un termine per questo. Quando cloni, non hai un esatto clone del materiale degli ovuli. I tentacoli vengono tutti rimossi... Il clone non li avrebbe, eppure io e voi li abbiamo quando nasciamo. Avremmo una categoria di qualcuno, di gente che non ha questi tentacoli e questa potrebbe essere gente inferiore o superiore» (362).

Commenta Alexander: «Questa è la sorta di spiegazione che fa sì che gli scienziati nascondano la testa tra le mani e restino senza parole. Ma queste concezioni sono diffuse. Nell'aprile 2002, l'"esperto" George Will è apparso in televisione sulla rete ABC nella trasmissione This Week con George Stephanopoulos e ha sostenuto che tutte le forme di clonazione, terapeutica e non, dovrebbero essere bandite perché "le cellule sono entità con un genoma umano completo". Di fatto, praticamente tutte le cellule umane, i globuli rossi rappesentando un'eccezione, hanno un genoma umano completo. Secondo la logica di Will, dovremmo rispettare ogni possibile cellula del nostro corpo, incluse eventuali cellule cancerogene» (363).

Ma in tale epoca, il bio-luddismo, almeno per la biologia umana, era già ufficialmente consacrato dal governo americano, in particolare dal famoso ed esilarante discorso televisivo di Bush del 9 agosto 2001, in cui il presidente, parlando dal suo ranch in Texas, ha descritto il "viaggio" che lo ha condotto verso le sue attuali conclusioni, dicendo di aver dedicato alla questione «un mucchio di pensieri, preghiera, e considerevole riflessione», per poi aggiungere «siamo giunti al Mondo Nuovo che sembrava così distante quando nel 1932 Aldous Huxley [alias] ha scritto di esseri umani creati in provetta in quello che chiamava un'incubazionificio», ed annunciare alla fine forti limitazioni al finanziamento federale di ulteriori ricerche e la costituzione del famoso Comitato presieduto da Kass.

Anche se vi è chi come Rahul K. Dhanda vorrebbe "guidare Icaro" e mettere d'accordo nella più pura tradizione americana ideologia e buoni affari, "Bible and business" (364), tale clima è ovviamente un invito a nozze per tutte le correnti a vario titolo orientate in senso anti-faustiano, il cui manifesto si può dire sia ben riassunto dal titolo di un saggio del 2003 di Bill McKibben, Enough, ove l'autore dichiara apertamente che la questione ormai è di "decidere che in ogni campo la ricerca tecnica e scientifica è andata avanti abbastanza, e che non è veramente necessario andare oltre", di "saper dire di no, saper restare umani", e di «guardare il nostro mondo, e proclamarlo buono, buono abbastanza. Abbastanza intelligenza, abbastanza capacità. Abbastanza» (365). Eppure, come nota Ramez Naam, «per tutta la nostra storia, abbiamo oltrepassato i nostri limiti e incrementato le nostre possibilità. Se, come pensa McKibben, sono i nostri limiti a definirci, allora abbiamo smesso di essere umani molto tempo fa, quando abbiamo inventato gli utensili, il linguaggio e la scienza che ha esteso il potere delle nostre menti e dei nostri corpi oltre quello con cui i nostri antenati cacciatori e raccoglitori erano nati» (366).

In ogni modo, siamo nel frattempo giunti alla prospettiva di una pianificazione della produzione in massa di animali selezionati, mutati e clonati, cui è possibile far produrre enzimi, ormoni, sostanze organiche, latte e carne dalle caratteristiche arbitrarie e strettamente controllate, mentre altri parlano addirittura di programmare la crescita negli animali di organi compatibili per xenotrapianti sugli esseri umani (367), tecnologia per altro destinata ad avere poco futuro rispetto all'alternativa di produrre invece organi non solo umani, ma clonati direttamente da cellule del paziente, e perciò privi di rigetto e perfettamente analoghi a quelli donati da un gemello identico. Ciò supera nettamente gli esperimenti odierni legati alla coltura di cellule su un'impalcatura di polimeri biodegradabili – ad esempio con riguardo a mammelle, fegati od orecchie -, e la stessa promettente sperimentazione sulle cellule staminali, ad esempio con riguardo al morbo di Parkinson o alla sindrome di Alzheimer, che oggi fa tanto rumore in connessione alla loro estrazione da embrioni umani abbandonati, che per altro sarebbero diversamente destinati a non trovare alcun'altra utilizzazione pratica (368).

Quello degli "organi" umani ed il loro futuro a medio e lungo termine resta comunque un campo tutto da esplorare. Se oggi gli "organi artificiali" e le protesi sono oggetti relativamente rudimentali e ben distinti dall'organismo di chi ne fa uso, così come gli strumenti che da sempre ampliano le capacità fisiche, sensoriali e mentali degli esseri umani sani, esiste una plausibile convergenza futura della tecnologia biomeccanica, robotica ed informatica con le acquisizioni della biologia, della medicina, dell'ergonomia, della genetica, della neurologia, etc. Reti neuronali, nanotecnologie, realtà virtuale, interfacce dirette tra sistema nervoso e dispositivi digitali, intelligenza artificiale, servomeccanismi, stimolazione diretta dei centri cerebrali umani ed animali, apparati autoriparanti e/o con capacità di autoriprodursi, biochip, emulazione delle funzioni cerebrali superiori, sono tutti elementi che convergono verso un'attenuazione della distinzione tra la sfera "organica" e la sfera "meccanica" e verso una ridefinizione dei confini e della natura dell'organismo e della sua esperienza.

John Holston, uno dei direttori del Progetto Genoma, si è chiesto: «Quanti componenti di origine non biologica possiamo impiantare su un corpo umano e continuare a definirlo umano? [...] Forse una piccola espansione di memoria? Un'aggiunta di capacità di elaborazione? Perché no? Se è così, forse una sorta di immortalità è potenzialmente dietro l'angolo». (369). L'ipotesi di poter ad esempio ricavare una copia completa dell'esperienza di un essere umano su un supporto artificiale, magari nel suo funzionamento con accentuate caratteristiche biotroniche, di ricostruirla artificialmente e/o di riversarla di nuovo in un altro cervello (370), apre ad esempio prospettive molto complesse, così come quella di trasformare radicalmente la percezione-del-mondo selezionata da un apparato sensoriale sostanzialmente immutato da milioni di anni. Certamente sono già mutate le modalità con cui gli esseri umani comunicano od accedono alle informazioni, ed è prevedibile che il processo sia destinato a continuare; e non c'è bisogno di richiamare ulteriormente il ruolo di tutto ciò con riguardo alla possibilità stessa di esplorare e modificare la realtà biologica dell'uomo e delle altre specie, ad esempio attraverso la sequenziazione genica, largamente basata sull'utilizzo di risorse di calcolo e tecniche di precisione impensabili sino a pochi decenni orsono.

La bionica, uno dei luoghi di questa convergenza, si ricollega del resto alle questioni già discusse sulla modifica dell'ambiente umano ed alle pressioni selettive che questo comporta a livello sociologico e genetico. Abbiamo già scimmie in grado di pilotare braccia robotiche mediante elettrodi impiantati nel cervello (371). A partire dall'innesto dei primi pacemakers nel 1958, oggi sono comuni gli impianti cocleari, che restituiscono l'udito a persone completamente sorde, e chips sperimentali impiantati sulla retina già provvedono qualcosa di simile alla vista a ciechi congeniti. Similmente, sono oggi progettati supplementi cerebrali, di cui sono stati testati modelli in simulazione con qualche decina di migliaia di neuroni (372). Il loro scopo non è solo quello di trattare disfunzioni cerebrali, ma di estendere l'esperienza sensoriale, aumentare la memoria, permettere forme di comunicazione diretta per via elettromagnetica che non pare eccessivo definire telepatica, e consentire un accesso wireless diretto e delocalizzato all'informazione ed alle reti in questa si trovi conservata (373).

Per una integrazione reale dell'attività cerebrale con dispositivi artificiali di tipo digitale, ovvero senza passare dall'apparato sensoriale e motorio tradizionale, sono necessarie tre condizioni: «poter descrivere l'attività elettrica neuronale legata a una facoltà o a un comportamento particolare; saper tradurre tale descrizione in una forma algoritmica integrabile in un processore; realizzare processori al tempo stesso abbastanza piccoli per stimolare precisamente la zona coinvolta (da cui l'importanza della questione delle interfaccie neuronali) e abbastanza potente per trattare l'algoritmo che riproduca la facolta mentale voluta» (374). E' improbabile che processori elettronici tradizionali possano mai soddisfare pienamente a tali condizioni, ed è molto probabile che qualche tipo di bio o nanochip sia destinato piuttosto ad essere coinvolto. ma in ogni modo il quadro di vita che ciò ci consegna ne viene radicalmente mutato (375).

Non sorprende in tale scenario che gli scambi umani, culturali e finanziari tra informatica e biotecnologia diventino già oggi sempre più stretti, in particolare nel campo della ricerca.

Scrive Rodney Brooks: «Al Laboratorio di Intelligenza Artificiale del MIT di cui sono direttore vedo segni di questa trasformazione ogni giorno. Abbiamo smontato "clean rooms" in cui usavamo lavorare su processori al silicio per installare al loro posto "laboratori bagnati" dove compiliamo programmi in sequenze di DNA che incorporiamo in genomi per allevare robot batterici. Il nostro obbiettivo nei prossimi trent'anni è riuscire, invece di coltivare un albero, abbatterlo e fare un tavolo con quanto ricavato, a far crescere direttamente un tavolo. Abbiamo trasformato laboratori in cui assemblavamo silicio e robot d'acciaio in laboratori in cui assembliamo robot da silicio, acciaio e cellule viventi. Coltiviamo cellule muscolari e le usiamo come attuatori in dispositivi semplici, precursori di protesi che potranno entrare a far parte integrante di corpi umani. Alcuni ricercatori nel campo della IA che studiano come far sì che le macchine imparino hanno smesso di costruire migliori motori di ricerca per il Web e hanno cominciato ad inventare programmi in grado di imparare le correlazioni nel genoma umano, e fare così predizioni sulle cause genetiche delle malattie» (376).

Larry Ellison, fondatore di Oracle e reputato per un certo periodo, prima dello scoppio della bolla della New Economy nel tardo 2000, il secondo o terzo uomo più ricco del mondo, ha da parte sua stabilito la Ellison Medical Foundation per studiare la biologia umana, con particolare riguardo ai geni che governano l'invecchiamento, ed ha avuto modo di dichiare a Business Week: «se avessi vent'anni, mi orienterei alla biotecnologia o all'ingegneria genetica» (377).

Un altro punto cruciale è stato superato nel 1997 quando il laboratorio di ricerca giapponese sponsorizzato dalla divisione farmaceutica dei produttori della birra Kirin è riuscito per la prima volta a trapiantare un intero cromosoma umano, in particolare nel corredo genetico di una cavia, impresa ritenuta da taluni irrealizzabile. Sino ad allora, era stato infatti trasferito DNA solo in piccole quantità, cinquanta volte inferiori ad un cromosoma. In particolare, il cromosoma trasferito è quello che negli uomini riguarda la produzione di anticorpi, e puntualmente, nelle cavie, l'introduzione di proteine estranee ha provocato la produzione degli anticorpi stessi (378). Contemporaneamente, alla Case Western Reserve University, in Ohio, viene annunciata la creazione per la prima volta di un cromosoma umano artificiale (379). Commenta Rifkin: «Ciò che rende il cromosoma artificiale umano così importante, è che esso contiene quella prevedibilità che nel passato era sfuggita agli scienziati che lavoravano nel campo dell'ingegneria genetica. Fino ad oggi, gli scienziati hanno dovuto inserire singoli geni all'interno di un virus, e poi utilizzare il virus come vettore per inserire a loro volta i geni nei cromosomi della cellula (380). Con questo metodo, tuttavia, non è possibile sapere quale cromosoma acquisirà il gene aggiunto, né dove il gene si andrà ad integrare nella cellula una volta al suo interno; non esiste infatti alcuna possibilità di indirizzare il gene in un punto preciso. Con l'uso dei cromosomi 'artificiali', è possibile inserire un intero pacchetto coordinato di geni. Ogni gene si trova già al posto giusto nel suo cromosoma, e questo elimina la necessità di ripetere l'esperimento nella speranza che ciò alla fine si produca per caso. I cromosomi artificiali aprono la strada a infinite possibilità di modificazione delle strutture genetiche sia delle cellule somatiche, sia di quelle della linea germinale. La prassi di introdurre dei cambiamenti genetici in un bambino, sia prima del concepimento nelle cellule sessuali, sia subito dopo il concepimento nelle cellule embrionali, molto probabilmente diventerà una realtà nei prossimi dieci anni» (381).

Gregory Stock [alias] è d'accordo sul ruolo critico dei cromosomi artificiali, che rinvierebbero per lunghissimo tempo, in particolare con riguardo all'ingegneria genetica, la necessità di "pasticciare" davvero con l'incredibile complessità dei cromosomi esistenti, che per le specie vegetali ed animali viene oggi affrontata semplicemente selezionando ed affinando, per approssimazioni progressive, i prodotti più o meno casuali di tentativi che coinvolgono un grandissimo numero di gameti ed embrioni. Uno o più cromosomi artificiali potrebbero prestarsi in particolare a fare da vettori di un certo numero di geni aggiuntivi, presumibilmente sviluppabili in modo indipendente, disattivabili a richiesta, e con un minimo di interazioni indesiderate: «Immaginate che un padre futuro dia alla sua figliolina un cromosoma 47, versione 2.0, un modello di linea alta con una dozzina di moduli genetici terapeutici. Al momento che la stessa cresce ed ha a sua volta dei figli, non può non trovare tale cromosoma assolutamente primitivo. Il suo modulo anticancro a tre geni impallidisce rispetto al cluster ad otto geni e ad alta capacità della nuova versione 5.9, che regola meglio l'espressione dei geni, è attivo contro un maggior numero di tipi di cancro, ed ha minori effetti collaterali. Il modulo anti-obesità è rimasto più o meno lo stesso della versione 2.0, ma la 5.9 ha un entusiasmante set di diciannove moduli antivirus rispetto ai quattro che lei ha installati, e un modulo anti-age che con un po' di fortuna riesce a mantenere livelli giovanili di ormone della crescita per un decennio supplementare, e conserva più a lungo anche il sistema immunitario. La figlia può essere troppo apprensiva per optare per alcuni dei modelli più sperimentali quando è il suo bambino ad essere coinvolto, ma non può immaginare di trasmettergli tale e quale il suo antico cromosoma e forzarlo più avanti nella sua vita a dover prendere farmaci o sostenere altri trattamenti per compensare le sue deficienze. E quanto al fatto di ritornare allo stato naturale, pre-terapia, di ventitrè coppie di cromosomi, ebbene, solo dei Ludditi fanatici farebbero una cosa del genere ai loro figli» (382).

Abbiamo già trattato del compimento del Progetto Genoma umano, che è la base di partenza per identificare non solo i geni responsabili delle circa quattromila malattie genetiche note, ma per capire il funzionamento dei geni, la loro attivazione e disattivazione nonché la loro interazione con l'ambiente, sia l'ambiente epigenetico che l'ambiente più in generale in cui si trova a svilupparsi l'organismo. Se i test di screening per alcune malattie genetiche più comuni sono già facilmente accessibili ed in uso quotidiano (383), è ugualmente aperta la strada allo studio delle complesse determinanti poligenetiche che influiscono sui tratti morfologici, nonché su carattere, personalità, comportamento, attitudini, intelligenza, etc.; e di conseguenza alla manipolazione di tutte le caratteristiche che abbiano una componente genetica qualsivoglia nelle specie vegetali ed animali, uomo non escluso.

Riferisce Gregory Stock [alias] che ad un famoso simposio dallo stesso moderato nel 1998 (384) alla presenza di alcuni grandi biologi molecolari come Leroy Hood, che ha sviluppato la tecnica per sequenziare automaticamente i dati genetici, o French Anderson, fondatore della terapia genetica umana, dove veniva intonata la consueta litania tra l'ingegneria genetica "buona", volta a "curare", e quella "cattiva", volta a modificare o migliorare, il settantaduenne Watson, padre del Progetto Genoma e scopritore del DNA, è sbottato dicendo: «Capisco che nessuno abbia le palle per dirlo, ma se potessimo creare esseri umani migliori sapendo come aggiungere dei geni, perché mai non dovremmo farlo?». Aggiunge Stock: «La semplice domanda di Watson, "se potessimo, perché non dovremmo farlo?" va al cuore della controversia sulla modifica generica degli esseri umani. Le preoccupazioni sulla fattibilità o la sicurezza delle procedure sbagliano il bersaglio... Nessuno è davvero preoccupato da ciò che è impossibile... Ciò che i critici come Leon R. Kass, il noto bioetico dell'Università di Chicago, temono non è che questa tecnologia fallisca, ma che abbia successo, ed un successo clamoroso» (385).

In effetti, già in un sondaggio internazionale condotto nel 1993 Daryl Macer, direttore in Giappone dell'Eubios Ethics Institute, aveva modo di constatare come un sostanziale segmento della popolazione dell'epoca in tutti i paesi in cui il sondaggio si è svolto risconosceva che avrebbe voluto avere a disposizione l'ingegneria genetica tanto per prevenire patologie che per incrementare le capacità fisiche e mentali ereditate dai propri figli. E' interessante notare come i numeri forniti andassero dal 22% riscontrato in Israele al 43% degli Stati Uniti all'83% in India (386). Nota Ramez Naam: «Ironicamente, una delle reazioni più ovvie di chi si preoccupa della "sicurezza" delle tecniche volte a migliorare le prestazioni umane, ovvero quella di bandirla, risulta solo controproducente. Qualsiasi tecnica di questo è probabile diventi molto popolare. Consideriamo i precedenti: in aggiunta ai più di otto milioni di interventi di chirurgia plastica cui si sono sottoposti, i consumatori americani nel 2002 hanno speso diciassette miliardi di dollari in supplementi alimentari e rimedi naturali volti a migliorare lo stato generale di salute o incrementare le capacità fisiche e mentali. Molti di questi hanno effetti modesti o nulli, eppure sono incredibilmente popolari. Quando tecniche di miglioramento fisico o mentale saranno disponibili, non faranno altro che rispondere ad una vasta domanda in essere. Ora, il bando di beni o servizi di cui esista un'ampia richiesta non sembra eliminare il mercato per tali cose: si limita a crearne un commercio sottobanco. [...] In un regime di mercato nero, la prima a soffrire è proprio la sicurezza. Non vi è nessuno che assicuri il rispetto di standard qualitativi. Non vi è la minaccia legale di una responsabilità del produttore di servizi o procedure approssimativi.Diventa difficile compiere studi per verificare problemi emergenti» (387).

Il proibizionismo ha del resto di fronte una strada assolutamente impervia. Le statistiche provano che già oggi il 90% delle coppie negli Stati Uniti che scoprono dai test prenatali di attendere un bambino affetto da fibrosi cistica scelgono di abortire, cattolici compresi (388). Ovviamente, la percentuale che accetterebbe di farsi deliberatamente impiantare un embrione affetto da tale patologia, come la legge italiana sulla procreazione assistita vorrebbe demenzialmente imporre, sarebbe di gran lunga inferiore allo stesso modesto 10% di americani che sono disposti a portare avanti malgrado tutto la gravidanza di un feto affetto.

Le tecniche relative alla manipolazione delle linee germinali, dovessero anche rimanere vietate nella maggiorparte dei paesi industrializzati, sono destinate comunque ad emergere se non altro come sottoprodotto della ricerca sulle cellule staminali adulte e sulla terapie somatiche a base genetica (389), che hanno di fronte sfide molto più difficili. Aggiunge Stock [alias]: «Paragonati agli interventi genici a livello somatico, le inserzioni sulla linea germinale sono in un certo senso più "naturali", se non altro per il fatto che la loro regolazione è come quella del resto del nostro genoma. [D'altro canto,] la terapia genetica somatica è ben inserita nel quadro della medicina generalmente accettata. Nessuno che ha visto persone sofferenti di gravi sindromi come lafibrosi cistica o l'anemia falciforme negherebbe loro una cura sulla base di una vaga apprensione filosofica relativamente al fatto di alterare i nostri geni... L'ingegneria germinale rappresenta un cambio di paradigma nella riproduzione umana, ma quando efficaci terapie somatiche diverranno comuni, la banalizzazione in generale degli interventi genetici tra il pubblico aprirà la strada al passaggio dallo screening e selezione degli embrioni alla loro manipolazione [perché in effetti negare ad un embrione una terapia disponibile per adulto, e perché non estendere la guarigione non solo all'individuo, ma anche alla sua prole? (390)]. Inoltre, la ricerca sulle terapie genetiche somatiche produrrà inevitabilmente il know-how utilizzabile nell'ingegneria delle linee germinali» (391).

Questo porta con sé inevitabilmente l'idea di una responsabilità umana riguardo le caratteristiche in generale della propria discendenza. La American Academy for the Advancement of Science, editore della rivista Science e nota per la sua prudenza, malgrado gli anatemi bio-ludditi ha avuto così già modo di dichiarare: «Un più grande conoscenza della genetica rende possibile contemplare non solo il fatto di trattare o eliminare malattie, ma anche di "incrementare" caratteristiche umane al di là di quello che è necessario per restare o tornare in buona salute. Esempi potrebbero essere sforzi volti ad accrescere altezza o intelligenza, o ad intervenire per cambiare certe caratteristiche come il colore degli occhi o dei capelli». A sua volta, la National Science Foundation ha dichiarato nel 1991, in un simposio con il Dipartimento del Commercio americano intitolato "Converging Technologies to Improve Human Performance" [alias], che i partecipanti al convegno «raccomandavano una priorità nazionale in termini di ricerca e sviluppo sulle tecnologie convergenti nel miglioramento delle prestazioni umane, in particolare nei campi "nano, bio, info, cogno"» (392) (nanotecnologia, biotecnologia, informatica e scienze cognitive) (393) .

Personaggi come lo stesso Craig Venter, che come già ricordato con la Celera Genomics ha per primo completato la mappatura del genoma umano, e il premio Nobel Hamilton Smith, sono oggi impegnati nella ricreazione da zero del genoma funzionante di un microorganismo. Fino ad ora, era stato riprodotto il "genoma" di alcuni virus, come il phiX174 su cui ha lavorato Arthur Kornberg: il progetto di Venter riguarda invece la ricostruzione del genoma del mycoplasma genitalis, microbo molto semplice ma che presenta tutte le normali funzioni cellulari. Tra l'altro ciò rappresenta, come è ovvio, un passo fondamentale verso il vecchio obbiettivo della "creazione della vita in laboratorio" (394); ma le sue ricadute potenziali a termine con riguardo alla comprensione e gestione della genetica degli animali superiori e dell'uomo sono altrettanto evidenti.

In tale quadro, per quanto riguarda l'intervento diretto sul genoma umano, giova notare che allo stesso non risulta più in alcun modo applicabile l'"obiezione Beethoven" (395) avanzata contro le misure eugenetiche tradizionali, secondo cui politiche volte a limitare la procreazione dei portatori di caratteristiche indesiderabili potrebbero portare stocasticamente alla perdita di tratti genetici o fenotipi eccezionali, buttando per così dire il bambino con l'acqua calda. Tale intervento infatti è letteralmente terapeutico, limitandosi a modificare quanto deliberatamente preso di mira, e consentendo viceversa in potenza la conservazione di tratti positivi casualmente associati con altri incompatibili con la sopravvivenza o altrimenti indesiderabili.

«Così, la mutazione tecnologica è molto probabilmente durevole», scrive Kempf. «Bisogna abituarci all'idea di manipolare fortemente l'essere umano, di coltivarne le parti, di clonarlo, di programmarlo, di impiantarvi dispositivi bionici, di interagire con macchine sempre più dotate, etc. Non è che tutto sarà fatto, ma tutto sarà possibile. La trasformazione artificiale degli esseri si impone all'orizzonte della società» 396.

Anche le obbiezioni basate sulla complessità delle sfide che ci stanno di fronte mancano sostanzialmente il bersaglio. E' assolutamente vero che ci sfugge del tutto il meccanismo genetico di alcune caratteristiche, pure certamente ereditarie, e che la ricostruzione ingenua che immaginava il DNA codificasse in modo semplice e lineare le caratteristiche del fenotipo è soggetta oggi ad importanti revisioni. Ma la nostra capacità di manipolare i geni è definita non dalla nostra ignoranza di molti geni e combinazioni di geni che non capiamo, ma dalla profondità della nostra conoscenza dei pochi che capiamo già. Mano mano che la genetica umana, animale e vegetale continua a dipanarsi, troveremo che molti tratti sono troppo opachi per ipotizzarne un'alterazione in tempi prevedibili, per altri la cosa è in qualche misura oscura ma fattibile a medio termine, e altri ancora risultano sorprendentemente semplici.

La natura apparente di un tratto fenotipico del resto non ci dice nulla quanto alla complessità della genetica che vi sta alla base. «L'"orecchio musicale assoluto", o intonazione perfetta, è la capacità di identificare una nota musicale senza alcun termine di paragone con cui fare una comparazione [ad esempio un diapason, o la nota emessa da uno strumento musicale]. I meccanismi cognitivi e fisiologici posti in opera da chi ne gode per raggiungere tale risultato sono senza dubbio complicati, così che ci si potrebbe aspettare che tale abilità sia la risulta di contributi genetici numerosi, ma alcuni studi di associazione familiare suggeriscono che il potenziale di sviluppare un "orecchio assoluto" potrebbe dipendere da un singolo allele (ovvero la variante presente negli interessati di un singolo gene). E ciò benche l'acquisizione concreta di tale dote dipenda da un precoce addestramento musicale, tipicamente a partire dall'infanzia, così che come molte altre doti dipende insieme da una predisposizione generica e da un allenamento specifico» 397.

Come scrive Stock [alias], «Nessuna persona ragionevole nega la complessità dei sistemi biologici, così che una certa dose di scetticismo in mezzo all'esuberanza scandalistica dei titoli dei quotidiani sulla rivoluzione genomica è salutare. Ma concludere [o sperare] che non potremo mai superare le difficoltà scientifiche e tecniche è prematuro, a dir poco. Oggi, la manipolazione della linea germinale umana non è né fattibile né tantomeno sicura. Tra un decennio potrebbe ancora non esserlo. A due o tre decenni di distanza la storia potrebbe essere diversa. Interventi concretamente praticabili sulla linea germinale umana non richiederanno scoperte rivoluzionarie [fundamental breakthroughs], solo un avanzamento costante nella scala della nostra esplorazione del genoma umano. Nel giro dieci anni, ne sapremo molto di più su come le nostre predisposizioni e vulnerabilità genetiche si manifestano. Molte di queste influenze saranno probabilmente impossibili da manipolare utilizzando la tecnologia attuale, altre risulteranno difficili da decifrare ma non impossibili da maneggiare, ed altre ancora potranno essere cambiate in modo relativamente facile» (398).

Rileva Alexander: «Dal punto di vista biotech, ci sono quanto meno 1500 buone ragioni per ritoccare la biologia umana. Questo è il numero minimo di malattie con una riconosciuta determinante genetica. Di fatto, quando ti fermi a pensarci, siamo ben malcombinati. Sì, ce l'abbiamo fatta attraverso quattro milioni di anni di evoluzione, ma abbiamo raccolto un sacco di spazzatura lungo la strada. Il genoma di ogni persona ha qualcosa di sbagliato. Gli europei bianchi soffrono di fibrosi cistica, con i polmoni che si riempiono di muco lasciando i corpi senza fiato. Gli africani hanno l'anemia falciforme, un gene mutante che trasforma i loro globuli rossi in piccoli boomerang quasi incapaci di trasportare ossigeno. Italiani e greci e ciprioti hanno la talassemia. Gli ebrei hanno la sindrome di Tay-Sachs. Ci sono labbri leporini, bambini mongoloidi, cromosomi X "fragili". La gente nasce con dozzine di possibili sindromi come quelle di Marfans, Kleinfelter, Rett, Wiscott-Aldridge, Kartageners, Pelizaeus-Merzbacher, Leigh, il Cri du Chat,. L'evoluzione, diceva Watson "può essere dannatamente crudele"... Oggi i medici vedono molti pazienti che vogliono sapere tutto sui test genetici, sulla PGD (pre-implantion genetic diagnosis). Spesso, tali genitori non hanno problemi di fertilità, ma per ragioni familiari preferiscono sottoporsi ai rigori della procrezione assistita così che i loro embrioni comincino a crescere in un piattino, non in un utero» (399). Oggi questo consente una manipolazione puramente diagnostica, a fini di selezione degli embrioni (400), ma la tecnica apre la strada alla modifica diretta del genoma. Continua Alexander: «Che differenza c'è tra dare a un bambino insulina per il resto della sua vita ed inserire un gene per la produzione di insulina in un embrione che ne è sprovvisto? Non solo il bambino sarebbe definitivamente curato, ma non passerebbe il difetto genetico ai suoi figli, né questi ai loro».


Inseminazione, fecondazione, gestazione

Il cerchio si chiude in effetti con la maturazione delle tecnologie relative al meccanismo riproduttivo animale ed umano.

Già la scoperta di tecniche di controllo delle nascite affidabili, sicure, e che interferiscono scarsamente con l'esplicazione della vita sessuale degli individui coinvolti 401, se da un lato potenzialmente facilita oggi il "suicidio demografico" di alcune popolazioni (tendenza che d'altronde è sempre stata una costante storica dei periodi di decadenza), dall'altro consente una rigorosa scelta del partner con cui si desidera procreare e sulla cui prole è destinato a concentrarsi l'investimento parentale dell'interessato. Se la scelta "tradizionale" e "naturale" del partner sessuale è comandata, nell'uomo e negli animali, principalmente dal "sussurro dei geni" sociobiologico, la scelta procreativa consentita dalla contraccezione diventa una opzione del tutto cosciente e tendenzialmente sganciata dalle pulsioni individuali o (come diversamente accadrebbe specie in coloro che hanno più tendenza alla promiscuità) dal semplice gioco del caso. Ciò naturalmente enfatizza il ruolo della cultura in tale scelta, nonché la responsabilità interamente umana al riguardo nella società del "terzo uomo". L'identità del proprio partner riproduttivo non può più essere attribuita ad un attimo di... distrazione, ad uno stupro, ad una serata di baldoria, o al primo "interlocutore" resosi disponibile al termine di un periodo di astinenza forzata.

Similmente, il fatto che l'aborto sia divenuto relativamente sicuro e indolore, e sia stato reso (a prescindere dalle finalità perseguite) sostanzialmente discrezionale, almeno nel primo periodo di gravidanza, dalla maggiorparte degli ordinamenti (402), fa sì d'altronde che diventi impossibile, nel bene e nel male, prevenire una eliminazione e/o selezione prenatale dei nascituri per ragioni sostanzialmente arbitrarie (403).

La prima inseminazione artificiale umana risale al 1884, anno in cui Nietzsche [alias, alias] termina La gaia scienza [versione Web originale], e vede una donna farsi fecondare con lo sperma di uno studente di medicina, da questa neppure conosciuto. L'importanza pratica della tecnica cambia d'altronde drasticamente negli anni settanta, quando la conservazione in azoto liquido degli spermatozooi rese possibile lo stoccaggio di grandi quantità di campioni di sperma, e la loro utilizzazione a piacere, permettendo tra l'altro la selezione delle caratteristiche del donatore, al punto da venire oggi utilizzata su larghissima scala nella riproduzione animale. Così, nella stessa epoca vengono per la prima volta costituite banche del seme che consentono in linea di principio alla madre (o al medico) di scegliere un donatore sulla base di qualsiasi caratteristica o gruppo di caratteristiche siano state ordinatamente registrate all'atto della raccolta, tra cui razza, altezza, corporatura, colore degli occhi, grado di intelligenza, background etnico e religioso, e addirittura nazionalità (404).

Già all'epoca della guerra del Vietnam giovani americani depositarono il loro seme in banche specializzate per garantire alle loro mogli di poter comunque concepire loro un figlio ove non fossero più tornati. Nota persino un personaggio come Chiara Valentini: «L'associazione tra paternità e partenza per la guerra è antica, moltissime fonti l'attestano, è consegnata alla cultura popolare. Quando il soldato canta "Addio, mia bella, addio", aggiunge, a parziale consolazione: "ma non ti lascio sola, ché ti lascio un figlio, amor". Oggi il soldato può lasciare, oltre a un figlio, la semplice possibilità che questo nasca, proiettando la sua capacità di procreare oltre la fine stessa della vita. [...] Ma non si è spinti al deposito e alla congelazione del seme soltanto dal timore della morte»; oggi, i soldati ed altre persone a rischio possono piuttosto volersi «garantire la possibilità della procreazione nel caso in cui ferite o intossicazioni ne possano pregiudicare la fertilità. Da anni si ricorre alle banche del seme proprio quando si teme che, per esempio per effetto di un intervento chirurgico, si possa perdere la capacità di generare» 405.

Nel 1978 è la volta della prima procreazione extra-corporea o FIVET (406), in cui un ovulo prelevato dalla madre venne fecondato in laboratorio e reimpiantato dopo tre divisioni cellulari (in questo caso nella madre biologica), dando vita ad una bambina, Lousie Brown, concepita a Manchester con l'aiuto di Patrick Steptoe e Robert Edwards (407). Ciò smentiva la National Academy of Sciences americana, che nel 1970 aveva incaricato una commissione di studiare i tempi necessari per la messa a punto della fecondazione in vitro, ed aveva concluso che ci sarebbero voluti come minimo venticinque anni. Per poco, del resto, tale fondamentale esperimento non era stato anticipato di una decina d'anni da un italiano, Daniele Petrucci, che fin dal 1961 aveva ottenuto una fecondazione in provetta e mantenuto in vita l'embrione per trenta giorni (salvo poi, preso dal panico, distruggerlo, senza con ciò scampare le reprimende di Civiltà cattolica); e che apparentemente sarebbe stato qualche anno dopo addirittura interrotto nel tentativo di impianto di un embrione dall'intervento di un sacerdote, inviato dal vescovo di Bologna, a paziente già addormentata (!) (408).

Ormai circa un milione di bambini sono nati da allora in questo modo, in tutto il mondo. Di questi, almeno diecimila sono nati dopo una gestazione avvenuta in una donna diversa dalla madre biologica, e geneticamente del tutto estranea all'embrione. Tali fattispecie comprendono ovviamente sia i casi in cui la "madre" sterile riceve la donazione di un ovulo che quelle in cui la madre ricorre ad un utero surrogato per il fatto di non essere capace o disposta a portare a termine una gravidanza. Gli allarmi quanto all'impossibilità di considerare e trattare normalmente i bambini nati in tal modo, a suo tempo proclamati da Kass e Rifkin (la cui iniziale opposizione all'IVF è stata dal primo abbandonata, dal secondo persino... smentita, malgrado i suoi scritti più antichi testimonino altrimenti) (409), si sono scontrati con la più completa indifferenza da parte degli ambienti sociali di tali bambini, che hanno in qualche caso ormai raggiunto i venticinque anni, e che non sono in media considerati più "speciali" di quanti tra noi siano nati da un taglio cesareo piuttosto che da un parto naturale.

Nel 1984, a Melbourne, nasce il primo bambino sviluppatosi da un embrione congelato, ed inizia la pratica di espiantare il numero desiderato di ovuli della madre in unica soluzione, eliminando lo stress della continua stimolazione ormonale delle ovaie per il prelievo degli ovuli, che vengono successivamente raccolti, fecondati, conservati e tenuti a disposizione per il futuro ed eventuale reimpianto (410).

Molto più complicata, ma già sperimentata con successo per molte specie, la conservazione degli ovociti, che a differenza degli spermatozooi, o degli embrioni stessi, di per sé sopportano male il congelamento, raramente sono fecondati anche quando l'abbiamo sopportata, e raramente danno corso con successo a gravidanze anche quando siano fecondati. Proprio in Italia, d'altronde, almeno tre bambini sono già nati da ovuli congelati. Mentre poi lo sperma è per definizione abbondante in natura (411), «un grandissimo numero di giovani donne metterebbe verosimilmente "in banca" le proprie uova se potesse farlo facilmente», constata Gregory Stock [alias]. «Questo calmererebbe se non altro l'ansia relativa all'esaurirsi dei loro orologi biologici. Molte di tali donne certo non userebbero poi mai le loro uova conservate, e concepirebbero i loro bambini attraverso il sesso [tenendo queste ultime unicamente "per sicurezza"]. Ma altre donne sceglierebbero di farsi direttamente impiantare un embrione, [dopo aver fatto fecondare un certo numero di ovociti], vedendo la cosa come una procedura banale, troppo comoda per farne a meno» (412).

Anche in Italia, sin dall'inizio degli anni novanta «autorevoli riviste scientifiche hanno fatto delle proposte in questo senso» ricorda Luigi Frigerio, citando «per esempio, la possibilità di crioconservare ovuli nelle pazienti che si debbano sottoporre a terapie oncologiche con il rischio di perdere la fertilità. Ancora: è stata proposta questa tecnica nelle donne che vogliono [...] evitare i rischi genetici di una maternità in età tardiva. Ancora: prima della sterilizzazione tubarica, per il caso che la donna poi cambiasse idea; o in caso di rischio genetico, per poi eseguire un controllo qualitativo sul concepito» (413).

Un aspetto curioso della conservazione degli ovociti, come nota Kempf, è che gli ovociti in questione possono essere addirittura prelevati da femmine allo stato fetale. E' così possibile far nascere bambini la cui madre biologica non abbia mai vissuto (414), dopo fecondazione con il seme desiderato ed impianto in una madre ospite, non importa se sterile o a sua volta feconda.

In ogni modo, l'ampia diffusione di tali tecniche ha certo un potenziale significato di grande rilevanza non solo come oggi con riguardo a problemi di fertilità individuale, ma soprattutto con riguardo alla natalità delle popolazioni e segmenti di popolazioni che sono più esposti a pressioni sociali anti-demografiche nell'ambito delle società occidentali, ad esempio legate ai tempi lunghi necessari per assicurarsi un'indipendenza economica, o per evitare che la cura della prole interferisca con le prospettive di sviluppo sociale e professionale degli individui coinvolti; e il rilievo di tali fattori in termini di selezione negativa, o di aggravamento dei differenziali demografici tra componenti etniche diverse, non ha certo bisogno di illustrazioni nella nostra epoca.

Naturalmente, la facilità con cui è oggi possibile conservare e trattare spermatozooi, ovuli ed embrioni, fuori dall'utero ed in numeri non vincolati alla biologia della gravidanza umana (o se per questo animale), potendone poi assicurare lo vitalità nel momento desiderato, è fondamentale ai fini di ogni possibile procedura di esame, selezione, ed intervento nel senso già discusso, in particolare in vista dell'eliminazione o riparazione di embrioni portatori di tare genetiche, e della programmazione deliberata delle caratteristiche del fenotipo. Ciò viene appunto ad aggiungersi al significato che già oggi assumono nel medesimo senso la disponibilità di tecniche raffinate di diagnosi prenatale ed aborto selettivo; di metodi di identificazione certa dei genitori biologici, ed in particolare del padre, attraverso l'esame del DNA o dei gruppi eritrocitari rari; e di metodi anticoncezionali efficaci, sicuri ed a basso costo (415).

Non solo. In un certo senso, l'opposizione alla IVF (in-vitro fecondation) o "procreazione assistita", come è politicamente corretto chiamarla in Italia per escluderne qualsiasi funzione diversa da quella di rimedio a difficoltà procreative, ha in effetti un senso per i bioetici come Kass ed i suoi emuli italiani, per ragioni che poco hanno a che vedere con la retorica sulla dignità umana o i richiami religiosi, e che consistono esattamente nel fatto che la relativa tecnologia rappresenta ovviamente la porta d'accesso, in campo animale e umano, a tutte le manipolazioni riproduttive discusse nel presente saggio, escluso solo l'aborto selettivo (416). E' solo la fecondazione in vitro infatti che può consentire la PGD (pre-implantation genetic diagnosis, ovvero lo screening e la scelta degli embrioni), la clonazione, e gli interventi diretti sulla linea germinale, ovvero l'ingegneria genetica propriamente detta (417). Come nota Stock [alias], «a coloro che si occupano di infertilità non potrebbe importare di meno di remote nozioni come ridisegnare gli esseri umani: sono tutti troppo occupati a dare supporto psicologico ai pazienti, ad eseguire ecografie, ad aspirare uova, supervisionare procedure di laboratorio, impiantare embrioni. Sono integralmente impegnati nel qui ed ora, con uomini e donne che per lo più hanno difficoltà ad avere bambini di cui hanno grande desiderio. La portata più ampia del loro lavoro è comunque inequivocabile», specie con riguardo alla concepibilità stessa delle tecnologie discusse.

Riconosce d'altro canto Vittorio Possenti dell'Università di Venezia, membro del solito Comitato Nazionale di Bioetica: «Le nuove tecniche [della fecondazione assistita] cambiano il nostro modo di guardare alla procreazione, alla nascita, alla vita, alla famiglia, accendono i desideri, creano nell'immaginario collettivo una nuova percezione della paternità, maternità, figliolanza, sviluppano attese e paure inedite, danno all'uomo un sentimento di onnipotenza... Non pare dunque scenario inventato che i successi della scienza e la fiducia in essa che facilmente producono, uniti alla mentalità eugenetica che va prendendo piede, conducano a ritenere che la vera e sicura generazione sia quella interamente artificiale, non più il naturale concepimento seguito da gravidanza» (418). E ciò malgrado il fatto che la legge italiana esplicitamente restringa il ricorso alla fecondazione artificiale ai casi di sterilità o infertilità di coppia, ad esclusione di qualsiasi altro scopo (419).

In modo del tutto convergente, chi fa già oggi ricorso alla IVF, con correlativa selezione dei gameti o degli embrioni effettivamente utilizzati, sarà automaticamente incline a fare uso di tutti gli strumenti disponibili inerenti alla possibilità di determinare le caratteristiche del figlio da ottenere, sia attraverso quanto si rende spontaneamente disponibile a seguito degli incontri tra i gameti dei due partner, sia attraverso l'alterazione del codice genetico loro tramite trasmesso.

Nel mentre che l'aborto resta largamente consentito in vista di un'incomprimibile deferenza per i "diritti umani" della madre, la questione più o meno ridicola già citata quanto all'esistenza di uno stadio di pre-embrione, in particolare prima del quattordicesimo giorno successivo alla fecondazione (420), rileva non solo ai fini di trovare scappatoie per la morale cattolica in materia di fecondazione artificiale che siano meno macchinose delle soluzioni "tecniche"attualmente ipotizzate (421). Tale problematica figura potrebbe essere infatti necessaria ad eludere le norme sulla ricerca biomedica sugli esseri umani contenuti in codici e dichiarazioni internazionali, a cominciare dal Codice di Norimberga del 1947, sino alle Direttive Etiche Internazionali per la Ricerca Biomedica Condotta su Soggetti Umani del 1993 (422).

Mentre la procreazione assistita ha comunque definitivamente introdotto una parte delle tecniche necessarie alla futura fattibilità di interventi sulla linea germinale umana, abbiamo già visto come un'altra decisiva componente di tali tecniche sia stata generata come sottoprodotto della cosiddetta "clonazione terapeutica". Mentre non è chiaro se bambini clonati già cammino sulla terra, gli embrioni umani prodotti da cellule qualsiasi nella primavera del 2005 in Inghilterra ed in Corea in vista di possibili "terapie staminali" distano da un bambino solo l'impianto in un utero disponibile secondo modalità ormai ben esplorate, e garantiscono perciò la ripetibilità indefinita delle operazioni e delle sperimentazioni.

L'ultimo passo nel controllo umano della riproduzione propria e degli altri mammiferi sarà la creazione di uteri artificiali, la gestazione integralmente in incubatrice.

Se il parto è oggi ampiamente pilotabile e il taglio cesareo è praticato da duemila anni, da lungo tempo la tecnica medica è impegnata ad abbreviare progressivamente il tempo che un essere umano per sopravvivere deve trascorrere all'interno di un utero femminile, che è ormai sceso dai nove mesi canonici a meno di sei, grazie all'impiego di culle termostatiche, alimenti speciali, incubatrici con condizioni ambientali strettamente controllate, e altre terapie utili in caso di nascita prematura, naturale o provocata che sia. Allo stesso tempo, abbiamo visto che un numero crescente di bambini nasce in piattini da laboratorio, dove l'embrione conosce già una breve fase di sviluppo prima di essere reimpiantato nell'utero della madre, o di un'altra donna che si presti a portare a termine la gravidanza. La realizzazione dell'ipotesi che già il biologo e teorico dell'eugenetica Jean Rostand [alias] (1894-1977) considerava inevitabile, una gestazione completamente extrauterina, viene ritenuta realizzabile in un periodo tra i dieci e i cinquant'anni, ed applicabile su larga scala nel periodo immediatamente successivo alla messa a punto delle tecniche relative.

Scrivono già nel 1995 Langer e Vacanti: «Per tenere in vita un feto fuori dall'utero umano, la difficoltà principale che bisogna superare è quella legata al fatto che i suoi polmoni immaturi sono incapaci di respirare. [L'ossigenazione dei tessuti potrebbe essere d'altronde garantita tenendoli immersi] in liquidi come i perfluorocarburi, che trasportano ossigeno e biossido di carbonio in quantità elevate. [...] Una pompa potrebbe mantenere la circolazione del fluido costante e continua, agevolando lo scambio gassoso. [...] L'utero artificiale andrebbe poi equipaggiato con un apparecchio filtrante al fine di rimuovere le tossine dal liquido. Il nutrimento potrebbe essere fornito per via endovenosa, esattamente come avviene da parte della madre tramite il cordone ombelicale. Un utero di questo tipo diventerebbe un sistema autonomo nel quale lo sviluppo e la crescita potrebbero procedere normalmente sino alla "nascita" del bambino» 423.

Esperimenti di questo tipo sono già in corso. Dopo il lavoro pionieristico di Yoshinori Kuwabara nel 1990 all'Università Juntendo di Tokio sui perfluorocarburi e la possibilità di utilizzare tali sostanze per ossigenare il feto mantenendolo immerso in un liquido "respirabile", notevoli successi sono stati ottenuti con feti di capriolo nel 1997 mantenuti in un liquido amniotico artificiale e nutriti attraverso un sistema di circolazione extracorporea. Un sistema misto, che conserva la placenta originale, è stato studiato sempre su caprioli da Robert Guidoin all'Università Laval nel Quebec 424.

In effetti, le tecniche in questione sono applicabili anche con riguardo alla riproduzione animale, né è necessario che in tali uteri siano prodotti embrioni interi, essendo perfettamente possibile attraverso la manipolazione genica inibire la crescita di tutte le parti del corpo tranne quella che si desidera far crescere (affiancata naturalmente ad un sistema circolatorio e a un "cuore", naturale o meccanico), ad esempio un prosciutto di Parma o un filetto di bue o un "clone" del pancreas del paziente diabetico (425). Tali prodotti possono essere poi il frutto di incroci deliberati tra gameti sessuali selezionati dall'operatore, o della clonazione di cellule, eventualmente transgeniche, di individui già esistenti 426. In ultima analisi, il lento processo tramite cui il secondo uomo ha progressivamente acquisito il controllo della riproduzione vegetale, verrà ad estendersi nei prossimi anni all'insieme del vivente, specie umana compresa.

Pertanto, nel secolo della biotecnologia, la comunità politica potrà rendersi del tutto padrona, e sarà in ogni caso integralmente responsabile, del panorama umano e naturale su cui viene ad insistere, così come della sua composizione e demografia.


Futuri alternativi

Naturalmente, l'unica cosa che sappiamo con certezza del futuro della nostra specie e della nostra razza è che esso si trova di fronte a noi. Sappiamo anche che non esiste possibile "ritorno al passato" (427). Può esserci solo un ritorno (propriamente: l'Eterno Ritorno) di ciò che in passato ci ha consentito di affrontare sfide nuove ed affermare noi stessi. La nostra inquieta esplorazione del mondo, le tecniche che ne discendono, ci condannano a delle scelte, ci offrono dei poteri, ma non possono dirci cosa farne. Questo non appartiene agli ingegneri o agli scienziati o ai giuristi, ma agli "eroi fondatori", ai poeti, ed alle aristocrazie che sanno tradurre in atto l'oscura volontà collettiva della comunità popolare da cui emanano, costruendole monumenti destinati a sfidare l'eternità, lasciando dietro di sé una "gloria che non muore".

Le questioni qui discusse sono destinate comunque a plasmare il nostro futuro. La crescente banalizzazione delle possibilità che vengono via via aperte rende impensabile che esse possano essere unanimemente represse o ignorate a livello planetario per qualsiasi durata di tempo significativa, qualsiasi sia la forza della censura applicata, dell'influenza culturale e politica della tendenza a negarne la portata o vietarne l'applicazione, del controllo poliziesco interno ed internazionale che venisse stabilito al riguardo (428).

Ora, vi è chi ritiene, pessimisticamente, che contro ogni apparenza il progresso teorico e tecnico fondamentale da tempo rallenti; o che addirittura, dopo l'incredibile accelerazione del periodo a cavallo tra i due ultimi secoli, si stia fermando, in coincidenza non casuale con la graduale affermazione del sistema della globalizzazione planetaria e della sua promessa di una fine della storia; ed è lecito pensare che le mirabolanti applicazioni attuali, ivi comprese quelle discusse nel presente lavoro, non siano che "implementazioni" ed "industrializzazioni" portate a termine da nani in punta di piedi sulle spalle di giganti (429). Ma la questione non ha veramente importanza, perché come abbiamo visto gli sviluppi annunciati non richiedono alcun vero breakthrough, alcuna rivoluzione fondamentale nelle conoscenze e nelle tecniche oggi disponibili. In fin dei conti, persino un'impresa fondamentale come il completamento del Progetto Genoma umano non è consistita in altro che nel buttare risorse addosso ad un problema che in termini generali si sapeva già come risolvere. Il "mutamento di paradigma" è già alle nostre spalle.

Perciò, anche ipotizzando la scelta di un radicale tentativo di rimozione collettiva, di un proibizionismo assoluto, il nostro modo di vivere ne sarà irrimediabilmente cambiato. Ad esempio, per ciò che riguarda la riproduzione e l'ingegneria genetica umana, quando le tecniche coinvolte saranno accessibili a tutti, poco oltre il livello di una scatola del "Piccolo Chimico", per escluderne davvero l'utilizzo dovremmo instaurare il sequestro di tutti gli ovuli e gli spermatozooi ai naturali detentori onde prevenirne la manipolazione; l'istituzione di una banca dati delle specie e delle razze "naturali" da cui sarà vietato discostarsi; la verifica per legge di tutte le gravidanze per controllare che siano il frutto di ovuli propri, fecondati da un partner estratto a sorte e di cui sia ignota l'identità genetica, e che le stesse siano portate a termine senza sapere quale ne sarà il prodotto.

Che uno scenario di questo genere possa davvero mantenersi è però molto poco probabile, malgrado gli sforzi dei "comitati di bioetica" e dei legislatori più condizionati in senso reazionario.

«E' improbabile che provvedimenti legislativi alterino le possibilità fondamentali che emergono ora. Lo status legale delle varie procedure in vari paesi può affrettare o ritardare il loro arrivo, ma sono destinate ad avere un impatto limitato a lungo termine, perché le tecnologie genomiche e riproduttive in esame sorgeranno dal filone principale della ricerca biomedica attuale, che andrà avanti comunque. Le messe al bando non determineranno se, ma quando e soprattutto dove le tecnologie diverranno disponibili, chi ne approfitterà, chi indirizzera il loro sviluppo, e quali genitori avranno prima accesso ad esse. Le leggi decideranno se le tecnologie verranno sviluppate in test clinici condotti negli Stati Uniti, da laboratori governativi in Cina, o in strutture clandestine in qualche isola dei Caraibi» (430).

Nulla impedisce invece che la frattura epocale che si prospetta venga ad accelerare la fine della storia anziché la sua rigenerazione. E' indubbiamente facile immaginare uno scenario in cui il Sistema, in particolare attraverso società multinazionali e pubbliche amministrazioni complici, stabilisca o rafforzi grazie alle biotecnologie il proprio potere sulle risorse alimentari, energetiche e industriali, e le asservisca a finalità di controllo sociale, anche attraverso la deliberata accelerazione, a livello di diretta manipolazione genetica delle popolazioni, dell'uniformizzazione planetaria della specie e della rimozione delle "devianze" potenzialmente destabilizzanti. Le tecniche descritte potrebbero in tale quadro essere rese unicamente strumentali al governo cieco di un "mercato" mondiale, ora per sfamare un'umanità indifferenziata, sradicata, decadente e brulicante, votata al puro sfruttamento e distruzione dell'ambiente terrestre; ora per servire finalità di microedonismo borghese di pseudo-élite degenerate – magari aggrappate patologicamente alla sopravvivenza individuale dei propri membri e la cui età media sarebbe del resto destinata ad innalzarsi progressivamente – , ma comunque in un quadro di disumanizzazione progressiva.

L'eliminazione sempre più radicale dei fattori selettivi tradizionali, e la loro limitata e meccanica sostituzione su scala mondiale con quelli creati da un formicaio mercantilista e globalizzato, verrebbero così ad allearsi con una progressiva trasformazione dell'ambiente e dell'uomo trascinata unicamente da meccanismi economici insensati, e in particolare dalla dialettica perversa tra le capricciose preferenze e i pregiudizi ideologici di consumatori autoreferenziali, e i mezzi di condizionamento di massa che li determinano, li echeggiano e li amplificano al tempo stesso.

Tale prospettiva, proprio in quanto completamente incontrollata, ha indubbiamente notevoli potenzialità catastrofiche per la nostra specie e il suo ambiente, quali quelli messi in risalto soprattutto da chi combatte in generale la "rivoluzione biologica" attuale da posizioni reazionarie, ed ancora quelli inerenti al pericolo disgenico e alla "fragilizzazione" della specie che consegue alla riduzione del suo grado di varianza interna, della sua plasticità, e della sua capacità a sopravvivere in condizioni diverse da quelle, del tutto artificiali, oggi garantite ai più, e non solo in occidente.

Ma se possibile ancora più agghiacciante è per alcuni la prospettiva che tale processo possa avere successo, ed effettivamente stabilizzarsi, realizzando la promessa biblica di restituire alla fine la nostra specie a quella dimensione naturale, puramente statica, "animale", se non "fisico-chimica", da cui non avrebbe mai dovuto uscire mangiando i frutti dell'albero proibito dell'ominazione.

L'ambiente artificiale creato dall'uomo stesso, nel perdere le sue ultime vestigia di "naturalità", finirebbe così per reinghiottire il suo creatore, reso un mero, provvisorio ingranaggio dai confini indefiniti, nel contesto di una "macchina" bio-socio-economica capace di azzerare qualsiasi identità, destino, appartenenza, autodeterminazione collettiva del proprio futuro culturale e biologico; e addirittura qualsiasi tentazione in questo senso. Non diversa è d'altronde l'aspirazione ad un Sistema che ci spogli definitivamente dalla "responsabilità intollerabile" del dominio dell'uomo sull'uomo, di artefici delle proprie fortune, a favore di meccanismi impersonali, di interessi materiali ed individuali dati, e perciò prefissati e sottratti alla dimensione della libertà e dell'arbitrario.

Scrive Massimo Fini: «Se fosse solo una questione di multinazionali, di un trust di 'cervelli' che guida la baraonda, di una qualsiasi Trilateral o "Spectre", le cose sarebbero più semplici. Ma il fatto è che l'uomo moderno, nato col liberalismo, l'individualismo, la democrazia, è divenuto ostaggio del meccanismo, industriale, tecnologico, produttivo ed economico, che lui stesso ha creato e che è sfuggito di mano agli stessi apprendisti stregoni che pretendono di governarlo. Un meccanismo che si autoregola esclusivamente in funzione della propria crescita ed autoperpetuazione, indifferente alla condizione umana. Non sono le oligarchie, nazionali ed internazionali, politiche ed economiche, a guidarlo: queste sono solo i profittatori di giornata e le mosche cocchiere di una carrozza che va per conto suo» 431.

In ogni modo, i cicli parabiologici delle grandi culture spengleriane del "secondo uomo" sono comunque finiti, così come si è conclusa la possibilità che le razze che le esprimono e che da queste sono plasmate possano limitarsi a ripetere lo schema di vita in cui hanno abitato gli ultimi dieci o quindicimila anni.

E' proprio Spengler, autore, con Il tramonto dell'Occidente, di quello che lui stesso definisce "Lineamenti di una morfologia della storia mondiale" 432 ed analista dei grandi cicli delle cosiddette culture superiori, a riconoscerlo: «Il tempo non si può fermare. Non vi sono saggi ritorni né prudenti rinunzie. Soltanto i sognatori sperano nelle vie di salvezza. L'ottimismo è viltà. Siamo nati in questo tempo e dobbiamo percorrere sino alla fine la via che ci è destinata... Questa è grandezza, questo significa aver razza» 433. Aggiunge Jünger: «L'uomo, come aveva intuito Nietzsche, è giunto al momento storico in cui non ha altra scelta se non quella di rinunziare alla propria umanità o di prendere in mano il "dominio della Terra"» (434).
Ma è Nietzsche [alias, alias] stesso a indicarci cosa ciò significhi: «Il "bene dell'individuo" è altrettanto immaginario del "bene della specie". Il primo non è sacrificato al secondo. La specie, vista da lontano, è qualcosa di altrettanto inconsistente che l'individuo. La "conservazione della specie" è soltanto una conseguenza della crescita della specie, il che equivale ad una vittoria sulla specie, nel cammino verso una specie più forte. [...] E' precisamente con riguardo ad ogni essere vivente che si può mostrare meglio che esso fa tutto ciò che può non per conservare se stesso, ma per diventare più di ciò che non sia» (435).

D'altronde, la tendenza sovrumanista e postmoderna, da Nietzsche in poi, nel rifiutare la visione linearista e provvidenziale della storia propria ai monoteismi religiosi e laici che ci promettono la "pace" della fine dell'avventura umana, sostituisce la sfera al cerchio, κύκλος, dell'antichità pagana – una sfera la cui superficie è il presente, che si espande necessariamente verso l'esterno ma può ruotare in qualsiasi direzione (436). Certo, la visione "aperta" della storia non dà certezze consolanti, ed implica necessariamente il fatto che la storia possa finire. Garantisce d'altronde, sino a che ciò non si verifichi, che ogni punto, ogni epoca possano essere assunti come il momento di una nuova origine, di una rigenerazione della storia stessa.

L'era del passaggio al "terzo uomo" e della inevitabile alterazione dei fondamenti biologici stessi della vita sul pianeta, età in cui siamo destinati a vivere storicamente la nostra esistenza, è perciò un'era primordiale in cui si affronteranno, ancora una volta, da un lato, l'aspirazione paradisiaca alla fine della storia, delle differenze, dei conflitti, della "presunzione umana"; dall'altro, un nuovo, possibile sogno di grandezza su scala mai prima immaginata, capace di proiettare la libertà e la volontà di potenza della propria comunità di riferimento "sino là dove nessun uomo è mai giunto prima".

L'avvenire apparterrà a chi saprà esprimere la volontà più forte, la consapevolezza più profonda.

Stefano Vaj


APPENDICE:
"Il rimedio di Prometeo e del Dottor Faust", di Guillaume Faye


INDICE
Bioetica, ambientalismo, biopolitica
Sovrumanismo e "terzo uomo"
La voce della reazione
La minaccia disgenica
Ambiente naturale, ambiente culturale e selezione
Specie e razze
Deriva, adattamento, differenziazione
La "tentazione eugenetica"
La manipolazione del vivente
Il secolo biotech
OGM ed altri mostri
Inseminazione, fecondazione, gestazione
Futuri alternativi

(1) «In principio era l'azione».
(2) Il meccanismo della rimozione, o réfoulement, che non è stato ovviamente solo Freud a descrivere, consiste nell'utilizzo della ben nota capacità umana di ignorare, dimenticare e cancellare dalla mente quello che è propriamente "intollerabile" per l'individuo o il gruppo coinvolti dal fenomeno. È inutile d'altronde notare come non è certo il fatto di rimuovere dalla propria mente un problema che fa sì che questo se ne vada...
(3) Vedi il sito di Clonaid, "the first human cloning company in the world".
(4) Leon R. Kass, Human Cloning and Human Dignity. The Report of the President's Council on Bioethics, Publicaffairs/Perseus Books Group, New York 2002, [edizione Web] pag. XVII.
(5) L'espressione, che indica l'opposizione radicale alla biotecnologia ed al transumanismo, fa ovviamente riferimento al movimento terrorista anti-industriale inglese del 1811-1812 (intitolato ad un idiota di nome Ned Ludd che a quanto pare aveva rotto per errore due telai), uso a minacciare i possessori di macchine, e buttare dalle scogliere o fracassare a martellate queste ultime.
(6) Leon R. Kass, Human Cloning and Human Dignity. The Report of the President's Council on Bioethics, op. cit.
(7) Significativa l'omonimia del pianeta con il "titanico" Signore degli Anelli nell'omonima trilogia di John R. R. Tolkien (ultima edizione italiana, Bompiani, Milano 2004), portata sullo schermo nei film [versione DVD italiana: 1, 2, 3] di Peter Jackson (Nuova Zelanda 2001-2003), e prima ancora nel cartone animato di Ralph Bakshi, La compagnia dell'anello (USA 1978) [versione DVD].
(8) Edizione italiana: Greg Egan, La scala di Schild, Mondadori, Milano 2004. Vedi anche l'antologia a cura di Gardner Dozois Supermen. Tales of the Posthuman Future, St. Martin's Griffin, New York 2002.
(9) Per una recente edizione italiana, Mursia, Milano 2003. Dalla storia sono state tratte le mediocri versioni cinematografiche di Erie C. Kenton (USA 1933), di Don Taylor (USA 1977) [versione DVD] e di John Frankheimer [versione DVD] (in italiano con il titolo L'isola perduta, USA 1997 [versione DVD]) .
(10)Cfr. Brian Alexander, Rapture: How Biotech Became the New Religion. A Raucous Tour of Cloning, Transhumanism, and the New Era of Immortality, Basic Books / Perseus Book Group, New York 2003, pag. 49. Un'altra recente presentazione di quest'ordine di idee, al tempo stesso meno giornalistica, con maggior spessore scientifico, e in un certo senso dall'"interno" del movimento è quella di Gregory Stock [alias] Redesigning Humans. Choosing Our Genes, Changing Our Future, Mariner Books, New York 2003, traduzione italiana: Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005. Un'espressione recente di questa tendenza è incarnata nell'Immortalist Institute, cui si deve l'antologia, con partecipazione di vari studiosi illustri, The Scientific Conquest Of Death, Libros en Red, Buenos Aires 2004. Vedi anche il sito Web Geniebusters, "For a Biocentric Transhumanism", di Lyle Burkhead; ed ancora Ray Kurzweil, The Age of the Spiritual Machines, Penguin, New York 2000, Fantastic Voyage. Live Long Enough to Live Forever, Rodale Books, New York 2004 [sito collegato], e The Singularity Is Near. When Human Transcend Biology, Viking, New York [sito collegato]. Dal lato sovrumanista, postmoderno ed europeo si è occupato della ricerca in materia di estensione della vita umana Yves Christen, in Les années Faust, ou La science face au vieillissement, Sand, Parigi 1991, noto nell'ambiente soprattutto per numerosi e fondamentali contributi pubblicati in materia biopolitica su Nouvelle Ecole.
(11) Sul carattere d'altronde puramente fantasioso di questo arruolamento in senso umanista ed antieugenetico di... Platone, cfr. quanto si dirà nel capitolo sulla tentazione eugenetica, nonché Hans F.K. Günther, Platone custode della vita, Edizioni di Ar, Padova 1974.
(12) Dalla prefazione di Lissa al compitino reazionario recentemente compilato da tale Cristian Fuschetto, Fabbricare l'uomo. L'eugenetica tra biologia e ideologia, Armando Editore, Roma 2004, [recensione] con la graziosa sponsorizzazione della Regione Campania e dalla provincia di Benevento (!), pag. 8.
(13) L'uso del termine "paradigma" per indicare gli elementi portanti dell'epistemologia scientifica e filosofica di una certa epoca, e più in generale la sua stessa percezione del mondo, trae origine dall'opera di Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, trad. it. Einaudi, Torino 2000, e da allora è entrata a far parte del linguaggio dei media e del marketing, sino ad essere inflazionata al punto per cui pare talora diventare un paradigm shift anche l'affermazione di un nuovo detersivo.
(14) Guillaume Faye, Archeofuturismo, Società Editrice Barbarossa, Milano 1999 [versione Web]. Il termine è poi stato ripreso, per lo più citando l'omonima opera dell'autore francese, da vari commentatori, tra cui Alessandro Giuli, "Il corpo si ribella all'anima e progetta l'immortalità", in Il Giornale del 04/02/2003.
(15)Esemplare in questo senso, sia pure in chiave in ultima analisi pessimista (ma mai primitivista o tradizionalista), è l'operetta del 1931 di Oswald Spengler, Der Mensch und die Technik. Beitrag zu einer Philosophie des Lebens (ult. ed. C.H. Beck Verlag, Monaco 1991). Il libro è uscito in italiano, tradotto da Angelo Treves, con il titolo L'uomo e la macchina (Edizioni Il Corbaccio, Milano 1931 e 1933), poi nel dopoguerra con il titolo Ascesa e declino della civiltà delle macchine (Edizioni del Borghese 1970), e ancora con il titolo L'uomo e la macchina (Settimo Sigillo, Roma 1989). Un commento [versione originale Web, versione italiana Web] di Giorgio Locchi venne pubblicato da Nouvelle Ecole (n. 13, autunno-inverno 1970) in occasione dell'uscita nello stesso periodo di una traduzione in francese (con il titolo L'homme et la technique, Gallimard, Parigi 1969). In realtà Spengler riconosce pienamente il significato dell'avventura del "secondo uomo", la sua grandezza ed il suo attuale esaurimento, ma ha difficoltà a raffigurarsi un "nuovo inizio" ed un ulteriore salto di qualità, e si prospetta piuttosto la fine della storia e della tecnica stessa, in un quadro di disumanizzazione che pure depreca con tutte le sue forze e cui considera doveroso opporsi attivamente.
(16) Così, ancora recentemente, Maria Teresa Pansera, L'uomo e i sentieri della tecnica: Heidegger, Gehlen, Marcuse, Armando Editore, Roma 1998.
(17) Martin Heidegger, "Die Frage nach der Technik", in Vorträge und Aufsätze, ult. ed. Klett-Cotta, Stuttgart 2000, trad. it. di G. Vattimo, "La questione della tecnica", in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1967, pag. 30.
(18) Maria Paola Fimiani, Umano, post-umano. Potere, sapere, etica nell'età globale, Editori Riuniti, Roma 2004.
(19) Cfr. Ernst Jünger, Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt (1932), ult. ed. Klett-Cotta , Stuttgart 1982, trad. it. di Quirino Principe, L'Operaio. Dominio e Forma, Guanda, Milano 2000. Tale traduzione mantiene il titolo con cui l'opera è stata originariamente fatta conoscere in Italia da Julius Evola - in particolare con L'Operaio nel pensiero di Ernst Jünger (1960), ult. ed. Edizioni Mediterranee, Roma 2002 - certo più evocativo, con il suo riferimento all'"opera" creativa, di quello più letterale di Lavoratore (parola etimologicamente connessa in italiano alla radice latina labor-, che rimanda piuttosto all'idea di una sofferenza prolungata). Un saggio importante su tale opera, su cui Heidegger aveva nel 1934 organizzato un seminario durato quasi un anno, è anche quello di Alain de Benoist, "Ernst Jünger: la Figure du Travailleur entre les dieux et les titans", in Nouvelle Ecole n. 40, settembre-novembre 1983, pag. 11-61, trad. it. L'operaio tra gli Dei e i Titani. Ernst Jünger "sismografo" dell'era della tecnica, Terzavia, Milano 2000, [versione Web]. Certo, Jünger dopo il trauma della seconda guerra mondiale finirà per allinearsi alle posizioni sostanzialmente antitecnologiche e vagamente arcadico-nichiliste del meno noto fratello Friedrich Georg Jünger, con una deriva del resto già annunciata dalle Scogliere di marmo; ma questo lascia immutato l'interesse delle sue opere degli anni trenta; più problematico è invece sostenere, come fa de Benoist, che esista una coerenza di fondo nel fatto di continuare a porsi le stesse domande, benché la propria risposta a tali domande con il tempo sia mutata: semmai, una forma superiore di "coerenza" parrebbe invece la capacità di porsi domande sempre nuove. La posizione di de Benoist sull'evoluzione, o involuzione, del pensiero jüngeriano rappresenta però una trasparente proiezione del modo in cui l'autore francese vede il suo proprio graduale ripiego da alcune posizioni che gli erano proprie negli anni settanta ed ottanta, non da ultimo proprio con riguardo alla tecnica ed alle grandi questioni biopolitiche. Lo stesso Heidegger, d'altronde, era giunto in vecchiaia a lodare proprio Jünger per aver asseritamente strappato la rappresentazione metafisica sotto l'aspetto della volontà di potenza «al campo biologico ed antropologico che ha così esageratamente fuorviato il cammino di Nietzsche» (! - cfr. "La questione dell'essere", in Martin Heidegger, Ernst Jünger, Oltre la linea, Adelphi, Milano 1989, pag. 119). Difficile giudicare oggi quanto in tali osservazioni giochino le "gelosie" di Heidegger nei confronti di Nietzsche [alias, alias] ipotizzate da Giorgio Locchi, quanto il "condizionamento ambientale" del secondo dopoguerra, e quanto un "rarefarsi spontaneo" della riflessione heideggeriana in tarda età.
(20) Alain de Benoist, L'operaio tra gli Dei e i Titani [versione Web], op. cit., pag. 41.
(21) Cfr. Filippo Tommaso Marinetti, Teoria e invenzione futurista, ult. ed. Mondadori, Milano 1983.
(22) Vedi su un piano direttamente politico, gli esiti contenuti nelle prime pagine di Genesi e struttura della società di Giovanni Gentile (per un'edizione recente, Le Lettere, Firenze 2003), ma prima ancora in Teoria generale dello spirito come atto puro (Le Lettere, Firenze 2003, pubblicato per la prima volta nel 1916).
(23) Maria Teresa Pansera, L'uomo e i sentieri della tecnica: Heidegger, Gehlen, Marcuse, op. cit., pag. 31. Vedi anche Arnold Gehlen, Moral und Hypermoral, AULA-Verlag, Wiesbaden 1986, trad. italiana di Ubaldo Fadini, Morale e ipermorale. Un'etica pluralistica, Ombre Corte, Verona 2001.
(24) Arnold Gehlen "Die Technik in die Sichtweise der philosophischer Anthropologie", in Anthropologische Forschung. Zur Selbstbegegnung und Selbstutdeckung des Menschen, Rohwolt, Amburgo 1961 (trad. it. "La tecnica vista dall'antropologia", in Prospettive antropologiche, Il Mulino, Bologna 1987, pag. 127).
(25) Oswald Spengler, Ascesa e declino della civiltà delle macchine, op. cit., pag. 54. L'antropologia di Spengler caratterizza in particolare l'uomo come un "predatore inventivo", in cui lo sguardo che caratterizzerebbe la percezione-del-mondo degli animali da preda rispetto alla dominante olfattiva degli erbivori, si è composto con la mano pensante che regge lo strumento, l'utensile e l'arma, e trasforma il dominio teorico del carnivoro sul suo territorio in dominio pratico sul mondo.
(26) Ben rappresentati ad esempio in Giuseppe Garrone (a cura di), Fecondazione extra-corporea. Pro o contro l'uomo?, Gribaudi, Milano 2001. Il libro contiene in sostanza gli atti del convegno dal titolo "FIVET: pro o contro l'uomo?" organizzato a Torino nel 2000 dal cosiddetto Movimento per la Vita, meglio noto per la raccolta di firme per il referendum abrogativo della legge italiana sull'aborto di qualche decennio fa. FIVET (fecondation in vitro and embryo transfer) è un sinonimo, chissà perché considerato vagamente dispregiativo, di IVF (in-vitro fecondation), più comunemente nota in italiano appunto con l'"eufemismo" (?) rappresentato dall'espressione procreazione assistita.
(27) Cfr. Chiara Valentini, La fecondazione proibita, Feltrinelli, Milano 2004. Il libro della giornalista, pur assolutamente allineato in termini di scelta di valori con la cultura dominante, ben rappresentata anche nella prefazione di Stefano Rodotà, è nondimeno una miniera di notizie ed argomenti sulla poco edificante storia del movimento proibizionista in materia di inseminazione artificiale, e oggi di procreazione assistita.
(28) Giova notare che in questo campo la palma dell'integralismo, ma forse anche della coerenza, va all'individualismo cristiano, in particolare evangelico ma anche cattolico, rispetto alla maggiore coloritura comunitaria del pensiero ebraico ed islamico, che tendono a riconoscere una certa differenza alla posizione dell'embrione rispetto a quella del membro a pieno diritto del corpo sociale, come sottolinea anche l'omologo italiano di Kass, ovvero Francesco D'Agostino, ordinario di filosofia del diritto all'Università di Tor Vergata a Roma e presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica, in un'intervista pubblicata da Il Corriere della Sera, 15/01/2005, pag. 5 (a cura di Franca Porciani, "Il bioetico cattolico"). In realtà, d'altronde, la posizione cattolica ufficiale risale solo al 1869, quanto Pio IX rimosse la tradizionale distinzione tra feto "animato" e feto "inanimato"e dichiarò che all'ovulo l'anima sarebbe infusa da Dio in coincidenza con la sua fecondazione (le opinioni maggioritarie in campo ebraico fissano invece il "momento" ad un mese dopo il concepimento, in campo islamico nel periodo tra uno e tre mesi). Hanno perciò ragione gli interventi contenuti in Giuseppe Garrone (a cura di), Fecondazione extra-corporea. Pro o contro l'uomo?, op. cit., a considerare ipocrite le ipotesi di alcuni cattolici, funzionali alla fecondazione artificiale, quanto all'esistenza di un problematico stadio di "pre-embrione" relativo alle prime due settimane successive alla fecondazione. In ogni modo, il relativo dibattito suona assolutamente "talmudico" per chi non si ponga nella medesima prospettiva. Ad esempio, lo status "totipotente" delle cellule embrionali nel primo periodo della gestazione, per cui provocando la scissione dell'embrione si generano semplicemente... due gemelli monovulari, pone il paradosso del "significato morale" di tale tipo di clonazione: che è successo? Si è scissa anche l'anima? L'individuo originario è stato "ucciso", e ne sono "nati" due al suo posto (conclusione cui pare tendere la legge italiana nella misura in cui punisce con vent'anni di reclusione tale modesta interferenza)? Inoltre, è bensì vero che il "programma" contenuto nel DNA dell'individuo viene in un certo senso "fissato" all'atto della fecondazione, ma l'individuo sarà altresì parimenti modulato dai meccanismi perigenetici e dall'ambiente, a cominciare da quello uterino, come non dovrebbe essere necessario ricordare a chi si accanisce a denunciare l'"innatismo"; e comunque lo stesso DNA preesiste integralmente nei singoli gameti che entreranno a comporlo. In un certo senso, tale logica dovrebbe condurre alle conclusioni fatte proprie della parodia dei Monty Python nel film Il senso della vita [DVD] (The Meaning of Life, Inghilterra 1983), in cui un coro di suore canta «Every sperm is sacred, every sperm is saint» («Ogni spermatozoo è sacro, ogni spermatozoo è santo»)...
(29) Quanto poi ai "diritti", per una donna che ha scoperto mediante amniocentesi o villocentesi di portare un feto affetto da una tara, e che voglia adempiere ai suoi doveri nei confronti della comunità e della sua famiglia, siamo fermi al "diritto" di recarsi obbligatoriamente in una disastrata struttura pubblica, tra pozze di sangue, extracomunitarie urlanti e prostitute semideficienti, alla ricerca di un medico che non "obbietti" all'unica forma di terapia possibile. Salvo, qualora sia superato il terzo mese di gravidanza, sottoporsi all'ulteriore umiliazione e disagio di dover fornire una perizia falsa relativa a rischi per la sua salute fisica o psichica, oppure recarsi all'estero, se se lo può permettere.
(30) Vedi sull'argomento Giorgio Locchi, "La lettura del mito. Lévi-Strauss, il divenire storico e le società umane", in l'Uomo libero n. 18.
(31) Tali concezioni sono state riprese, sviluppate ed illustrate più estesamente in Stefano Vaj, "La tecnica, l'uomo, il futuro", in l'Uomo libero n. 20, cui rimandiamo per le implicazioni più propriamente filosofiche di questa prospettiva.
(32)Arnold Gehlen, Le origini dell'uomo e la tarda cultura, Il Saggiatore, Milano 1994, pag. 62 (versione originale: Urmensch und Spätkultur, Klostermann 2005).
(33) Oswald Spengler, Ascesa e declino della civiltà delle macchine, op. cit., pag. 75. Il rapporto tra tecnica e linguaggio è del resto iconicamente rappresentato dal mito della torre di Babele, il cui significato viene esemplarmente rovesciato in chiave sovrumanista da Fritz Lang nel film Metropolis [DVD] (Germania 1926, sceneggiato dalla moglie Thea von Harbou).
(34) Così, quando Lang nel film Metropolis già citato deve presentarci la classe dirigente del futuro, ce la mostra per la prima volta in un giardino, tra boschetti e sorgenti, e non nella avveniristica città sotterranea che è riservata alle masse.
(35) L'invenzione dell'agricoltura dei cereali, e della cottura che rende possibile la digestione dei suoi prodotti tipici, sembra rintracciabile in centri multipli di espansione demica ancora oggi identificabili attraverso i gradienti genetici, e corrispondenti alle zone da cui si sono rispettivamente irraggiate le colture del grano (Medio Oriente, in particolare Mesopotamia, e valle del Nilo), del riso (Cina meridionale), del mais (America centrale). Cfr. Luigi Luca Cavalli-Sforza, Geni, popoli e lingue, Adelphi, Milano 1996.
(36) Questo, come illustra Locchi in "La lettura del mito", art. cit., è il vero significato del tema ricorrente in tutte le mitologie indoeuropee della "guerra di fondazione" (Asi contro Vani, Latini contro Sabini, etc.), risolta dalla magia superiore dei primi, che sottomettono ed accolgono la classe produttiva nel sistema della tripartizione funzionale ben illustrato nelle opere di Georges Dumézil.
(37)Oswald Spengler, Ascesa e declino della civiltà delle macchine, op. cit., pag. 87 (ult. ed. italiana con il titolo L'uomo e la macchina, versione originale: Der Mensch und die Technik. Beitrag zu einer Philosophie des Leben).
(38) Locchi tende ad identificare il passaggio al "terzo uomo" con quella che definisce «la domesticazione della materia-energia» che subentrerebbe alla «domesticazione del vivente». Ciò corrisponde indubbiamente all'influenza del "fisicalismo" ancora imperante all'inizio degli anni settanta, epoca in cui vengono pubblicate per la prima volta le riflessioni qui citate.
Gehlen usa un linguaggio simile: «Anzitutto abbiamo la precisa impressione che il passaggio alla civiltà industriale, il dominio dell'inorganico, e persino della sua potenza nucleare, aprano un nuovo capitolo nella storia dell'umanità. Siamo inseriti in questo processo da appena duecento anni e già questa "svolta culturale" ha un significato paragonabile solamente a quello della svolta del neolitico. Ciò vuol dire: nessun settore della cultura, nessuna fibra dell'uomo sarà risparmiata da questa trasformazione, che può essere destinata a durare ancora secoli, per cui è impossibile prevedere cosa sarà bruciato da questa fiamma, cosa si fonderà e cosa si dimostrerà capace di resistere ad essa» (Le origini dell'uomo e la tarda cultura, op. cit., pag. 278, versione originale Urmensch und Spätkultur). C'è da chiedersi d'altronde se non si tratti unicamente di una questione di linguaggio, dato che la "biopolitica" attuale implica la presa in carico e la manipolazione diretta, "fisica", dell'ambiente, della chimica organica delle linee genetiche, etc. La "civiltà delle macchine", l'energia nucleare, i microscopi, le grandi opere idrauliche, la moderna tecnologia dei materiali o i calcolatori basati su circuiti elettronici, rappresentano indubbiamente un aspetto (e un presupposto) di tale rivoluzione ma non ne esauriscono certamente l'impatto, che è appunto molto più globale e che in primo luogo investe l'uomo stesso. È stato d'altronde notato come la stessa automobile possa essere considerata una "protesi" dell'uomo che la guida, e come diventino oggi progressivamente superate le distinzioni rigide tra l'organismo, specie umano, e il suo ambiente, o tra l'artigiano e i suoi strumenti.
(39) Giorgio Locchi, "La lettura del mito", art. cit.
(40) Per un sommario ancora abbastanza aggiornato di quello che sappiamo sulla rivoluzione indoeuropea, vedi Stefano Vaj, "Le radici dell'Europa", in l'Uomo libero n. 9. Vedi anche, più estesamente, Jean Haudry, Les Indo-européens, PUF, Parigi 1992, oggi disponibile in una versione italiana aggiorrnata ed ampliata, con il titolo Gli Indoeuropei, Edizioni di Ar, Padova 2001, trad. di Fabrizio Sandrelli. La ricerca al riguardo del resto continua, in particolare attraverso l'incrocio dei dati forniti dalla storia delle religioni con la linguistica, la genetica, la glottocronologia, la paleontologia e l'archeologia, e puntuali restano gli echi divulgativi a livello mediatico: vedi ad esempio Adriana Giannini, "Una lunga genealogia. Una recente ricerca sposta al 9000 a.C. l'origine delle lingue indoeuropee", in Le Scienze, Gennaio 2004, n. 425, pag. 24.
(41)Le influenza indoarie sulla cultura cinese, e, in parte tramite quest'ultima, su quella giapponese sono ben note, così come la complessa trama di contatti tra le civiltà egizia e mesopotamiche da un lato e le varie invasioni che dall'Europa centrale sono a più riprese giunte a lambire il medio oriente. Più "fantastoriche" sono le ipotesi quanto a possibili ruoli di questo tipo rispetto agli imperi precolombiani (cfr. d'altronde il mito azteco del dio bianco Quetzalcoatl [alias] che tanto ruolo ha giocato nel successo di Cortès). Tali ipotesi hanno d'altronde condotto un Jacques de Mahieu, pur in mancanza di dati verificabili con certezza, a intitolare negli anni settanta un libro Drakkars sur l'Amazone. Les Vikings et l'Amérique précolombienne (Editions Copernic, Parigi 1977, trad, spagnola Drakkares en el Amazonas, Hachette, Buenos Aires 1978). Molto più scientifiche, ed abbastanza sconvolgenti rispetto alle opinioni correnti, sono le ipotesi rispetto alle influenze pressoché planetarie di una cultura indoeuropea "iperborea" amplissimamente documentate da Felice Vinci in Omero nel Baltico [alias], Palombi Editore, Roma 1995 e 2003, che nella seconda edizione sono accreditate tra l'altro da una presentazione di Rosa Calzecchi Onesti.
(42)Come nota altrove Guillaume Faye, la vera alternativa non è d'altronde tra le civiltà dell'Essere e la civiltà dell'Avere, dialettica che resta tutta interna alla prospettiva contemporanea, ma tra queste e la rivendicazione di una cultura del Divenire, che da parte sua rappresenta una specifica "riattivazione" dello spirito e dell'eredità indoeuropea.
(43) L'esempio classico invece delle società "in preda alla storia", che Locchi chiama anche società tiepide, è il Giappone, la cui storia è tragicamente segnata da influenze esterne che la cultura giapponese contemporaneamente accoglie, rifiuta e trasfigura originalmente, dalla penetrazione del buddismo nell'epoca classica sino alla restaurazione Meiji dopo la fine dello shogunato.
(44)Per una notissima e recente ripresa (in positivo) del concetto, esattamente nel senso qui adottato, vedi il testo Francis Fukuyama, The End of History and the Last Man, Free Press, San Francisco 1992 (trad. italiana di Delfo. Ceni, La fine della storia e l'ultimo uomo, Rizzoli, ult. ed. Milano 1996).
(45) Vedi, per due analisi contemporanee dell'origine religiosa di tale rifiuto, rispettivamente in positivo e in negativo, ma significativamente convergenti nelle conclusioni,: Bernard-Henri Lévy [alias], Le Testament de Dieu, Denoël, Parigi 1983 (trad. italiana, Il testamento di Dio, SugarCo, Milano 1979), e Alain de Benoist, Comment peut-on être païen?, Copernic, Parigi 1981 (trad. italiana, Come si può essere pagani, Basaia, Roma 1984).
(46) Cfr. Francis Fukuyama, The End of History and the Last Man, op. cit., e Guillaume Faye, Le sistème à tuer les peuple, Copernic, Parigi 1982 (trad. italiana di Stefano Vaj, Il sistema per uccidere i popoli [versione Web], Edizioni dell'Uomo libero, Milano 1983; seconda edizione, Edizioni Barbarossa, Milano 2002). Interessanti i comuni riferimenti e terminologie nietzschani (es. l'alternativa tra l'"ultimo uomo" e il superuomo) dei due autori, pur schierati su posizioni diametralmente opposte.
(47) Maria Teresa Pansera, L'uomo e i sentieri della tecnica: Heidegger, Gehlen, Marcuse, op. cit., pag. 26.
(48) Nell'intervista a Jacques Le Rider in Le Monde-Dimanche, 19/08/1982, citato in Alain de Benoist, L'operaio tra gli Dei e i Titani, op. cit., pag. 99 [versione Web].
(49) «Noi ci troviamo oggi al vertice, là dove comincia l'ultimo atto. E' l'ora delle decisioni supreme. La tragedia è giunta alla fine» (Oswald Spengler, Ascesa e declino della civiltà delle macchine, op. cit., pag. 110, ult. ed. italiana con il titolo L'uomo e la macchina, versione originale: Der Mensch und die Technik. Beitrag zu einer Philosophie des Leben).
(50) Arnold Gehlen, Die Seele im technischen Zeitalter, Rohwolt, Amburgo 1957, trad. it., L'uomo nell'era della tecnica. Problemi socio-psicologici della società industriale, SugarCo, Milano 1984, pag. 146.
(51) Friedrich Nietzsche [alias, alias], Così parlò Zarathustra, I, 3. [versione originale del capitolo].
(52) Cfr. quando già scritto in Stefano Vaj, "L'uomo e l'ambiente", l'Uomo libero n. 7.
(53)Vedi James Lovelock, Gaia. Nuove idee sull'ecologia (versione originale: Gaia: New Look at Life on Earth) e Le nuove età di Gaia, (versione originale: The Ages of Gaia: A Biography of Our Living Earth) Bollati Boringhieri, Bologna 1981 e 1991. Secondo tale ordine di idee, l'ecosistema stesso e il pianete, ambiente fisico-chimico compreso, sarebbe assimilabile, almeno sotto alcuni profili, ad un organismo vivente, così che i temi darwiniani dell'adattamento all'ambiente e della lotta per la sopravvivenza andrebbero quanto meno integrati con le metafore "cooperative" e "cibernetiche" utilizzate per descrivere i rapporti tra le cellule, le proteine e gli ormoni all'interno del nostro corpo.
(54) Martin Heidegger, Who is Nietzsche's Zarathustra?, Harper & Row Publishers Inc., New York 1967.
(55) Cfr. ad esempio, Jean-Paul Hébert, Race et intelligence, Copernic, Parigi 1977; Yves Christen, L'heure de la sociobiologie, Albin Michel, Parigi 1979 (trad. italiana, L'ora della sociobiologia, Armando, Roma 1980); e più tardi, dello stesso autore, Le dossier Darwin, Copernic, Parigi 1982. Nouvelle Ecole, all'epoca la rivista teorica di riferimento del movimento, ha pubblicato tra l'altro nel periodo i numeri monografici su L'eugenisme (n. 14, gennaio-febbraio 1971), L'évolution (n. 18, maggio-giugno 1972), Darwinisme et société (n. 38, estate 1982). D'altronde, ripercorrendo gli indici della rivista troviamo sin dall'inizio e via via articoli su: LSD e alterazione dello stock ereditario (n. 1), razza, selezione e caratteri psichici (a firma di Alain de Benoist, n. 3), il probabilismo e la contraccezione (n. 4), la demografia (stesso autore, n. 5), la biosfera in pericolo (n. 6), la biologia del problema razziale e la sintesi del DNA (n. 7), la libertà sessuale (n. 8), l'aborto, l'integrazione scolastica e la psicologia razziale, i trapianti d'organo (n. 10), "le lezioni della biologia moderna: Monod, Lowoff, Jacob" (n. 15), la biologia molecolare e la teoria dell'evoluzione (n. 18), l'etologia (n. 25-26) , etc. La medesima rivista ha inoltre pubblicato articoli di Dawkins e Wilson (es. n. 38) e avuto Jensen, Eysenck, Lorenz, Eibl-Eibesfeldt, Ardrey nel suo "Comité de patronage".
(56)Albert Jacquard, Eloge de la difference, Seuil, Parigi 1981 [edizione parziale Web]. In traduzione italiana, Elogio della differenza, Nuova Universale Capelli, Bologna 1982. Il titolo è paradossale perché le idee che l'autore denuncia, quali il "razzismo", vengono interpretate come necessariamente ispirate da un desiderio di uniformità, riduzione ed assimilazione che invece non è altro che il riflesso deformato e "scorretto" delle posizioni ideologiche dell'autore stesso. In realtà, la maggior parte delle persone che attribuiscono un valore al concetto di razza ritengono che le differenze tra le razze non solo esistano, ma vadano protette, semmai accentuate, e certamente non eliminate attraverso una generalizzazione forzata delle caratteristiche della razza propria. Quest'ultima tendenza esiste solo, ed in modo marginale, nel "razzismo" anglosassone, in particolare americano. Anche in tale ambito risulta però difficile citare un autore o un movimento qualsiasi che davvero propugnino l'assimilazione o uniformizzazione delle "razze inferiori". Questa semmai è la conclusione implicita delle posizioni che si vorrebbero "anti-razziste" ma che concepiscono l'umanità come un tutt'uno, chiamato a convergere su caratteristiche etnoculturali certamente meticciate ma di matrice essenzialmente "occidentale".
(57) Jeremy Rifkin e Ted Howard, Who Should Play God? The Artificial Creation of Life and What it Means for the Future of the Human Race, Dell Publishing Co, New York 1977, tradotto in italiano con il titolo Giocare alla divinità, Feltrinelli, Milano 1980. Pur essendo Rifkin ebreo, il libro affronta la questione da un punto di vista "laico", senza chiamare esplicitamente in causa postulati religiosi monoteisti.
(58) Cfr. ad esempio Maurizio Minchella, "La demagogia contro la scienza", e Arthur R. Jensen, "Genetica, educabilità e differenze fra le popolazioni", in l'Uomo libero n. 8; nonché Jean-Paul Hébert, Race et intelligence, op. cit., e Hans Jürgen Eysenck, Race, Intelligence and Education, Library Press, New York 1971.
(59)Una posizione invece del tutto particolare è quella del Partito Radicale italiano, e poi transnazionale, che pur altrettanto impregnato di valori irenistici ed antifaustiani quanto il movimento "verde", li delina secondo una prospettiva individualistico-edonista e libertaria che lo vedrà direttamente impegnato in chiave anti-proibizionista su buona parte delle tematiche qui discusse, dall'aborto alla fecondazione artificiale alle terapie genetiche, al punto che il suo segretario, Luca Coscioni [alias], diventa una sorta di Christopher Reeves italiano ed il simbolo delle contraddizioni difficilmente superabili tra i valori liberal e la crociata "bioetica" oggi in atto. Il medesimo ambiente resta d'altronde all'assoluta avanguardia della political correctness con riguardo ad altri temi biopolitici come l'ambiente, la fame nel mondo, la crescita zero, i diritti degli animali, etc.
(60) Cfr. I limiti dello sviluppo, rapporto del Massachusset Institute of Technology all'associazione ginevrina di Aurelio Peccei, scenario millenaristico basato sull'estrapolazione di modelli matematici che ignorano completamente la diversificazione del panorama studiata ed i fenomeni di retroazione, è stato tradotto in dodici lingue, in italiano da Mondadori, Milano 1972. Tale forma di propaganda ad alti livelli per la decadenza programmata ed il suicidio demografico ed industriale dell'Europa è ancora in atto, anche se l'associazione si è nel frattempo trasferita ad Amburgo.
(61) Vedi il libro di Roberto Vacca intitolato appunto Il medioevo prossimo venturo, Mondadori, Milano 1971 [edizione Web]. La cultura popolare non resta naturalmente estranea a questo processo. E' della stessa epoca Holocaust 2000 (Italia 1978), cattivo film commerciale che mette d'altra parte in esplicita relazione la costruzione della prima centrale nucleare a fusione con l'avvento dell'Anticristo. Gli esempi comunque, soprattutto nel genere "atomico", sono innumerevoli: cfr. Sindrome cinese (USA 1979). Cfr. anche, per la narrativa pulp: Jane Roberts, Evasione nel caos, Mondadori, Milano 1975, sull'esplosione demografica e l'esaurimento delle risorse; Pedler Davis, L'effetto dinosauro, Mondadori, Milano 1974, sull'elefantiasi delle strutture e l'inquinamento atmosferico; Chelsea Quinn Yarbro, Tra gli orrori del 2000, Mondadori, Milano, 1979, sul crollo dell'ecosistema e la graduale estinzione del genere umano in una terra esaurita e sterile; e così via.
(62) Ciò soprattutto a partire dai lavori di Jakob von Uexküll sull'"ambiente specifico" (Umwelt). Più recentemente ed in in un senso più ristretto Georges Olivier ha proposto di considerare l'ecologia come studio delle particolarità morfologiche, psicologiche, genetiche in relazione con le localizzazioni spaziali e climatiche (L'écologie humaine, PUF, Parigi 1975); demarcazione che pare riferirsi però più che altro al campo limitato della cosiddetta autoecologia, ovvero quella branca che si dedica all'analisi dei rapporti e dell'adattamento di una singola specie in rapporto ad un ambiente dato.
(63) Il climax mantenuto artificialmente dell'uomo viene distinto con il termine di plagioclimax.
(64) Vedi quanto più estesamente illustrato in generale sulla questione ecologica, Stefano Vaj, "L'uomo e l'ambiente", in l'Uomo libero n. 7, art. cit.
(65) Alain de Benoist, che negli anni settanta-ottanta era schierato, con tutta quella che diverrà di lì a poco la Nouvelle Droite, su posizioni postmoderne, forse anche in relazione all'influenza "sovrumanista" di Giorgio Locchi che si combinava con residui "tecnocratici" di un periodo ancora precedente, finirà nel nuovo secolo per avvicinarsi con qualche distinguo alle posizioni di questa "ecologia radicale", cfr. il testo "Sur l'écologie", disponibile online sul sito Les amis d'Alain de Benoist, nonché l'intervista a Alessandro Bedini su Diorama letterario, giugno-luglio 2002. In realtà la differenza del pensiero debenoistiano attuale, a parte ciò che è in effetti possibile aspettarsi in relazione al suo crescente ripiegamento "tradizionalista", sono più che altro apparenti, posto che gli stessi identici argomenti utilizzati all'epoca dello speciale pubblicato su Eléments n. 21-22 ("Dossier Ecologie") per "denunciare" l'ecologismo vengono ora utilizzati invece per proporre "completamenti" e "correzioni" rispetto alle tematiche ed alle posizioni dell'"ecologia del profondo", guardata oggi con grande interesse. Guillaume Faye, da parte sua, come bene illustra il saggio già citato Archeofuturismo [edizione Web], resta risolutamente postmoderno, ma dimostra di augurarsi che l'incapacità del Sistema di gestire i suoi rapporti con l'ambiente si rilevi uno dei fattori che comporrà il mosaico di "crisi convergenti", di catastrofi nel senso etimologico del termine, che consentirà il superamento della sua attuale egemonia.
(66) Cfr. ad esempio Giovanni Monastra, già attivo nella contestazione della riscoperta "francese" di questa eredità della fine degli anni settanta, da sempre paladino dell' "anti-evoluzionismo" nel nostro paese, ed oggi autore di "Maschera e volto" degli OGM. Fatti e misfatti degli organismi geneticamente modificati, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2002, sorta di catechismo divulgativo a supporto delle posizioni del ministro italiano dell'agricoltura e leader della "destra sociale" Giovanni Alemanno, in cui Monastra non esita a rendersi solidale con custodi della political correctness giudeocristiana e neomarxista più estremista come Richard Lewontin [alias]. Appare significativo come nei primi capitoli del libro l'autore usi i termini "faustiano" e "prometeico", che lo stesso considera ovviamente dispregiativi, almeno una dozzina di volte. Nella prospettiva invece predicata dall'autore contro tali deviazioni «la Natura viene vista come una realtà, almeno in potenza, perfetta, madre e maestra, [...] cioè come il migliore dei mondi possibili nel nostro livello di esistenza» (pag. 22). Vedi anche la proposta di legge presentata in parlamento da Martinat, Rizzo, Mazzotti e Bono sulla fecondazione in vitro, che fa impallidire la legge Cè, ed è composta da un solo articolo: «E' vietata ogni forma di riproduzione assistita» (! - cfr. Fecondazione extra-corporea. Pro o contro l'uomo?, op. cit., pag. 100). Anche se forse ispirata almeno in parte a valori confusamente "liberali" o "femministi", va segnalata invece su quest'ultimo tema la coraggiosa contestazione delle posizioni ufficiali delle destre parlamentari italiane da parte di Alessandra Mussolini, già quando la stessa era ancora nello stesso gruppo parlamentare di Ugo Martinat (la stessa per altro cambierà apparentemente idea non appena avrà un partitino suo); e più tardi la decisione di Gianfranco Fini di vorte sì ad alcuni degli sfortunati referendum sulla legge Cè. Tomaso Staiti di Cuddia, già primo deputato del MSI a Milano per numero di preferenze e candidato alla segreteria del partito contro Almirante nel 1984, non aveva esitato da parte a comunicare all'ANSA i suoi quattro sì ai referendum suddetti.
(67) Walter F. Bodmer e Alan Jones, Futuro biologico, Bollati Boringhieri, Bologna 1979.
(68)Ancora pochi anni fa, Arthur R. Jensen, ora professore emerito di psicologia dell'educazione all'università di Berkeley, ci dice in Intelligence, Race and Genetics. Conversations with Arthur R. Jensen (ed. Frank Miele), Westview Press, New York 2002, di «ritenere che l'evidenza scientifica sia più forte oggi di quanto non fosse nel 1969 [anno in cui pubblicò il suo famoso articolo-scandalo sulla Harvard Educational Review] che il QI è altamente genetico, che la razza è una realtà biologica piuttosto che un costrutto sociale e che la causa dei quindici punti di differenza media tra bianchi e neri negli Stati Uniti è parzialmente genetica». La relativa discussione si era riscaldata negli anni novanta con la pubblicazione di The Bell Curve: Intelligence and Class Structure in American Life, di Richard Herrnstein (Free Press, San Francisco 1994), che analizza la classica distribuzione "a campana" del quoziente di intelligenza tra la popolazione e le sue determinanti genetiche. Il libro non è mai stato tradotto in Italia, mentre lo sono state le consuete denuncie scandalizzate di Stephen J. Gould (Intelligenza e pregiudizio, Il Saggiatore, Milano 1996).
(69) Stefano Vaj, "L'etologia", in l'Uomo libero n. 5. Vedi anche Alain de Benoist, Intervista sull'etologia (intervista a Konrad Lorenz), Il Labirinto, Sanremo 1979.
(70) In particolare con la pubblicazione, da parte di Edward O. Wilson dello studio intitolato appunto Sociobiology: The New Synthesis, oggi disponibile nell'edizione del venticinquesimo anniversario della pubblicazione (Belknap Press, Harvard 2000), trad. italiana Sociobiologia. La nuova sintesi, Zanichelli Bologna 1979. Stephen J. Gould aveva in particolare modo di commentare all'epoca della sua uscita che «teorie come queste hanno fornito un importante base [...] per le politiche eugenetiche che condussero alla creazione delle camere a gas nella Germania nazista» (in New York Review of Books, citato in T. Wolf, "What Do a Jesuit Priest, a Canadian Communications Theorist and Darwin II All Have in Common? Digibabble, Fairy Dust and Human Anthill" in Forbes, ottobre 1999. Vedi anche, di Wilson, l'articolo "Staking the Wild Taboo", e il libro già ricordato di Yves Christen, L'heure de la sociobiologie (trad. italiana, L'ora della sociobiologia, Armando, Roma 1980). Tra gli ulteriori esponenti della corrente sociobiologica tradotti in Italia vanno ricordati tra gli altri Dawkins [alias] e Barash, che avrà modo molti anni dopo di riassumere la sua opinione riguardo la "biologia" gouldiana in "Grappling with the Ghost of Gould" in Human Nature Review, luglio 2002, vol. 2, pag. 283-292 .
(71) I nomi degli studiosi in questione, così come quelli di alcuni loro correligionari, ricorrono in effetti spesso in questo tipo di iniziative, al punto da farli considerare esponenti di punta di una sorta di "polizia politica" al servizio della political correctness in campo scientifico.
(72)Cristian Fuschetto, Fabbricare l'uomo. L'eugenetica tra biologia e ideologia, op. cit., pag. 12.
(73) Cfr. le valutazioni che cercano di fissare in percentuale l'influenza dei fattori genetici sulle variazioni tra gli individui dei tratti che consideriamo significative, e che indicano risultati che spaziano dal 35 al 75%.
(74) Gregory Stock [alias], Redesigning Humans, op. cit., pag. 100 (trad. italiana: Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005). In questo senso, entrano direttamente in collisione i doveri umanisti di rendere omaggio all'autonomia individuale, e quello di interpretare ogni variazione individuale come un effetto ambientale, che sarebbe nel caso solo da "correggere". Per minimizzare gli effetti dell'ereditarietà, l'unica scelta conseguente sarebbe infatti quella di limitare e contrastare, per tutta la vita dell'individuo,... l'espressione delle sue inclinazioni genetiche e della sua propria identità.
(75)Quanto al significato ideologico del lavoro di Charles Darwin, le questioni sono molto più complesse e prescindono in certa misura dalle opinioni politiche del naturalista – che da parte sua era in sostanza un borghese illuminista. Il darwinismo sociale, dopo essere stato per lungo tempo considerato un tema fortemente "di sinistra", in quanto potenzialmente eversivo delle rendite di posizione di classi dominanti protette dalla competizione sociale, viene presto denunciato come concezione "di destra" nel momento in cui giustificherebbe il riconoscimento e il libero dispiegarsi delle differenze tra gli uomini, eventualmente... in senso capitalista. D'altronde, il darwinismo, subito condannato dall'arcivescovo di Canterbury e da altri magnati, sostanzialmente in quanto considerato lesivo della loro dignità, non resterà più tardi privo di eco neppure negli ambienti fascisti, al punto che Goebbels [alias] scrive nei suoi diari di una visita allo zoo di Berlino in cui osservando alcuni scimpanzé era «rimasto ammirato una volta di più dall'evoluzione che questi avevano compiuto per giungere alla nobiltà ed alla bellezza dell'uomo nordico» (! - citazione ricordata tra l'altro in Anna Sigmund, Le donne dei nazisti, Corbaccio, Milano 2003). Da parte loro, alcuni intellettuali e studiosi tradizionalisti italiani (Giuseppe Sermonti, Giovanni Monastra, Maurizio Blondet, Roberto Fondi) da qualche decina d'anni fanno di Darwin l'icona stessa del progressismo e dello scientismo più sterili, dogmatici e deteriori. Allo stesso tempo, se taluni seguaci di Guénon o Mons. Lefèbvre non esitano al riguardo ad arruolarsi in chiave antidarwiniana sotto le bandiere "creazioniste" di pittoreschi e barbuti personaggi americani che ritengono che Calvino fosse troppo papista, o che Israele sia governato da una banda di rinnegati adepti del laicismo, posizioni più o meno diametralmente opposte assumono, almeno per un certo periodo, vari autori di quella che sarà poi definita Nouvelle Droite. In particolare, Yves Christen giunge a intitolare un libro Marx et Darwin, le grand affrontement (Albin Michel, Parigi 1981), vedendo addirittura simboleggiate dai personaggi suddetti le due ideologie il cui scontro sarebbe chiamato a determinare i valori della nostra epoca – con una scelta implicita a favore del secondo. Sotto il profilo più strettamente scientifico, d'altronde, il "nemico" di Christen non è il creazionismo (che del resto all'epoca ancora non aspirava ad uno status di "teoria scientifica", addirittura di dignità accademica), ma il lamarckismo, ovvero l'idea che il vivente evolve verso la perfezione attraverso l'ereditarietà dei caratteri acquisiti, cioè a seguito degli sforzi comulativi delle generazioni. Tale teoria, già superata all'epoca di Darwin, diventa in effetti dottrina ufficiale in Unione Sovietica almeno sino a tutto il periodo stalinista (cfr. D. Buican, L'éternel retour de Lyssenko, Copernic, Parigi 1978 e Joël et Dan Kotek, L'Affaire Lyssenko, Éditions Complexe, Parigi 1986, che raccontano la storia del biologo di Stalin e la sua famosa falsificazione con l'inchiostro della pigmentazione delle zampe di alcune rane). L'idea che l'educazione, l'assistenza, i buoni sentimenti, la vita virtuosa, le riforme sociali possano non solo cambiare completamente gli individui (come nella teoria lockiana della tabula rasa), ma addirittura plasmare – in meglio – la biologia delle generazioni future, è in effetti talmente consolatoria e conforme all'ideologia dominante da riemergere costantemente nell'inconscio collettivo. Più complessa la questione del rapporto tra Darwin e Friedrich Nietzsche [alias, alias]. Il filosofo tedesco saluta certamente il darwinismo come una demistificazione della fondazione metafisica del mondo naturale, e vari autori hanno sottolineato la comunanza di alcuni temi (la selezione, la lotta come principio del divenire) con il naturalista inglese, al punto che John Richardson propone una rilettura dell'intero pensiero nietzschano in chiave darwiniana (Nietzsche's New Darwinism, Oxford University Press, Oxford 2004) pur riconoscendo che appunto Nietzsche si porta risolutamente al di là di Darwin e Spencer, di cui non può evidentemente accettare (ed anzi criticherà aspramente per tutta la sua vita) proprio il residuo metafisico e l'evidente finalismo. Scrive Pierre Chassard: «Sarebbe sorprendente che ad un epoca in cui il trasformismo ha guadagnato alla sua causa gli spiriti più avveduti che le cose possano stare diversamente per Nietzsche, stante il suo rifiuto categorico di qualsiasi forma di creazionismo. [...] La sua critica al darwinismo ed al lamarckismo non può servire d'argomento per sostenere che la dottrina del superuomo non sia suscettibile di un'interpretazione biologica. Ciò che Nietzsche rigetta non è il trasformismo, ma le "spiegazioni" darwiniane e lamarckiane, perché non spiegano granché e perché sono macchiate dalla tara fondamentale di essere ancora condizionate dalla vecchia metafisica, professando un finalismo inammissibile per Nietzsche» (Nietzsche, finalisme et histoire, ult. ed. originale Mengal, Bruxelles 1999, trad. it. Nietzsche, finalismo e storia, a cura di Adriano Scianca, Barbarossa, Milano 2006). Un tentativo di arruolare Nietzsche sotto le bandiere dell'antievoluzionismo (cosa plausibile unicamente ove per "evoluzione" si intenda un processo direzionale diretto a qualche forma di miglioramento inverso all'"involuzione") è d'altronde contenuto in Nietzsche e l'evoluzionismo di Enrico Goni (Edizioni del Veltro, Parma 1989), con una "premessa" ed un "saggio introduttivo" rispettivamente dei soliti Sermonti e Fondi. Eppure l'idea che le specie non corrispondono certo ad archetipi di natura essenzialmente neoplatonica, tanto meno paracadutati in natura da qualche tipo di intelligent design trascendente, ma a prodotti di un divenire caotico di cui l'uomo stesso contemporaneo non è che un'espressione ed una fase, è espressa da Zarathustra in toni inequivocabili: « Ogni essere sinora ha creato qualcosa sopra se stesso: e voi volete essere il riflusso di questo gran flusso e ritornare alla bestia, anziché superare l'uomo? [...] Finora avete percorso la via che va dal verme all'uomo, e molto è in voi ancora verme. Una volta eravate scimmie...» (Così parlò Zarathustra, I, 3). (76) Cfr. Richard A. Posner, Economic Analysis of Law, ult. ed. Aspen Publishers, Chicago 2002.
(77)Rileva nello stesso senso Spengler: «A dire il vero, ogni teoria della scienza naturale è un mito intellettuale relativo alle forze della natura. Ma qui [ovvero nella prospettiva faustiana ed europea], e solo qui, la teoria è, fin dall'inizio, ipotesi di lavoro. Una ipotesi di lavoro non ha bisogno di essere esatta, le basta essere praticamente utilizzabile. Non si propone di svelare i misteri dell'universo che ci circonda, ma li vuole rendere utilizzabili per determinati scopi» (Ascesa e declino della civiltà delle macchine, op. cit., pag. 103, ult. ed. italiana con il titolo L'uomo e la macchina, versione originale: Der Mensch und die Technik. Beitrag zu einer Philosophie des Leben). Appare in effetti anche in questo caso una coincidenza quasi perfetta tra le analisi "sovrumaniste" ed "irrazionaliste" da un lato, e quelle della Scuola di Francoforte e dei suoi più consapevoli e radicali epigoni contemporanei dall'altro. Ciò che fa tutta la differenza è il rispettivo giudizio di valore, polarmente opposto, formulato sulle conclusioni delle analisi stesse. In questo senso le denunzie di parte della Nouvelle Droite contro quelle che sarebbero "demonizzazioni" arbitrarie da parte di tale ambiente sono fuorvianti: esso ha in realtà perfettamente ragione a ritenere "demoniaco", dal suo punto di vista, ciò che denuncia.
(78) Maria Teresa Pansera, L'uomo e i sentieri della tecnica: Heidegger, Gehlen, Marcuse, op. cit., pag. 89. Vedi anche Arnold Gehlen, Der Mensch. Sein Natur, und seine Stellung in der Welt, Akademische Verlagsgesellschaft, Wiesbaden 1978, trad, it., L'uomo, la sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano 1983, pag. 190.
(79) Herbert Marcuse, One-Dimensional Man : Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society, ult. ed. Beacon Press, Boston 1991, trad. it. L'uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1999, pag. 172.
(80) Per la concidenza sorprendente ma frequente di punti di vista tra Heidegger e Marcuse, cfr. Rolf Wiggershaus, Die Frankfurter Schule, C. Hanser Verlag, Monaco 1986, trad. it. La scuola di Francoforte, Boringhieri, Torino 1992.
(81) Come noto, è il medesimo imperativo che ha finito per "forzare" i tabù civili e religiosi contro la dissezione dei cadaveri (già oggetto di interdetti di ratio assolutamente analoga sino ad epoca relativamente recente), così da indirettamente consentire, per la prima volta da secoli, l'arricchimento delle conoscenze disponibili sulla anatomia umana.
(82) Legislatori nazionali, governi ed altre istituzioni statali ed internazionali non hanno naturalmente tralasciato di portare il loro contributo in pubbliche dichiarazioni e concreti provvedimenti, specie con riguardo al materiale riproduttivo. La Germania, per esempio, ossessionata dal suo passato nazionalsocialista, è sempre stata "all'avanguardia" nell'opposizione alle sperimentazioni in materia riproduttiva e genetica riguardo all'uomo, e nel 1991 ha introdotto una "legge per la protezione dell'embrione" che era la più restrittiva del mondo. Già nel 1993, comunque, ci si era resi conto che tale legge avrebbe tagliato fuori il paese dagli sviluppi in campo biotecnologico, e il legislatore moderava le severe restrizione in essere su varie aree della ricerca genetica. Nel 2000, ulteriori annacquamenti della legge sono stati introdotti per via parlamentare. In Svizzera, malgrado l'importanza del settore farmaceutico nell'economia nazionale, nel 1997 quasi passò un referendum per la messa al bando della ricerca in questi settori, e un nuovo referendum nel 2000 è stato schiacciato con un margine di oltre il 30% solo perché nel frattempo era divenuto chiaro che la scelta contraria avrebbe rischiato di spingere le società farmaceutiche a trasferirsi presto o tardi altrove (cfr. quanto riportato da Gregory Stock [alias], Redesigning Humans, op. cit., pag. 126, trad. italiana: Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005). La Francia ha a sua volta ripetutamente etichettato la manipolazione della linea germinale come un attentato alla dignità umana e una violazione del "diritto dell'uomo" ad una eredità genetica inalterata, dichiarando altresì, in un senso ovviamente opposto a quello qui sostenuto, che il pool genetico umano è "patrimonio dell'umanità". Nel 1997 il Consiglio d'Europa ha scritto una Convenzione sui Diritti Umani e la Biomedicina dove si asserisce che «un'intervento volto a modificare il genoma umano può essere unicamente intrapreso per scopi preventivi, diagnostici o terapeutici e solo se la sua finalità non è quella di introdurre modificazioni nel genoma di alcun discendente». L'UNESCO stessa, pur essendo stata un po' meno recisa nella sua recente Dichiarazione Universale sul Genoma Umano (sic!), per deferenza alle preoccupazioni espresse dal delegato tedesco, ha esortato ad ulteriori studi sulle pratiche che potrebbero risultare contrarie alla "dignità umana". Nota Gregory Stock [alias]: «Molti d'altronde scuoterebbero la testa increduli di fronte a chiunque sostenesse che un bambino ha un diritto inerente ad una costituzione biologica inalterata e non dovrebbe perciò essere sottoposto in alcun caso ad operazioni chirurgiche prima dell'età adulta. Quando sentiamo lo stesso argomento quanto alla manipolazione genetica, ciononostante, lo prendiamo seriamente, benché risulti altrettanto in conflitto con i valori correnti» (ibidem, pag. 130). Vedi anche la recente dichiarazione adottata a maggioranza dall'ONU, su pressioni dell'amministrazione di George W. Bush, in materia di clonazione umana (ed altro).
(83) Ben manifestano questo imbarazzo le International Ethical Guidelines for Biomedical Research Involving Human Subjects, [versione in francese] del CIOMS, Ginevra 1993.
(84) In tal senso va probabilmene letto il richiamo alla «dignità umana» per cui la stessa clonazione umana a fini riproduttivi rappresenterebbe, secondo il Comitato Consultivo Nazionale di Bioetica francese, un «vero sconvolgimento della condizione umana», da rifiutare in quanto comporterebbe «una intollerabile reificazione della persona». Rimarca Hervé Kempf: «Non è la clonazione che importa questo sconvolgimento, ma semmai il movimento tecnico di cui essa è espressione... Quanto alla "nozione di dignità della persona che fonda, dalla sua origine, l'ispirazione del Comitato", un antropologo come Philippe Descola ha avuto buon gioco di ricordare come si tratti di un concetto variabile: in certe società è "indegno" non mangiare i propri prossimi congiunti dopo la loro morte o non sottoporre i popri figli a rituali di iniziazione di grande brutalità. Si può disapprovare tali pratiche, ma niente permette di dire che le concezioni della persona che esse traducono sarebbero meno "degne" della nostra» (La revolution biolithique. Humains artificiels et machines animées, Albin Michel, Parigi 1998, pag. 218).
(85) La tematica della "tabula rasa", intrinseca in certa misura a tutta la tendenza egualitaria, a partire dal mito di Adamo e dalla sua radicalizzazione lockiana e rousseaiana, conosce la sua più recente e completa trattazione (critica) in Steven Pinker, The Blank Slate. The Modern Denial of Human Nature, Viking, New York 2002.
(86) Interessante come la "natura" – già desacralizzata e squalificata al rango di pallido riflesso, o provvisoria creazione arbitraria, di trascendenze assolute – venga oggi recuperata come unico appiglio morale e rassicurante da parte degli eredi stessi del monoteismo secolarizzato.
(87) Jeremy Rifkin, Il secolo biotech, Baldini-Castoldi, Milano 1988, pag. 21 (versione originale, The Biotech Century, Penguin, 1998)
(88)Francis Fukuyama, Our Posthuman Future. Consequences of the Biotechnology Revolution, Picador, New York 2002, pag. 7. (trad. italiana: L'uomo oltre l'uomo. Le conseguenze della rivoluzione biotecnologica, Mondadori, Milano 2002).
(89) Gregory Stock [alias], Redesigning Humans, op. cit., pag. 155 ( Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005).
(90) Non a caso tali popolazioni erano già con tutta probabilità avviate all'estinzione prima ancora dello scontro con la civilizzazione occidentale.
(91) Jeremy Rifkin, Il secolo biotech, pag. 276.
(92)Lo smarrimento dell'ideologia dominante in materia biopolitica si esprime soprattutto in quello che è oggi il suo linguaggio tipico, ovvero nel riconoscimento di "diritti dell'uomo" di cui in questo campo stanno esplodendo sia il numero sia la contraddittorietà in letteratura e nelle dichiarazioni internazionali. Abbiamo già esaminato la tensione tra la sacralizzazione dell'embrione ed i diritti della madre, tra il "diritto alla salute" e gli interdetti contro la ricerca. Oggi, fa presente Stefano Rodotà, «si parla di "diritto di procreare", di "diritto al figlio", del "diritto di nascere", del "diritto di non nascere" [cfr. le cause per wrongful life da parte dei portatori di tare nei confronti dei genitori], del "diritto di nascere sano", del "diritto di avere due genitori", del "diritto di avere due genitori di sesso diverso", del "diritto all'unicità genetica" [inevitabilmente violato dalla natura nel caso dei gemelli, ma per qualche ragione da tutelare nei confronti dei cloni] , del "diritto ad un patrimonio genetico non modificato" [cfr. la Raccomandazione n. 934/1982 del Consiglio d'Europa], del "diritto a conoscere la propria origine biologica", del "diritto di non sapere", del "diritto di sapere", del "diritto alla cura", del "diritto alla malattia", del "diritto a non essere perfetto" [sia pure per intendere l'illegittimità della stigmatizzazione di condizioni di disabilità], del "diritto di morire" [rispetto alle aspirazioni del life extensionism], del "diritto di morire con dignità" [con riferimento alle tematiche dell'accanimento terapeutico e dell'eutanasia], del "diritto al suicidio assistito", del "diritto sui propri gameti", dei "diritti dell'embrione" o "sull'embrione", dei "diritti del feto". Questo non è un catalogo fantasioso o arbitrario (e neppure completo). Per ciascuna di queste figure è possibile trovare un riferimento giuridicamente significativo in convenzioni o dichiarazioni internazionali, in leggi nazionali, in proposte di legge, in regolamenti, in sentenze, in pareri di comitati etici» (dalla prefazione a Chiara Valentini, La fecondazione proibita, op. cit., pag. 10). La circostanza è ben nota, difficile risulta piuttosto capire come la nota posizione ultra-umanista dell'ex garante italiano della "privacy" sia possa essere sufficiente a consentirgli di nutrire un tale imparziale entusiasmo per le figure menzionate, ed una tale assoluta indifferenza per la loro contraddittorietà.
(93) Tale parola appare particolarmente appropriata, dato che αρχή, arché, in realtà non significa affatto "passato, conservazione, tradizione, residuo", come nel significato corrente del termine arcaico, ma appunto "inizio", cosa che in una visione non linearista della storia può stare nel passato come può contemporaneamente trovarsi innanzi a noi, nel nostro futuro.
(94) Guillaume Faye, Archeofuturismo, op. cit., pag. 18 [edizione Web].
(95) Hervé Kempf, La revolution biolithique. Humains artificiels et machines animées, op. cit.
(96) Viceversa, appare ormai scientificamente a brandelli la tradizionale identificazione della differenza tra uomini e animali in un balzo qualitativo che consisterebbe nella "scintilla dell'intelligenza", avatar secolarizzato dell'"anima" insufflata da Jahvé in Adamo e in tutti i suoi discendenti, uniche creature "a sua immagine e somiglianza". Già Gehlen, nel fondare l'antropologia filosofica, aveva mostrato come sia impossibile ritrovare di per sé lo "specificamente umano" in quello che viene comunemente definito "intelligenza", e che rappresenterebbe l'"aggancio" specifico utile ad attribuire la titolarità dei "Diritti dell'Uomo" a tutti, e solo, i membri della nostra specie. Nota d'altronde Kempf, in materia di antropocentrismo naif: «E' innanzitutto in rapporto agli animali che le vecchie idee sull'identità umana entrano oggi in crisi. Non si trovano più motivi razionali di separarsene radicalmente, ragioni nette per escludere gli animali dal dominio della coscienza. Di tutti i caratteri di questo genere abitualmente utilizzati per caratterizzare l'umano, non ve ne è uno, hanno mostrato gli zoologi, che sia esclusivo: i primati si servono di utensili e possono imparare il linguaggio e servirsene; sono riconoscibili una sorta di culture materiali tra le tribù africane di scimpanzé; è stata descritta l'esistenza di rapporti "politici" tra i bonobo, così come l'abbozzo di sistemi morali. Tutte le ricerche dei primatologi e degli etologi vanno da una trentina d'anni nel senso di una comunità di potenzialità tra l'umano e la scimmia, e più generalmente, sotto forme che si attenuano in modo graduale e continuo con la distanza, tra l'umano e l'animale. La differenza è radicata in modo più complesso nella biologia umana globalmente intesa, e sorge da uno scarto progressivamente allargatosi con l'evoluzione delle specie. [Vacillano inversamente i tabù legati all'uomo] quando ci si serve senza grandi pensieri di animali tanto vicini a noi. Un dibattito concerne ad esempio i neonati anencefali, ovvero nati senza cervello: il prelievo dei loro organi, che comporta l'uccisione del neonato [che potrebbe oggi sopravvivere in terapia intensiva sino a qualche settimana dopo il parto] è accettabile? Sì, ha concluso nel 1995 un Comitato dell'Associazione Medica Americana. No, secondo un bioetico dell'Università di Boston, George Annas. La questione è stata ripresa con riguardo agli xenotrapianti confrontati ai trapianti da neonati anencefali dal filosofo australiano Peter Singer [alias], che si chiede: se siamo pronti ad uccidere un babbuino nella speranza di salvare la vita ad un essere umano, perché non siamo pronti ad uccidere, allo stesso fine, un essere umano cui di gran lunga manca la potenzialità di questo babbuino?» (La revolution biolithique. Humains artificiels et machines animées, op. cit., pag. 217. Singer, sia detto per inciso, vorrebbe... estendere il divieto ai babbuini, e non viceversa consentire l'utilizzo dei neonati anencefali, ma la questione è pertinente anche per chi non sia particolarmente disturbato dalla "strumentalizzazione" degli animali a fini alimentari e non.
(97) Gregory Stock [alias], Redesigning Humans, op. cit., pag. 1 (Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005).
(98) Ibidem, pag. 5.
(99) Per un'analisi della storia della tematica dei Diritti dell'Uomo, e di come tale tematica sia diventata la "teoria sintetica" stessa in cui a livello politico sono venute a convergere tutte le tendenze religiose e laiche di matrice egualitaria, vedi Stefano Vaj, Indagine sui Diritti dell'Uomo. Genealogia di una morale, LEdE, Roma 1985 [versione Web]. Una radicalizzazione, in certo modo coerente, di alcune implicazioni di tale teoria sintetica è la curiosa tendenza che va sotto il nome di íanimalismo, e che pure manifesta una certa capacità di penetrazione specie negli ambienti verde-ecologisti. La legittima preoccupazione per la protezione delle specie selvatiche, o per la reale significatività in campo umano di una ricerca medica eccessivamente basata sulla sperimentazione animale, sfocia in una concezione moralistica che non riesce d'altronde a spiegare perché i suoi adepti, compresi quelli pronti ad imbrattare le pellicce o dediti al vegetarianismo, accettino di trattare insetti e batteri in modo diverso dagli animali superiori, o non esitino a stroncare la vita di innocenti pianticelle di lattuga a scopo alimentare.
(100) Non è forse un caso che la riflessione sovrumanista sulla "magia" e sull'autocoscienza del "terzo uomo" trovi a partire dalla fine degli anni settanta un riscontro empirico e financo terminologico nelle acquisizioni della cosiddetta Programmazione Neurolinguistica [alias] fondata da un linguista e un matematico americani (e precisamente Richard Bandler [alias] e John Grinder), che partendo da un risoluto rifiuto delle "teologie" psicoterapeutiche tradizionali – in particolare freudiane – hanno poi esteso il proprio campo di intervento alla psichiatria clinica, al management, alla psicologia applicata, allo studio dell'apprendimento, all'antropologia culturale, etc. Fondamento della PNL è in particolare il riconoscimento del dato neurologico, in quanto geneticamente conformato, e della sua programmabilità, in particolare attraverso il linguaggio simbolico e la sua capacità di liberare nuovi modelli, che è ciò esattamente in cui consiste la "magia". Cfr., di Grinder e Bandler, La struttura della magia, La metamorfosi terapeutica, Programmazione neurolinguistica. Lo studio della struttura dell'esperienza soggettiva, e Magia in azione, tutti editi in italiano dalla Casa Editrice Astrolabio di Milano. Benché molto lontana dall'empirismo della PNL o dall'approccio antropologico di Gehlen, una comprensione post-kantiana della "magia", pur mescolata con una notevole quantità di esoterismo e luoghi comuni, è del resto già contenuta nelle opere giovanili di Julius Evola, come Introduzione alla magia quale scienza dell'Io, Edizioni Mediterranee, Roma 1981, oppure L'uomo come potenza. I Tantra nella loro metafisica e nei loro metodi di autorealizzazione magica, Edizioni Mediterranee, Roma 1988, o ancora Saggi sull'idealismo magico, I Dioscuri, Genova 1988.
(101) Giorgio Locchi, "La lettura del mito", art. cit.
(102) Sulle valenze disgeniche degli indirizzi "individualistico-borghesi" sottesi alla pratica medica contemporanea, cfr. ad esempio Piero Sella, "Progresso medico e dignità della vita", in l'Uomo libero n. 22.
(103) È sembrato d'altronde a chi scrive davvero paradossale il trovarsi una volta a partecipare ad un ballo di beneficenza organizzato da un gruppo di dame milanesi per raccogliere fondi per la ricerca terapeutica sui bambini affetti dalla sindrome di Tay-Sachs, benché forse la maggior parte di esse fosse lì per tutt'altre ragioni e non sapesse neppure di che si tratti. Tale sindrome è originata da un gene, fortunatamente raro, che programma la progressiva e completa degenerazione del sistema nervoso sino alla morte del soggetto nella primissima infanzia. Ora, pur trattandosi di una malattia teoricamente ereditabile, i relativi portatori sono solo un costo sociale, e non un costo disgenico, perché nessuno di essi ha alcuna chance di giungere all'età riproduttiva e lasciare discendenza. Ciò detto, non si vede quale scopo possano concepibilmente servire tentativi farmacologici di ritardare di qualche settimana l'inevitabile, magari mediante soppressione dell'ormone della crescita nel bambino o altre simili pratiche, quando l'unica cosa ragionevolmente da fare nell'interesse di tali bambini, dei loro genitori e della società, è promuoverne ed assicurarne l'aborto all'inizio della gravidanza. Ma forse un tale programma non è sufficientemente glamorous per giustificare un evento mondano...
(104) Si parla di determinismo genetico assoluto quando solo i portatori di un dato gene esprimono una certa patologia, e quando d'altra parte tutti portatori di tale gene la esprimono. Tale non è, per esempio, il caso di vulnerabilità genetica ad un particolare tipo di infezione, che ovviamente si manifesterà solo nei portatori che in concreto saranno esposti al relativo contagio e contrarranno l'infezione stessa.
(105) Georges Vacher de Lapouge, Race et milieu social, Librairie Marcel Rivière, Parigi 1909, pag. 226. Uno dei pochi titoli disponibili in italiano sull'autore, per di più in chiave di "denuncia", è il mediocre Nicoletta Glovel, Le razze in provetta. Georges Vacher de Lapouge e l'antropologia sociale razzista, Il Poligrafo, Lecce 2001.
(106) Non solo la mancanza di un arto può essere, poniamo, frutto tanto di una mutilazione quanto di un difetto genetico, ma esistono anche numerose affezioni che sono bensì congenite, ma non genetiche, in quanto provocate non da un difetto trasmissibile del codice genetico, ma da eventi verificatisi nel corso del concepimento, della gravidanza o del parto.
(107) Ciò comporta, secondo l'ipotesi della sociobiologia, un "sussurro dei geni" che raccomanda di stare alla larga, almeno sessualmente, dalle persone affette, posto che un tratto genetico che incoraggiasse all'accoppiamento con quest'ultime a preferenza di partner "normali" porterebbe ad un minor successo riproduttivo del portatore, e perciò in ultima analisi ad una progressiva rarefazione del gene stesso.
(108) Nicholas Wade, "Bioengineers Turn to Hens' Teeth", in New York Times, 22/08/2000, pag. F5; Jun Zou et al., "Micro-array Profile of Differentially Expressed Genes in a Monkey Model of Allergic Asthma", in Genome Biology 3, 5, 2002 .
(109) Mentre la genetica è un termine antico e più generale che si riferisce allo studio dei tratti ereditari, la cosiddetta genomica costituisce esattamente l'insieme delle teorie (e delle tecnologie) che oggi mirano a tradurre informazioni sul genoma nella conoscenza di quali geni sono presenti, che ruolo svolgono e come i prodotti di ciascun gene (normalmente una proteina o un gruppo di proteine) contribuiscono alle proprietà ed al comportamento delle cellule. Fino a pochi anni fa, i biologi erano in grado di studiare il comportamento di un solo gene, o al più di pochi geni per volta. La genomica rappresenta uno sforzo di studiare che cosa tutti i geni in una cellula stanno facendo e come la loro attività sia orchestrata. Vedi Michael Fumento, Bioevolution. How Biotechnology Is Changing the World, Encounter Books, San Francisco 2003, pag. 11.
(110) Cfr. Michael Fumento, Bioevolution. How Biotechnology Is Changing the World, op cit., pag. 91.
(111) Secondo un detto, per distinguere le società ricche e le società povere sarebbe sufficiente fare caso al fatto che nelle prime i "ricchi" sono più magri dei "poveri". Interessante, anche con riguardo alle considerazioni in materia di selezione sessuale che saranno accennate nel prosieguo, come i canoni di bellezza socialmente dominanti evolvano molto rapidamente nella stessa direzione non appena la transizione si verifica.
(112) L'articolo capostipite di questi studi è stato J. V. Neel, "Diabetes Mellitus: A 'Thrifty' Genotype Rendered Detrimental by 'Progress'"?, in Am. Journ. Hum. Genet., n. 14, 1962, pag. 353.
(113) Vedi a questo proposito Yves Christen, "L'eugenisme. Prospectives actuelles", in Nouvelle Ecole n. 14, Febbraio 1971.
(114) Eloquente del resto come nell'immaginario collettivo il tipico candidato alla clonazione sia... Adolf Hitler, riprodotto da parte dello "scienziato pazzo" di turno, grazie a qualche cellula o gamete in qualche modo sopravvissuti in qualche modo alla sua morte e recuperati. Vedi il film di Franklin Schaffner I ragazzi venuti dal Brasile (USA, 1978). Due film più recenti che richiamano tale procedura sin nel titolo sono Alien, la clonazione (USA, 1997, con fugace apparizione, e susseguente "eutanasia" da parte della protagonista, di una serie di "mostri" provocati da clonazioni non perfettamente riuscite) e Star Wars: Episodio II - L'attacco dei cloni ((USA 2002).
(115) D'altronde, alcune speculazioni contemporanee stanno prendendo in esame la possibilità in futuro di memorizzare su un qualche supporto di tipo digitale l'insieme di informazioni che costituiscono l'intera esperienza di vita di un essere umano, nonché il modo in cui possa essere eventualmente possibile ritrasferirle in un cervello. Ipotizzando che ciò avvenga su un clone dell'individuo "memorizzato", ad un equivalente stadio di maturazione, saremmo in effetti molto vicini al tipo di "clone-fotocopia" immaginato dalla fantascienza, nonché ad una qualche forma di immortalità (cfr. ad esempio Ray Kurzweil, The Singularity Is Near. When Human Transcend Biology, Viking, New York 2005[sito collegato]). Alcuni autori di fantascienza (es. Greg Egan, in La scala di Schild, op. cit., e vari racconti) hanno altresì ipotizzato che ciò possa essere un metodo per realizzare una forma di teletrasporto, eventualmente su distanze stellari, consistente nel "faxare" da un luogo all'altro gli individui (ovvero le informazioni necessarie allo sviluppo, magari fortemente accelerato, di un clone nel luogo di destinazione, nonché del "software" e dei "dati" utili a completare un organismo ontologicamente indistinguibile da quello di partenza, che in ipotesi potrebbe essere distrutto, o continuare un'esistenza separata). Nota Hervé Kempf: «E' l'idea di Chris Winter, capo del gruppo di studio sulla Vita Artificiale [alias] di British Telecom... "Combinando l'informazione [pertinente l'esperienza e i ricordi consci e inconsci di una persona] con quella inerente ai suoi geni" ha dichiarato al Daily Telegraph, si potrebbe ricrearla fisicamente, emozionalmente e spiritualmente"» (La revolution biolithique. Humains artificiels et machines animées, op. cit., pag. 137).
(116) Gregory Stock [alias], Redesigning Humans, op. cit., pag. XIII ( Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005). Vedi anche Charles C. Mann, "The First Cloning Superpower", in Wired, gennaio 2003. Riguardo i recenti successi riportati in Corea del sud, pur tra qualche scandalo e perplessità, vedi ancora ad esempio l'originario articolo apparso su Science, "Korean Team Speeds Up Creation Of Cloned Human Stem Cells", 308, Maggio 2005, commentato ad esempio da Elena Dusi, "Clonazione, in Corea del Sud prime staminali personalizzate" in La Repubblica, 19/05/2005.
(117) In effetti, benché alcune tradizioni religiose affermino il contrario, non è noto alcun caso di riproduzione asessuata da parte di esseri umani; ma se abbiamo riguardo alle cellule, i nostri corpi sono essenzialmente composti proprio da... "cloni", posto che le cellule del corpo si riproducono per mitosi, processo a seguito del quale il corredo genetico della cellula madre è duplicato in due copie identiche, una per ciascuna delle cellule figlie. Dal punto di vista degli organismi, è vero invece che almeno il 95% delle specie superiori ricorre al sesso, almeno quando ne ha la possibilità, per riprodursi (cfr. Hervé Kemps, La revolution biolithique. Humains artificiels et machines animées, op. cit., pag. 61). Ma, come già notato, esistono anche nella specie umana numerosi cloni naturali, sotto forma di gemelli monovulari spontanei, la cui esistenza non parrebbe comportare nessun pregiudizio particolare alla specie in quanto tale, così come la loro presenza non ha mai generato particolare sconcerto nella comunità di appartenenza. O almeno ciò era vero sino all'affermarsi del terrorismo culturale contemporaneo: chi scrive ha sentito con le proprie orecchie dare del "clone bastardo" ad un componente di una coppia di gemelli, in un'inedita forma di insulto derivata dalla penetrazione nell'inconscio collettivo dell'attuale bizzarra propaganda per il "diritto all'unicità genetica"!
(118) Cfr. Robert P. Lanza et al., "Cloning Noah's Ark", in Scientific American, Ottobre 2000, pag, 84.
(119) Esistono in effetti due tipi di clonazione artificiale: quella che riproduce il meccanismo naturale di produzione dei gemelli monovulari, e che consiste nel provocare una scissione dell'embrione quando le sue cellule sono ancora allo stato "totipotente"; e quello che sfrutta la capacità di qualsiasi cellula, anche tratta da un pelo di un animale estinto, di rendersi a sua volta totipotente quando il nucleo ne venga estratto ed impiantato in un ovulo della stessa specie o di una specie compatibile. Questa seconda tecnica è quella coinvolta nella cosiddetta "clonazione riproduttiva" degli essere umani adulti, o nella cosiddetta "clonazione terapeutica" che come vedremo consisterebbe nel far crescere singoli organi (o al limite interi doppioni anencefali) di un dato individuo per fornirgli tessuti compatibili nuovi secondo necessità.
(120) Il forte incremento dei tagli cesarei dipenderà certamente da una cultura medica che interpreta la gravidanza come una malattia, e tale tipo di intervento come chirurgia risolutiva. La disponibilità da secoli di tale tecnica aiuta però ovviamente a riprodursi donne che avrebbero in caso contrario maggiori difficoltà a farlo, e che presumibilmente lasciano in eredità la componente genetica di tali difficoltà alla loro progenie di sesso femminile.
(121) E' interessante d'altronde notare che in Platone, come del resto in tutte le preoccupazioni "eugenetiche" dell'antichità europea, la "qualità" della discendenza non si lega come nel filone "progressista", specie americano, dell'eugenismo moderno a criteri più o meno oggettivizzati (ad esempio, alle performances fisiche o intellettuali, o a supposte superiorità darwiniane), ma è inscindibile dalla prospettiva di una soggettività collettiva di tipo identitario: «... e il dio proclama, come un principio fondamentale per i governanti, che non c'è nulla che essi debbano così gelosamente tutelare, o di cui essi debbano essere tanto buoni custodi, quanto della purezza della razza» (Repubblica, III, 415). Cfr. anche Hans F.K. Günther, Platone custode della vita, op. cit.
(122) Per un'estesa illustrazione delle antiche pratiche europee di selezione dei nuovi nati, e di regolamentazione dei matrimoni (o più in generale dell'accesso alla riproduzione), vedi Jean-Jacques Mourreau, "L'éugenisme. Survol historique", in Nouvelle Ecole n. 14 del Gennaio-Febbraio 1971, numero interamente dedicato all'eugenetica.
(123) Adriana del Prete, "Una società razzista?", in Missione salute, n. 5 del 2003.
(124) Friedrich Nietzsche [alias, alias], La volontà di potenza, libro II, 1, aforisma 151.
(125) Ibidem, libro II, 2, aforisma 228.
(126) Gregory Stock [alias], Redesigning Humans, op. cit., pag. 117 ( Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005).
(127) Anche la protezione dell'ambiente ha paradossalmente in questo senso una valenza "antiselettiva", posto che è ovvio come l'inquinamento o in generale una qualità della vita estremamente degradata selezionino i portatori della capacità di tollerare meglio sostanze tossiche o altre condizioni avverse.
(128) Harry Harris, Diagnosi prenatale e aborto selettivo, Einaudi, Torino 1978, versione originale Prenatal Diagnosis and Selective Abortion, Harvard University Press, Boston 1975. (129) Ciò non è d'altronde vero per le tecniche eugenetiche, unicamente contemporanee e future, basate appunto non sulla selezione delle linee genetiche, ma sulla manipolazione diretta dei geni interessati.
(130) Sarebbe però necessario qualcosa di più radicale del tipo di vita immaginato nei film di George Miller Mad Max II. Il guerriero della strada (USA 1981) e Mad Max III. Oltre la sfera del tuono (USA 1985), ove continuano ad essere almeno provvisoriamente disponibili armi da fuoco, mezzi di trasporto, etc.
(131) Vedi ad esempio Konrad Lorenz, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, Adelphi, Milano 1974. Curiosamente, un'altra caratteristica che tra gli animali superiori pare associata (a prescindere dalle componenti genetiche, pure evidenziate) dalla domesticazione è l'incidenza dell'omosessualità e della bisessualità, come noto particolarmente elevata nella nostra specie. Vedi Lester Haines, "Aussie boffins probe lesbian cows", The Register, 03/09/2004.
(132) Come è stato notato, siamo oggi in grado di intervenire sulle popolazioni con tre tipi di tecnica: le tecniche eugeniche (volte a selezionare i geni desiderabili e ridurre la frequenza di quelli indesiderabili), le tecniche genetiche (volte a manipolare direttamente il corredo genetico), e le tecniche eufeniche (volte ad influenzare lo sviluppo del fenotipo e l'espressione dei geni attraverso la manipolazione dell'ambiente in cui l'organismo si sviluppa: gestazione, alimentazione, abitudini, clima, allenamento, terapie, etc.). Il fatto che il presente studio si concentri principalmente sui primi due tipi non significa che non ci sia molto da dire anche sul terzo. È ad esempio interessante notare come l'unico paese che continua ad offrire scuole per superdotati, e a fare ricerca riguardo le migliori condizioni per la loro formazione, sia Israele, oltre che (molto marginalmente) gli Stati Uniti.
(133) Su come tali argomenti trovino oggi spazio addirittura a livelli di quotidiani della sera, vedi ad esempio Alessandro Giuli, "Il corpo si ribella all'anima e progetta l'immortalità", art. cit. Per una discussione dello "stato dell'arte" sull'argomento, cfr. Yves Christen, Les années Faust, ou La science face au vieillissement, op. cit.; The Scientific Conquest Of Death, op. cit.; Ray Kurzweil, Fantastic Voyage. Live Long Enough to Live Forever, op. cit. [sito collegato]; ed ancora il sito della Life Extension Foundation.
(134) La mortalità, nel senso di una "scadenza di fabbrica" più o meno breve, non è una caratteristica intrinseca della vita. I microrganismi che si riproducono per scissione sono in un certo senso immortali. Le cellule cancerogene, grazie alla loro capacità di evitare l'accorciamento dei telomeri, condividono tale privilegio insieme con le cellule germinali degli animali superiori, quelle che si trasformano in ovuli e spermatozoi. In effetti, ovuli e spermatozoi non hanno tecnicamente antenati morti, sin dall'origine della vita sulla terra: sono solo le altre cellule destinate inevitabilmente ad estinguersi (vedi Brian Alexander, Rapture: How Biotech Became the New Religion. A Raucous Tour of Cloning, Transhumanism, and the New Era of Immortality, op. cit., pag. 108).
(135) Vale la pena di notare che sino ad oggi la medicina e gli altri mutamenti introdotti dal "secondo uomo" hanno significativamente allungato la vita media delle popolazioni, ma non l'"arco vitale", il life span del singolo individuo, che corrisponde piuttosto alla vita massima dei membri della specie. Dire che la durata media della vita di un cavernicolo era trent'anni, o cinquanta quello di un antico romano, non significa affatto che gli individui morivano a tale età come un gatto muore tuttora a dodici o quindici anni qualsiasi siano le cure veterinarie che riceve, ma semplicemente che moltissimi di essi morivano nella prima infanzia, oppure uccisi, o per qualche altro accidente, prima della vecchiaia. Gli ottantenni tra gli esseri umani sono sempre esistiti. Vedi al riguardo Michael Fumento, Bioevolution. How Biotechnology Is Changing the World, op. cit., pag. 125. Come nota Gregory Stock [alias] (Redesigning Humans, op. cit., pag. 33, trad. italiana: Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005) «[A questo punto] per ottenere ulteriori significativi incrementi della nostra longevità dovremo incrementare il nostro arco vitale, il che significa manipolare il processo di invecchiamento soggiacente». Ciò sarebbe del resto comunque necessario per evitare una "titonizzazione" dell'umanità che nei paesi occidentali è già in atto. Titone, sposo dell'Aurora si era visto donare dagli dèi l'immortalità, ma per sua sfortuna non aveva altresì ottenuto l'eterna giovinezza. Un'interessante rielaborazione del mito è presente nel cult movie "vampirico" di George Scott Miriam si sveglia a mezzanotte (titolo originale: The Hunger, USA 1983, con David Bowie, Catherine Deneuve e Susan Sarandon.
(136) Ovvero a prescindere dai costi indiretti a medio termine legati all'espansione delle cure geriatrihe, alla crescente densità ed invecchiamento della popolazione, etc.
(137) A un convegno svoltosi all'Università Cattolica di Milano il 21/02/2005 Daniel Callahan [alias] direttore dell'Hastings Center e considerato da molti uno dei "padri" della bioetica, ha rimarcato che comunque sulla base dei trend attuali «nel 2050 la sanità costituirà il 50-60% del PIL di uno Stato occidentale», insistendo invece da parte sua nella proposta di una "medicina sostenibile", dagli scopi modesti e dalla connotazione principalmente "sociale", da applicare in modo rigidamente egualitario. Lo stesso si è sentito nondimeno dare del... fascista perché il suo rifiuto di scegliere cosa fare delle tecniche che si rendono via via disponibili implica naturalmente un dirigismo che è a sua volta poco compatibile con altri feticci contemporanei, come il "Mercato". Cfr. Armando Massarenti, "La medicina non insegua l'immortalità", in Il Sole-24Ore del 22/02/2005, pag. 10.
(138) Come nota Gregory Stock [alias] (Redesigning Humans, op. cit., pag. 80, trad. italiana: Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005), l'idea di restringere gli sforzi della biogerontologia soltanto sul fatto di mantenerci in salute il più a lungo possibile ed accorciare il periodo di declino finale è solo apparentemente ammirevole e di buon senso: «Immaginiamo che tale progetto abbia il più completo successo... Una morte che ci strappasse dal pieno di una vita attiva senza la graduale debilitazione che ci forza a disimpegnarci dal mondo e a fronteggiare la nostra inevitabile dipartita finale potrebbe essere molto più crudele di ciò che succede oggi. Quando il tempo viene di morire, non solo ci sentiremmo strappati dal fiore degli anni, ma lasceremmo dietro di noi un vuoto più incolmabile. Le nostre famiglie non sarebbero preparate a perderci, né avrebbero la consolazione di sapere che morendo siamo almeno sfuggiti al dolore e ad una qualità della vita ormai degradata».
(139) Un testo interamente dedicato ai più probabili scenari di estinzione a breve termine della specie umana è Martin Rees [alias], Il secolo finale. Perché l'umanità rischia di autodistruggersi nei prossimi cento anni, Mondadori, Milano 2004. Malgrado il sottotitolo, il libro si occupa anche di scenari "catastrofici" che difficilmente potrebbero essere attribuiti ad una diretta responsabilità umana (se non, eventualmente, sotto il profilo dell'omissione delle misure che potrebbero essere utili al tentativo di evitarli: meteore, mutamenti climatici spontanei, etc.).
(140) Secondo la definizione classica, che tutti abbiamo studiato a scuola, individui e popolazioni appartengono alla stessa specie quando sono interfecondi. Ora, sappiamo che i Neandertaliani, la cui intelligenza è comunemente ammessa sulla base di indici quali l'utilizzo di utensili ed indumenti, il culto funerario e la presenza morfologicamente probabile di un linguaggio evoluto, con noi certamente non lo erano, avendo addirittura un numero di cromosomi diverso da quelli dell'Homo sapiens. Vedi al riguardo le fonti ed i dati riportati da Maurizio Blondet, L'uccellosauro ed altri animali, op. cit., pag. 104; ed ancora "Non siamo parenti dei Neanderthaliani", in Prometeo, gennaio 2004. I Neanderthaliani del resto avevano caratteristiche morfologiche ed etologiche tanto diverse e specializzate (ad esempio, avevano un odorato sviluppato, erano esclusivamente carnivori, etc.), che da lunghissimo tempo nessuno più li ritiene "progenitori" della nostra specie.
(141) I reperti paleontologici mostrano che vi sarebbero state cinque grandi ondate di estinzioni, di cui la seconda in ordine di importanza, quella che sessantacinque milioni di anni fa ha spazzato via i dinosauri, viene dagli anni ottanta comunemente attribuita agli sconvolgimenti climatici provocati dalla caduta di un meteorite (resta d'altronde incerto perché siano sopravvissute creature a sangue freddo più antiche e relativamente massicce, come i coccodrilli o i draghi di Komodo, mentre si sono integralmente estinti anche i dinosauri marini, o quelli grandi come galline). Alcuni credono che da un evento analogo possa essere dipesa anche l'estinzione più catastrofica, quella che si è verificata nella transizione tra il Permiano e il Triassico, ma i duecentocinquanta milioni di anni che ci separano da tale epoca rendono molto difficile avanzare ipotesi attendibili.
(142) Se la stragrande maggioranza delle specie che hanno abitato la Terra sono oggi estinte, ugualmente si sono estinte la maggior parte delle linee germinali che componevano la nostra specie. Come è ovvio, con il passaggio delle generazioni, il numero di progenitori di cui è ancora presente la discendenza tende inevitabilmente a ridursi, dato che ad ogni generazione una frazione piccola, ma sempre positiva, delle stirpi presenti viene eliminata dalla selezione o dal caso. L'accurata analisi di questo processo con riguardo alla specie umana, che porta ad ipotizzare una durata dell'intero processo di circa centocinquantamila anni, ha fatto parlare i giornali della "scoperta di Eva". Ovviamente, ciò che è davvero successo non è affatto l'irraggiamento delle stirpi da due soli progenitori comuni, ma viceversa l'inevitabile eliminazione progressiva delle stirpi, con il passare del tempo, fino al momento in cui resta la discendenza di un'unica coppia; processo questo che continua, così che l'ultima "coppia ancestrale" tende a sua volta a spostarsi avanti nel tempo. A seguito di tale fenomeno, tutto il patrimonio genetico non presente nella linea germinale rimasta come unica sopravvissuta è andato ovviamente ed irrimediabilmente perduto – così come ad ogni generazione va perduto quello che sia esclusivamente presente nelle stirpi che si estinguono.
(143) Cfr. in questo senso Richard Lewontin [alias], Biologia come ideologia. La dottrina del DNA, Bollati Boringhieri, Torino 1993; titolo invero paradossale, come se non sia esattamente l'ideologia e la religione ancestrale dell'autore a determinare l'esigenza "morale" di tale tipo di conclusione.
(144) Ciò rappresenta il successo di un progetto metapolitico di rimozione molto risalente. In pieno periodo fascista, Benedetto Croce pubblica un capitolo intitolato "Specie naturali e formazioni storiche" nel libro La storia come pensiero e come azione in cui indica apertamente «il preconcetto delle razze» come «l'obbiettivo di una battaglia vigile e continua da parte dell'uomo morale, al fine di ristabilire di continuo la coscienza dell'unica umanità» (corsivo nostro, pag. 301-305, prima edizione: Laterza, Bari 1943). Proprio l'anno seguente alla promulgazione delle leggi di Norimberga, nel 1936, lo stesso riusciva a riaffermare quest'ordine di idee in un articolo pubblicato in... Germania (!), dalla Deutsche Literaturzeitung, in cui condannava apertamente l'interesse nazionalsocialista per questo tema (vedi Rosella Faraone, Giovanni Gentile e la "questione ebraica", Rubbettino, Messina 2003, pag. 21).
(145) L'autore cita alternativamente il colore della pelle (bianco, bruno, giallastro), la forma del cranio (dolicocefalia e brachicefalia), la struttura dei capelli e dei peli (lisci o crespi); in realtà sin dalla nascita dell'antropologia e dell'antropometria le razze sono sempre state definite sulla base di criteri misti e con l'aggiunta di vari altri parametri, quali la taglia media, la dominanza longilinea o brevilinea, la pigmentazione dell'iride, la forma delle labbra, del mento e della fronte, etc.
(146) In realtà, il fatto che Jacquard ritenga necessario precisarlo induce a sospettare che in realtà dubiti della legittimità stessa di tali studi ; cosa di cui avremo presto conferma.
(147) Vedi Theodosius Dobzhansky [alias], Diversità genetica e uguglianza umana, Einaudi, Torino 1975, in particolare nel secondo capitolo, "Genetica evolutiva della razza".
(148) In materia di tassonomia della specie umana fondata sull'individuazione del tipo, ha particolare rilevanze nel dopoguerra la cosiddetta "scuola polacca". Cfr. J. Czekanowski, "The Theoretical Assumptions of Polish Anthropology", in Current Anthropology, 3, 1962; e, sullo stesso numero, T. Bielicki, "Some Possibilities for Estimating Interpopulation Relationship on the Basis of Continuous Traits", e A. Wiercinski, "The Racial Analysis of Human Populations in Relation to Their Ethnogenesis".
(149) Del tutto assurda è ad esempio la definizione, da parte della propaganda occidentale, di "pulizia etnica" per le pratiche di stupro collettivo fantasiosamente attribuite ai Serbi nei confronti delle popolazioni bosniache o kosovare, pratiche il cui unico plausibile risultato sarebbe al contrario... il meticciato dell'etnia serba con le popolazioni in questione. Semmai, una tale improbabile politica sarebbe stata oggettivamente volta alla polluzione etnica.
(150) Magari, come nell'esperienza dei mercanti sudisti di schiavi negli Stati Uniti, attraverso l'importazione massicia come manodopera delle "razze inferiori", e l'apporto "chiarificatore" del proprio seme, con il vantaggio di rendere commercialmente più quotati sul mercato interno i prodotti del proprio allevamento. Tale mondo e la relativa mentalità sono rievocati tra l'altro nei romanzi di Kyle Onstott come Mandingo, ult. ed. Fawcett 1986 (ult. ed. italiana Mondadori, Milano 1983; vedi anche l'omonimo film di Richard Fleischer, USA 1975).
(151) Julius Evola, Indirizzi per una educazione razziale, ult. ed. Edizioni di Ar, Padova 1979, pag. 52. Come noto, Evola, pur rivestendo un ruolo relativamente secondario nell'elaborazione dottrinale del fascismo italiano, si vide riconoscere da Mussolini stesso un ruolo notevole proprio con riguardo alla formulazione della dottrina della razza del regime italiano, esattamente in chiave di "velleità di diversificazione" dalla Germania nazionalsocialista (d'altronde, come nota Giorgio Locchi, Evola in realtà aderiva proprio ad una delle tante concezioni razziali tedesche, ovvero a quella, sia pur minoritaria, del razzismo "völkisch-spiritualista"). Al riguardo, vedi Pino Rauti, Rutilio Sermonti, Storia del fascismo, vol. V, CEN, Roma 1977, pag. 320. Curiosamente, Giovanni Monastra tenta invece di accreditare, a fini ovvi di "riabilitazione", una sorta di "persecuzione" fascista delle tesi evoliane in materia razziale (che comunque non può fare a meno di criticare negli aspetti palesemente meno politically correct), in un articolo dal titolo Julius Evola, des théories de la race à la recherche une anthropologie aristocratique sorprendentemente pubblicato in Nouvelle Ecole n. 47.
(152) Citato dall'introduzione a Julius Evola, Indirizzi per una educazione razziale, op. cit., Ludwig Ferdinand Clauss ebbe anche influenza su varie componenti del movimento völkisch e della Konservative Revolution, comprese quelle propriamente nazionalsocialiste, e tra i suoi studi di psicoantropologia, meritano di essere citati: Rasse und Seele, Monaco 1926 e Von Seele und Antlitz der Rassen und Völker, Monaco 1928. La distanza dal "razzismo" stile Ku Klux Klan [alias] è misurabile dal suo particolare interesse per l'insieme etno-culturale arabo, che ha portato ad alcune opere specialistiche molto significative che a differenza di quelle citate sono ancora reperibili sul mercato.
(153) E ovviamente dei cloni: ma l'autore scrive qui della specie umana e nel 1973 l'idea di una clonazione di routine dei mammiferi non era certo una prospettiva imminente.
(154) Theodosius Dobzhansky [alias], Diversità genetica e uguglianza umana, op. cit.
(155) Sulle valenze e significati contemporanei, specie politici, del termine di "razza", vedi invece Gianantonio Valli, "Semantica del razzismo", in l'Uomo libero n. 37. Tutta la semantica in questione viene d'altronde significativamente a cadere quando l'interlocutore è confrontato con questioni più innocentemente attinenti a razze animali, in particolare domestiche.
(156) In realtà esistono vari tipi di segregazione non-culturale, e perciò genericamente applicabili a tutte le specie animali, ivi compresa quella umana, tra cui l'isolamento geografico (creato dalla distanza o da altre barriere naturali difficili da oltrepassare), l'isolamento ecologico (ovvero la preferenza geneticamente determinata per habitat differenti) e l'isolamento etologico, rappresentato dalla mancanza di attrazione sessuale tra maschi e femmine, pur potenzialmente interfecondi, di due popolazioni diverse. Un altro fattore è l'inferiore fecondità statistica degli accoppiamenti interrazziali, che sembra probabile anche per le grandi razze umane.
(157) Una questione dibattuta, specie in relazione alla conferma moderna basata sull'analisi del DNA che vari appartenenti estinti alla famgilia Homo noti alla paleontologia appartenevano a specie diverse, e non a a razze della specie Homo sapiens, è la questione se le razze si sono "evolute" prima o dopo l'ominazione, nonché se questa ha un'origine unica e puntuale oppure ha avuto luogo su base multiregionale a seguito di scambi genetici e spinte selettive convergenti tra le varie razze. Attribuisce una notevole importanza ideologica alla questione, ed in particolare alla presa di posizione per la seconda teoria, cfr. Rachel Caspari, "Origines et diversité. L'évolution multirégionale de l'espèce humaine", in Krisis n. 27, Novembre 2005, che pure contiene concessioni inaccettabili alla vulgata "antirazzista" sull'incapacità peculiare dell'umanità di dividersi in sottospecie. Un altro modo di porre la questione è se l'Homo sapiens ha acquisito le sue caratteristiche attuali nel momento, in tal caso relativamente recente, in cui si sarebbe costituito in quanto specie o se l'ominazione si è verificata a seguito di un processo evolutivo "intraspecifico" (simile a quello che ha visto ad esempio aumentare significativamente le dimensioni dei cavalli contemporanei rispetto ai loro progenitori cospecifici). Vedi anche Milford H. Wolpoff, Rachel Caspari, Race and Human Evolution. A Fatal Attraction, Simon and Schuster, New York 1997.
(158) Luigi Luca Cavalli-Sforza [alias], "Some Data on the Genetic Structure of Human Populations", in Proceedings. X International Congress Genetics, I, 1959; "Human Diversity", in Proceedings XII International Congress Genetics, III, 1969; The Genetics of Human Populations (con Walter F. Bodmer), Freeman, San Francisco 1971; merita anche di essere citato, sempre di Bodmer, Genetics, Evolution and Man, San Francisco, Freeman, 1976, mentre lo stesso Dobzhansky è autore del quasi omonimo ma più risalente Evolution, genetics, and man, Wiley, 1966.
(159) Christopher G.A. Harrison, "Human Evolution and Ecology", in Proceedings III International Congress Human Genetics, 1967.
(160) James Neel et al., "The Phylogentic Relationship of Some Indian Tribes of Central and South America", in The American Journal of Human Genetics, 21, 1969,
pag. 384.
(161) Gli alleli di geni varianti sono le varianti note di un dato gene: ad esempio quelle che codificano i gruppi sanguigni primari.
(162) A. Langaney, "La quadrature des races", in Génétique et Anthropologie, settembre 1977.
(163) L'autore fa qui riferimento a Richard Lewontin [alias], The Genetic Basis of Evolutionary Change, Columbia University Press, 1974, ricerca i cui dati sono del resto rese dubbi dalla dichiarata ipoteca ideologica "progressista" che getta la sua ombra su tutta l'opera dello studioso ebreo-americano, e che lo hanno condotto persino al tentativo di recupero di tematiche lamarckiane inerenti a pretese influenze genetiche dei caratteri acquisiti!
(164) Una brillante ripresa ironica della dichiarazione rousseauiana secondo cui sarebbe stato meglio riconoscere lo status di esseri umani alle scimmie superiori piuttosto che rischiare di negarglielo a torto, è contenuta nel pamphlet del filosofo nominalista Clément Rosset, Lettre sur les Chimpanzés, Gallimard, Parigi 1965 e 1999. Merita di essere anche ricordato come l'autore sia stato indotto nella seconda edizione ad introdurre una prefazione in cui lo stesso difende la sua rispettabilità rispetto ad accuse di razzismo...
(165) Lugi Luca Cavalli-Sforza [alias], Storia e geografia dei geni umani, Adelphi, Milano 1997. Le conclusioni di tale poderosa ricerca sono riassunte anche nel più accessibile Geni, popoli e lingue, op. cit., in cui i dati ricavati dalle "cartografie" delle distribuzione geografica contemporanea di varie centinaia di geni vengono messi in rapporto con una enorme massa di dati demografici, archeologici e linguistici, sino a constatare come genealogie del tutto diverse, come quella genetica, quella paleoantropologica e quella linguistica si rivelino in accordo e si corroborino a vicenda.
(166) Per una recente edizione italiana Charles Darwin, L'origine dell'uomo, Studio Tesi, Milano 1991. In versione originale: The descent of man, Penguin, Londra 2004 [edizione Web].
(167) In realtà, come vedremo, è proprio sulla natura "culturale" dell'uomo che avrebbe dovuto appuntarsi l'attenzione. Il che del resto lascia ampio campo libero allo studio dei meccanismi "naturali" di formazione delle razze attraverso l'osservazione delle altre specie ed il confronto appunto delle razze animali e vegetali con quelle umane.
(168) Il passo in questione è a lungo analizzato in Stefano Vaj, Indagine sui Diritti dell'Uomo. Genealogia di una morale, LEdE, Roma 1985, pag. 59 e segg. [versione Web].
(169) Beiker, Weiner, Biology of Human Adaptability, Oxford University Press, Oxford 1966.
(170) Riggs, Sargent, "Physiological Regulation in Moist Heat by Young American Negro and White Males", in Human Biology, 1964, 32, pagg. 339-335.
(171) Vedi quanto ricordato alla nota 8, nonché il libro di Jacquard più volte citato. Mentre sulla componente ereditaria del QI valgono gli studi sui gemelli identici allevati separatamente, per ciò che concerne la razza lo studio Race et intelligence, op. cit., di Jean-Paul Hébert esamina i risultati medi di individui allevati in condizioni tendenzialmente identiche (ad esempio gli ospiti di un orfanatrofio) ma appartenenti ad etnie diverse. Tali test, come noto, evidenziano non solo risultati mediamente inferiori da parte delle popolazioni negroidi, ma altresì una curva di distribuzione significativamente diversa tra razze europoidi ed orientali.
(172) Interessanti sono in tal senso gli studi che identificano la riemergenza di moduli espressivi e grammaticali propri alle lingue africane nell'inglese parlato dai negri americani, benché non vi sia alcuna ipotizzabile continuità culurale tra le prime e il secondo, dato che le lingue africane sono andate del tutto perdute tra gli schiavi importati negli Stati Uniti.
(173) Un esempio "sociobiologico" che fa Lorenz è quello delle piume della coda dell'uccello argo, che rendono più difficile sfuggire ai predatori, ma la cui lunghezza è un fattore decisivo nella preferenza delle femmine della specie, presumibilmente perché garantisce una discendenza maschile altrettanto irresistibile per le femmine della sua generazione, così che l'ipotetica femmina "amante delle piume corte" tenderebbe a veder ridursi ad ogni generazione il numero dei suoi nipotini. Cfr. Konrad Lorenz, L'anello di re Salomone, ult. ed. italiana Adelphi, Milano 1989, e Stefano Vaj, "L'etologia", in l'Uomo libero n. 5. art. cit.
(174) Cfr. Hans F.K. Günther, Platone custode della vita, op. cit.
(175) Salzano et al., "Further Studies on the Xavante Indians", in American Journal of Human Genetics, 1967, 19, pagg. 463-489; Chagnon et al., "The Influence of Cultural Factors on the Demography and Pattern of Gene Flow from the Makritare to the Yanomama Indians", ibidem, 1970, 32, pagg. 339-350.
(176) Joseph B. Birdsell, Human Evolution, Rand McNally, Chicago 1972.
(177) Per menzionare un esempio equivalente in Europa, secondo uno studio portato a termine nel 2006 da alcuni scienziati irlandesi, un personaggio storico chiamato Niall of the Nine Hostages, che è tramandato aver lasciato dodici figli dietro di sé, potrebbe ritrovarsi circa... tre milioni di discendenti contemporanei, essendo stato individuato come origine di materiale genetico, localizzato sul cromosoma Y, condiviso in media da un maschio su dodici nell'Eire. Vedi Lester Haines, "Irishman has three million kids" in The Register, 19/01/2006.
(178) B. Glass, "Genetic Changes in Human Populations, Especially Those Due to Gene Flow and Genetic Drift", in Advances in Genetics, 1954, 6, pagg. 95-139; Steinberg et al. "Genetic Studies in an Inbred Human Isolate", in Proceedings III International Congress on Human Genetics, 1967, pagg. 267-269.
(179) Theodosius Dobzhansky [alias], Diversità genetica e uguglianza umana, op. cit.
(180) Cfr. Motoo Kimura e James F. Crow, "Natural Selection and Gene Substitution", in Genetic Research, 1969, 13, pagg. 27-41.
(181) Per una recente edizione italiana Charles Darwin, L'origine della specie, Zanichelli, Milano 1994. In versione originale: The origin of specie, Signet Classics, Londra 2003 [edizione Web].
(182) Motoo Kimura e James F. Crow, "Natural Selection and Gene Substitution", art. cit.
(183) Grado in fin dei conti relativo. Come è stato osservato, esistono specie animali, anche selvatiche, in cui il processo di differenziazione razziale è molto più spinto che nell'uomo, tanto da confinare con la speciazione (tali razze restano geneticamente compatibili, ma non sono più naturalmente interfeconde per ostacoli di tipo etologico o meccanico all'accoppiamento tra membri di razze diverse, o alla capacità della femmina di portare a termine l'eventuale gravidanza). Cfr. le ipotesi da barzelletta sull'eventuale accoppiamento di un Chihuahua e di un San Bernardo.
(184) Naturalmente, selezione sessuale e segregazione sono due facce di una stessa medaglia, quando si prenda la prima non in termini assoluti, ma in termini di probabilità che l'individuo X generi prole con l'individuo Y. In tale senso, un elemento come abbiamo già visto certamente "culturale" di cui Cavalli-Sforza [alias] sottolinea il grandissimo ruolo è la lingua, i cui confini, malgrado conquiste, colonizzazioni, migrazioni, etc. ancora oggi corrispondono spesso in misura significativa anche a "gradienti genetici". A quanto pare, chi difende la propria identità linguistica difende anche la propria identità etnica, e il linguaggio svolge un ruolo normalmente decisivo nel corteggiamento umano...
(185) Per una discussione circa il significato e la portata dell'immigrazione di massa in termini di etnocidio, rimandiamo a Stefano Vaj, "Per l'autodifesa etnica totale", in l'Uomo libero n. 51.
(186) Gregory Stock [alias], Redesigning Humans, op. cit., pag. 57 ( Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005).
(187) È facile infatti capire che in una specie che vive in condizioni ambientali simili e in uno stato di tendenziale panmissia, nessuna diversificazione ha ragione o possibilità di manifestarsi, e soprattutto mantenersi.
(188) Luigi Luca Cavalli-Sforza [alias], Geni, popoli e lingue, op. cit., pag. 300.
(189) Sentiamo echeggiare qui il punto di vista ben illustrato da Bertold Brecht nell'inventare l'immaginaria "maledizione cinese" «che tu possa vivere in tempi interessanti». Se l'avvenire dell'uomo non è più la felicità nel paradiso celeste o nella società senza classi, che comunque sia quanto meno il più noioso possibile...
(190) Il libro riproduce un corso di conferenze tenuto alla Sorbona nel 1981, e ripetuto ed aggiornato nel 1990. All'inizio degli anni ottanta, e peggio ancora dieci anni dopo, Cavalli-Sforza [alias] appare, per essere un professore di genetica, singolarmente poco informato sugli sviluppi che già si annunciavano chiaramente... E in ogni modo non si vede su che basi lo stesso potesse sperare che la "fortuna" cui ripetutamente accenna fosse destinata a durare più di qualche anno.
(191) Per un'edizione italiana facilmente reperibile del celebre racconto cui accenna Cavalli-Sforza [alias], vedi Aldous Huxley [alias], Mondo nuovo e ritorno al mondo nuovo, Mondadori, Milano 2000, in edizione originale The Brave New World, Harper 1998 [edizione Web].
(192) Grazioso ed anodino eufemismo, che dà atto di come l'autore stesso ritenga che i suoi lettori non siano ancora pronti a sentir parlare con indifferenza della propria estinzione.
(193) Oswald Spengler, Ascesa e declino della civiltà delle macchine, op. cit., pag. 100 (ult. ed. italiana con il titolo L'uomo e la macchina, versione originale: Der Mensch und die Technik. Beitrag zu einer Philosophie des Leben).
(194) Jürgen Habermas, Il futuro della natura umana: i rischi di una genetica liberale, Einaudi, Torino 2002, pag. 44.
(195) Cfr. Giorgio Locchi, Nietzsche, Wagner e il mito sovrumanista, Akropolis, Roma 1982.
(196) Giorgio Locchi, "Espressione politica e repressione del principio sovrumanista", in l'Uomo libero n. 53.
(197) Se il fascismo italiano soffre per tutta la sua storia del pervasivo condizionamento di forze esterne molto meno presenti nel caso tedesco, la fantasmagoria nibelungica del Terzo Reich, e la speciale demonizzazione di cui questo è oggi oggetto da parte antifascista, tendono paradossalmente a nascondere le ipoteche conservatrici, quando non piccolo-borghesi, variamente presenti nella mentalità nazionalsocialista e nella stessa formazione di Hitler. Anche in campo biopolitico, come sotto il profilo sociale, il movimento nazionalsocialista finisce così, malgrado il suo conclamato radicalismo, per parlare spesso un linguaggio più "di destra" rispetto alle elaborazioni italiane contemporanee, come nel caso del ruralismo romantico di Darré (cfr. Walter Darré, Nuova nobiltà di sangue e suolo, Edizioni di Ar, Padova 1978) o di Rosenberg. D'altronde, molti personaggi come Jünger, inizialmente delusi da ciò che veniva percepito come una deriva guglielmina e borghese del partito, durante il regime e dopo la fine della guerra finiranno paradossalmente ancora più a destra.
(198) Non è un caso del resto che proprio la questione razziale diventi rapidamente in Italia una "cartina di tornasole", cui i fascisti "rivoluzionari" tendono ad affidare, come nota De Felice (cfr. ad esempio Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, ult. ed. Einaudi, Torino 2005), le proprie speranze di rilancio e palingenesi nella crisi di stanchezza del regime alla fine degli anni trenta.
(199) È così un caso abbastanza singolare che un film recente ed eccezionalmente stupido come I fiumi di porpora di Mathieu Kassovitz (Francia 2001) – che racconta in chiave "gialla" una confusa storia di accademici che in un'università dell'Alta Savoia cercano prima di selezionare esemplari eccezionali incrociando i figli dei docenti, poi rapiscono i figli dei contadini per ovviare all'"impoverimento del sangue" (?) verificatosi – dia invece atto, malgrado reiterati riferimenti al "fascismo", della risalenza e radicamento di una "via francese all'eugenetica" in gran parte estranea e preesistente a qualsiasi possibile influenza nazionalsocialista. In campo biopolitico, comunque, non rinunciano al "richiamo incapacitante" ai luoghi comuni sul passato nazionalsocialista neppure autori per altri versi notevolmente anticonformisti, come il direttore di Effedieffe Maurizio Blondet, che "ironizza", polemizzando con La Repubblica sulla già citata legge italiana sulla procreazione assistita: «se è proprio oscurantista vietare la clonazione umana (con 20 anni di galera), allora perché non riabilitare il pioniere della sperimentazione mostruosa sull'uomo, l'ingiustamente perseguitato dottor Mengele?» (Avvenire, 20/06/2002, "Provetta e principio di precauzione"). Un film infine che descrive una società "eugenetica" (ma non biotecnologica) senza alcun riferimento "fascista", e che paradossalmente incarna valori sovrumanisti (superamento di sé, senso del tragico, spirito di conquista) nel protagonista "geneticamente imperfetto" è Gattaca, La porta dell'universo, di Andrew Niccol (USA 1997).
(200) Citazione riportata da Thuillier, in "Les scientifiques et le racisme", La Recherche, maggio 1974, e da Jacquard, Elogio della differenza, op. cit., pag. 90 [edizione parziale Web].
(201) La frase, pubblicata a quanto pare in un articolo apparso nel 1940 nella rivista Zeitschrift fur angewandte Psychologie und Charakterkunde, è stata riportata uno psichiatra di Harvard, Leon Heisenberg nel numero di Science dell'aprile 1972, ed è stato all'inizio della campagna per l'annullamento del Nobel di medicina attribuito l'11 ottobre 1973 a von Frisch, a Timbergen e a Lorenz stesso. Non si dubita che oggi tali frasi per un inedito annullamento del Nobel sarebbero state più che sufficienti...
(202) Jacquard, Elogio della differenza, op. cit., pag. 146 [edizione parziale Web].
(203) Altamente significativa al riguardo è l'iniziativa poco nota dei Lebensborn ("fontane di vita"). Cfr. sull'argomento Georg Lilienthal, Der 'Lebensborn e.V.'. Ein Instrument nationalsozialistischer Rassenpolitik, Fischer (Tb.), Frankfurt 2003; Will Berthold, Lebensborn, Macdonald & Co, New York 1988; Marc Hillel e Henry Clarissa, Lebensborn. In nome della razza, Sperling & Kupfer, Milano 1976. I Lebensborn erano dei centri SS dedicati all'assistenza sia alle "ragazze-madri" tedesche che all'infanzia abbandonata, non necessariamente tedesca, con caratteristiche etniche considerate desiderabili. Naturalmente, nel contesto del secondo conflitto mondiale tali ruoli hanno conosciuto una notevole espansione, e nell'immediato dopoguerra hanno dato vita alle campagne scandalistiche sui "rapimenti in massa dei bambini polacchi biondi" e sulle "stazioni di monta delle SS".
(204) Citato nella Nota n. 18 di Informazione Diplomatica, 05/08/1938 [versione Web in inglese]. La nota continua: «Discriminare non significa perseguitare... Nessuno vorrà contestare allo Stato fascista questo diritto, meno di tutti gli ebrei, i quali, come risulta in modo solenne anche dal recente manifesto dei rabbini d'Italia, sono stati, sempre e dovunque, gli apostoli del più integrale, instransigente, e, sotto un certo punto di vista, ammirevole razzismo».
(205) Tale posizione è del tutto esplicita. Alfred Rosenberg [alias] intitola così il suo famoso libro Il mito del XX secolo [versione Web originale], e non diversamente fa in Italia Julius Evola quando scrive Il mito del sangue (ult. ed. Edizioni di Ar, Padova 1977). Mitica in un altro senso, e probabilmente in malafede dato che l'autore era tra gli italiani uno di quelli meglio conoscevano le fonti tedesche, è invece la rappresentazione polemica, a fini in sostanza di differenziazione della "spiritualista" posizione italiana, del razzismo tedesco en bloc come "razzismo biologico", ovvero in sostanza neopositivista. Vero è che Evola stessa è seguace di concezioni fortemente influenzate da Clauss e tutt'altro che estranee agli ambienti tedeschi, in particolare a quelli di matrice völkisch, mentre simmetricamente il primo editoriale della rivista di Preziosi [alias], La difesa della razza, recita testualmente, ed anche ovviamente: «Il concetto di razza è concetto puramente biologico». In senso proprio, e fuori di metafora, risulta infatti difficile immaginare a cosa potrebbe corrispondere una razza "spirituale" di canarini, o di lucertole. Altra considerazione è ovviamente quella che le eventuali determinanti razziali di caratteristiche psicologiche possano essere più interessanti, soprattutto nella specie umana, della misurazione dei crani.
(206) Cfr. Adriano Romualdi, Il fascismo come fenomeno europeo, Edizioni dell'Italiano, Novara 1977, seconda edizione Il Settimo Sigillo, Roma 1984.
(207) Poco importa in tale prospettiva se la sottorazza in questione sia mai corrisposta in qualche periodo ad una popolazione individuata, o se costituisca un mero concetto "tassonomico" individuato attraverso un'estrapolazione di caratteristiche scelte arbitrariamente, un Idealtypus, come quello del modello ideale di una razza canina cui l'allevatore mira ad avvicinarsi, ma che non è mai esistito in quanto tale. Per una delle varie classificazioni delle sottorazze europee proposte dagli antropologi nazionalsocialisti, cfr. Hans F.K. Günther, Tipologia razziale dell'Europa, Edizioni Ghénos, Ferrara 2003 [edizione parziale Web], edizione originale: Rassenkunde Europas, J. F. Lehemanns Verlag, Monaco 1926].
(208) Il gusto per le caratteristiche razziali "nordiche", pur dominante tra la maggiorparte dei dirigenti nazionalsocialisti a cominciare dallo stesso Hitler (cfr. lo stesso Mein Kampf, ultima ed. italiana: a cura di Giorgio Galli, Edizioni Kaos, Milano 2002 [versione originale Web]), non è d'altronde peculiare a tale ambiente. La stessa preferenza è stata, in differenti gradi secondo aree e periodi, diffusa in tutte le popolazioni di origine europea, forse in relazione al carattere recessivo di molte di tali caratteristiche (che implicano che le presenti sia al riguardo omozigoti) rispetto ai geni alleli che possono essere diffusi anche all'interno di popolazioni non europee, e in un "europeo" provenire in realtà dal meticciamento con queste. Tale preferenza nordica ha conosciuto del resto una particolare diffusione proprio negli Stati Uniti, non escluse, almeno a livello di caratteristiche fisiche superficiali, quali la pigmentazione chiara dell'iride e dei capelli, le componenti... ebraiche della società americana. Non è Leni Riefenstahl (che del resto aveva una folta chioma corvina), ma un'Hollywood integralmente dominata dagli ebrei a intitolare un film Gli uomini preferiscono le bionde (USA 1953). Ancora negli anni novanta, le tre protagoniste ebree (Diane Keaton, Bette Midler e Goldie Hawn) de Il club delle prime mogli (USA 1999), commedia brillante diretta da un regista ebreo, sono tutte e tre bionde – o tinte di biondo, il che come indicazione di preferenza estetica è ancora più significativa (è vero d'altronde che una delle protagonista ricorre alla chirurgia per rendere le labbra più tumide, il che difficilmente può essere considerata caratteristica prettamente "nordica"...).
(209) Mentre alcuni dirigenti nazionalsocialisti (Heydrich – benché girassero voci su ascendenti ebrei -, lo stesso Göring) avevano tratti spiccatamente nordici, molta ironia è stata incomprensibilmente versata sul fatto che la cosa fosse tutt'altro che generalizzata. Ci si chiede in effetti cosa impedirebbe ad esempio ad un capo di Stato di bassa statura di guardare con favore all'innalzamento dell'altezza media della popolazione del suo paese...
(210) Ernst Jünger, L'Operaio. Dominio e Forma, op. cit.
(211) Nota d'altronde Alain de Benoist, in L'operaio tra gli Dei e i Titani, op. cit., pag. 43 [versione Web], a sua "scusante": «Sin dal 1926-1927 Jünger sottolina che il "sangue" è un concetto non biologico ma metafisico. Nell'agosto 1926 scrive "La parola razza comincia a diventare altrettanto, penso, nell'uso attuale, quanto la parola tradizione"». In realtà sfugge per quale ragione l'attribuire un valore addirittura "metafisico" al fatto razziale (di cosa ciò significhi abbiamo già trattato) sarebbe più politically correct rispetto al (tutto sommato "innocente") mero riconoscimento del dato biologico soggiacente. Ciò si inserisce d'altronde nella stucchevole litania che anche il saggio in questione ripropone, per Jünger come per Heidegger, riguardo le varie e note critiche, "grane" e piccole sconfitte da essi subite durante il regime, sulla falsariga di quanto altrove ripetuto per Spengler, Klages, von Salomon o Schmitt, la cui elencazione poteva avere certo senso in un processo di denazificazione alla fine degli anni quaranta, ma risulta oggi piuttosto insignificante rispetto alla comprensione delle loro idee. Se tali esercizi hanno lo stesso pregio di una discussione sul fatto se Leon Trotsky sia stato o no un "comunista" sulla base del suo ben più grave dissidio con Stalin, vero è che la resistenza alle loro idee sotto il regime, talora per motivi che un ecologista o un bioetico contemporaneo potrebbero facilmente sottoscrivere, dimostra come ai regimi fascisti fosse soggiacente una realtà culturale complessa e tutt'altro che isolata dalle idee che finiranno poi per imporsi nel campo loro avverso.
(212) Come nota Georges A. Heuse, già direttore del Dipartimento di Psicologia dell'UNESCO e segretario generale dell'Institut International de Biologie Humaine di Bruxelles, «è noto che letteralmente non esiste una "razza" ebraica. Gli ebrei formano una "iero-etnia" i cui membri provengono essenzialmente dalla sottorazza anatolica, variante armenoide, (principalmente rappresentata negli Ashkenazi), e dalla sottorazza sudorientale (principalmente rappresentata tra i Sefarditi). A seguito dell'endogamia tendenziale da essi praticata, sia pure in misura diversa nelle singole comunità, è d'altronde plausibile che una o due sottorazze siano antropologicamente in via formazione in seno nell'etnia ebraica, ciò che spiega il fatto che gli ebrei sono frequentemente distinguibili dagli altri "bianchi" attraverso i loro soli tratti morfologici, e senza sapere nulla della loro religione o provenienza famigliare» (in Nouvelle Ecole n. 29, estate 1976, pag. 92) . Sulla questione della composizione razziale del popolo ebraico, cfr. da autorevole fonte israelita Emmanuel Bar-On, "Les contributions de la génétique à l'étude des origines et de l'histoire du peuple juif", in Krisis n. 27, novembre 2005. (213) Sulle concezioni razziali nel Terzo Reich vedi anche Gianantonio Valli, "La razza nel nazionalsocialismo", in l'Uomo libero n. 50. L'esistenza di una componente ebraica viene tenuta in considerazione in gradi diversi sino alla presenza di un quarto di "sangue" ebreo, ma questo viene in sostanza fatto coincidere non con tratti morfologici o caratteristiche genetiche particolari, ma con l'esistenza di uno o più nonni che fossero stati membri della comunità e della religione ebraica. Oltre all'istituto dell'"arianizzazione" ad honorem (introdotto anche in Italia con la Legge n. 24 del 13/07/1939), è noto d'altronde che alcuni halb-Jude ("mezzo ebreo", come veniva sprezzantemente chiamato Milch, responsabile della Luftwaffe, dai suoi avversari politici) svolsero ruoli pubblici significativi nella storia del Terzo Reich. La "razza" risulta infatti in tale contesto un elemento politico e mitico essenzialmente funzionale alla designazione di ideali ed appartenenze.
(214) Tale consapevolezza è particolarmente evidente nella "sinistra" nazionalsocialista. Esemplare il caso di Fritz Lang. A pochi mesi dalla ascesa di Hitler alla cancelleria, dopo un ricevimento in cui Josef Goebbels [alias] annuncia tra la costernazione della maggioranza ebraica presente i programmi del neocostituito ministero della cultura e propaganda per il cinema, lodando tra l'altro i film di Lang (prediletto tra i registi contemporanei dal cancelliere stesso) il regista racconta di essere stato convocato dal ministro, che gli propone di prendere la guida del rinnovamento del cinema tedesco. Alla domanda se il fatto di avere prossime parentele ebraiche, precisamente da parte di madre, pur essendo stato allevato come cattolico, non lo esponesse a discriminazioni, Goebbels avrebbe risposto: «Chi è ebreo lo decidiamo noi». L'aneddoto è probabilmente apocrifo, ma sta di fatto che pochi mesi dopo l'autore di Dr Mabuse, Der Spieler, di Metropolis, e dei Nibelunghi, emigrando indisturbato dalla Germania verso Hollywood, e da lì reinterpretando in senso implausibilmente antifascista la sua opera precedente, sceglie di essere ebreo, con una scelta di campo simile a quella di un Thomas Mann, già autore, con le Betrachtungen eines Unpolitischen (Considerazioni di un impolitico, Adelphi, Milano 1997), di ciò che taluni considerano il manifesto stesso della Rivoluzione Conservatrice, che si "converte" dopo aver sposato un'israelita. Viceversa, la moglie di Lang e sceneggiatrice dei suoi film, Thea von Harbou, già da molti fervente membro del partito quando Lang emigra, ha nel frattempo lasciato il regista per un giornalista indiano abitante in Germania (dalle caratteristiche certo meno nordiche di Lang!), e continuerà una brillante carriera nel cinema per tutta la durata del regime, a fianco del suo nuovo compagno. Quando nel dopoguerra gli occupanti la interrogano sulla sua militanza politica, la stessa tenta di difendersi sostenendo di aver aderito al nazionalsocialismo per manifestare il suo appoggio «a Gandhi ed alla causa dell'indipendenza indiana». Lang sosterrà invece di essere stato costretto ad emigrare per le allusioni antinaziste che sarebbero contenute in Der Testament des Dr Mabuse (Germania 1933), sceneggiato dalla moglie nazionalsocialista (!) e proiettato poco tempo dopo anche in Germania – con l'unica aggiunta di un paio di scene utili a indicare come l'azione del film (in effetti integralmente scritto e girato prima dell'avvento al potere della NSDAP) si situasse storicamente durante la Repubblica di Weimar, e non durante il regime. Nel 1966, dopo alcune grane nel periodo maccartista per il suo avvicinamento negli anni quaranta al partito comunista americano, Lang torna in Germania, e gira il suo ultimo film, Die 1000 Augen des Dr. Mabuse, la terza pellicola contenente il famoso personaggio, che sarà proibito in... Israele, con il pretesto della presenza in un ruolo di protagonista dell'attore Gert Fröbe, già "denazificato" come membro della NSDAP (già reso noto al grande pubblico internazionale dalla sua interpretazione di Goldfinger in 007 Missione Goldfinger, Inghilterra 1964).
(215) Un argomento ricorrente tendente a dimostrare la non-centralità dell'aspetto razziale nella riflessione politica latu senso fascista, oppure l'esistenza di una "differenza" irriducibile tra fascismo italiano e nazionalsocialismo sull'argomento, si fonda sull'enfasi molto più limitata e tardiva del primo sui propri programmi razziali, del resto non estranei all'influenza politico-culturale del secondo. Ciò è d'altronde legato a contingenze storiche, che vedevano la "comunità di riferimento" italiana più facilmente definibile in chiave tradizionalmente nazionale (lingua, confini naturali, frontiere statuali, etc.) di quanto non lo fosse quella tedesca (nazionalismo grande- e piccolo-tedesco, policentrismo, estrema mobilità storica delle frontiere, specie in direzione est-ovest, etc.), per non parlare della differente rilevanza locale della questione ebraica, ove il regime mussoliniano gioca per un certo periodo la carta ("nietzscheana") dell'assimilazione. Occasionali prese di posizione di Mussolini che paiono andare in direzione opposta risalgono comunque sino al 1921 («Non siamo sorpresi di apprendere che in quella che Gigione Luzzati chiama "patria adorata" ci sono ebrei che sono stufi di starci, della qualcosa non ci rammarichiamo affatto. Se i sionisti italiani – sedicenti italiani! – se ne andassero altrove... vorremmo darci il piacere di facilitare questo esodo», da un articolo sul Popolo d'Italia, oggi in Opera Omnia, vol. XIII, pagg. 169-170). Ma le preoccupazione biopolitiche, eugenetiche e razzili del fascismo italiano si esprimono costantemente ogniqualvolta hanno l'occasione di farlo, a cominciare dalle leggi contro il meticciato nelle colonie (che non conoscevano ovviamente equivalenti tedeschi, non avendo il Terzo Reich alcuna colonia extraeuropea) e nella politica sanitaria e demografica, come documentato ad esempio in Rauti, Sermonti, Storia del Fascismo, vol. V, pagg. 269 e segg. Vedi anche Roberto Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, La Nuova Italia, Firenze 1999. Viceversa, la particolare "consapevolezza razziale" nazionalsocialista diventa anche un limite a livello strategico per il regime stesso, come ad esempio laddove il pregiudizio "europeo" a favore dell'Impero britannico tende ad oscurare, rispetto a quanto avveniva in Italia, la percezione del nemico ultimo del fascismo europeo.
(216) Cfr. Giorgio Locchi, "Espressione politica e repressione del principio sovrumanista", in l'Uomo libero n. 53, art. cit.
(217) D'altronde, con riguardo alla politica razziale del Reich, il costante richiamo al sistema concentrazionario, pur suggestivo per l'immaginario antifascista del dopoguerra, non è troppo pertinente, dato che per la Germania dell'epoca, così come per altre analoghe esperienze (la guerra anglo-boera, il concentramento dei giapponesi americani durante la guerra del Pacifico, i gulag staliniani, etc.), l'internamento rappresenta essenzialmente una misura di rimozione, confinamento e contrasto preventivo rispetto a comunità e gruppi sociali percepiti come potenzialmente ostili, o almeno asociali, e la decisione su chi internare non dipendeva certo da indagini sulle caratteristiche antropologiche dei singoli internati!
(218) Come noto, mentre il "totalitarismo" sovietico si occupa di poco d'altro che non sia il raggiungimento degli obbiettivi dei piani quinquennali, i regimi fascisti sono i primi in assoluto ad adottare provvedimenti in materia ecologica, per esempio nel campo dell'inquinamento o della protezione delle specie selvatiche, che pure si coniugano con una forte spinta alla modernizzazione e all'industrializzazione dei relativi paesi. Altri argomenti ritenuti di prioritaria importanza politica sono la profilassi di massa, la cura del corpo e l'educazione alimentare (il "dovere alla salute"), la modificazione dell'ambiente naturale (ad esempio con le bonifiche), il paesaggio urbano, l'equilibrio tra le campagne e le città, il miglioramento delle colture agricole, etc. Questo nel medesimo periodo in cui gli Stati Uniti (come per la verità alcuni paesi europei) si erano appena gingillati per tredici anni con il progetto moralista incarnato dal Proibizionismo, "nobile esperimento" che sarà abolito non prima di aver creato la più grande criminalità organizzata della storia moderna ed aumentato il tasso di alcolismo tra la popolazione. Qualunque cosa se ne possa pensare, durante il Terzo Reich alcolismo e tossicodipendenza crollano in pochi mesi nella loro diffusione e soprattutto nella loro visibilità sociale, proprio perché il regime si preoccupa poco del controllo delle sostanze eventualmente consumate (ovvero del "peccato"), si occupa più efficacemente della mobilitazione del cittadino e della sua responsabilità verso la comunità per eventuali atteggiamenti antisociali concreti, qualunque ne sia la causa o il pretesto immediato, se del caso disponendone l'internamento, ad apprendere che è il lavoro (l'azione trasformatrice sul mondo) che rende liberi: "Arbeit macht frei".
(219) Vedi The Works of Theodore Roosevelt, Charles Schribner's Sons, New York 1923-1926, vol. 21, pag. 163.
(220) Kenneth M. Ludmerer, Genetics and American Society. A Historical Appraisal, John Hopkins University Press, Baltimora 1972, pag. 43.
(221) Michael F. Guyer, Being Well Born. An Introduction to Heredity and Eugenics, Bobbs-Merril Co., Indianapolis 1926, prefazione.
(222) Edwin G. Conklin, "The Future of America. A Biological Forecast", in Harper's Magazine, Aprile 1928, pagg. 529-539.
(223) Citazione riportata in Horatio H. Newman, Evolution, Genetics and Eugenics, University of Chicago Press, Chicago 1921, pag. 441.
(224) Charles B. Davenport Papers, Department of Genetics, Cold Spring Harbor Laboratory, New York 1913.
(225) William McDougall, Is America Safe for Democracy?, Charles Schribner's Sons, New York 1921; vedi anche Ethics and Some Modern World Problems, G.P.
Putnam's Sons, New York 1924.
(226) Nel mondo egualitario, come noto, tale tipo di tesi non ha più corso legale a livello ufficiale – salvo entro certi limiti nell'estrema destra americana ed israeliana – perché proprio l'esperienza fascista indica il rischio "blasfemo" e "faustiano", insito in qualsiasi tipo di intervento, di finire per voler decidere collettivamente, sulla base di un'appartenenza e di un progetto, cosa si vuole essere e cosa fare di se stessi, cessando così di essere strumento di una volontà impersonale ed universale volta alla fine della storia, e diventando al contrario il motore di una (possibile) rigenerazione della storia stessa. D'altronde, va rimarcato quanto delle idee qui descritte resti latente nell'inconscio collettivo americano (ed europeo) specie con riguardo al "patriottismo democratico" oggi nuovamente di moda, ed all'intolleranza del "diverso" che questo esprime a livello politico, sociale, culturale e religioso.
(227) Riportato in Teaching School Bulletin, febbraio 1914.
(228) Irving Fischer, "What I Think About Eugenics", in A Brief Bibliography of Eugenics, Eugenics Society of the USA, 1915, pag. 5.
(229) Ernest A. Hooton, The American Criminal. An Anthropological Study, Harvard University Press. Cambridge 1939, pagg. 307-309.
(230) Jeremy Rifkin, Il secolo biotech, op. cit., pag. 201.
(231) Alexander Graham Bell, "A Few Thoughts Concerning Eugenics", in National Geographic, febbraio 1908.
(232) Cfr. Caleb W. Saleeby, The Progress of Eugenics, Funk & Wagnalls, New York 1914, pag. 89.
(233) Harry H. Laughlin [alias] , "Scope of the Committee's Work", Eugenics Record Office, Cold Spring Harbor Laboratory, New York 1914.
(234) Cfr. Harry H. Laughlin [alias], Eugenical Sterilization in the United States, Psycopathic Laboratory of the Municipal Court of Chicago, Chicago 1922.
(235) Cfr. Jacob H. Landman, Human Sterilization. The History of Sterilization Movement, MacMillan Co, New York 1932, pag. 259.
(236) D'altronde, non importa affatto alla maggiorparte degli intellettuali americani contemporanei quanto se ne possa sapere di più oggi sul modo di operare dell'ereditarietà e su quanto possa essere eventualmente possibile una legislazione meno ingenua e demagogica, o tecnicamente più efficace, essendo come abbiamo visto ormai ritenute intollerabili le tentazioni cui le "buone intenzioni" suddette espongono l'uomo.
(237) Riportato in Mark Haller, Eugenics: Hereditarian Attitudes in American Thought, Rutgers University Press, New Brunswick 1963, pag. 139.
(238) L'affermazione riportata è tratta da Jonathan Beckwith, "Social and Political Use of Genetics in the US, Past and Present", in Annals of the New York Academy of Science, 1976, pag. 47. Vedi anche Stefan Kuhl, The Nazi Connection: Eugenics, American Racism, and German National Socialism, Oxfort University Press, Oxford 2002.
(239) Per un'eloquente illustrazione degli elementi fondanti del sistema ideologico americano, vedi ad esempio Alain de Benoist e Giorgio Locchi, Il male americano, Akropolis, Napoli 1979, e con riguardo alla sua evoluzione nella cultura della globalizzazione, Guillaume Faye, Il sistema per uccidere i popoli [versione Web], op. cit.
(240) Su Ludwig Woltmann, vedi anche Alain de Benoist, "Ludwig Woltmann et le darwinisme allemand ou le socialisme prolet-aryen", in Nouvelle Ecole n. 38.
(241) Eric Delcroix, Le Theâtre de Satan. Décadence du droit, partialité des juges, L'Aencre, Parigi 2002, pag. 335 [versione Web], edizione italiana parziale: "I diritti dell'uomo in azione. La deriva della legge e dei giudici verso lo psicoreato", in l'Uomo libero n. 50.
(242) Edward A. Ross, The Old World in the New: the Significance of Past and Present Immigration to the American People, The Century Co., New York 1944, pagg. 113-150.
(243) Madison Grant, The Conquest of a Continent or, The Espansion of Races in America, Charles Schribner's Sons, New York 1933, ult. ed. Liberty Bell Publications 2004.
(244) James J. Davis, "Our Labor Shortage and Immigration", in Industrial Management, 1923, pag. 323.
(245) Harry H. Laughlin [alias], "Analysis of America's Melting Pot", udienze avanti lo House Committee on Immigration and Naturalization, LXVII Congresso, III Sessione, US Government Printing Office, 1922, pag. 755.
(246) Non mancò naturalmente chi continuò d'altra parte a non percepire la spaccatura, o finì addirittura per "saltare il fosso", al punto da sostenere ancora nel luglio 1934 che «la Germania sta attuando una politica che va d'accordo con la migliore linea di pensiero degli eugenisti di tutti i paesi civilizzati» (Paul Popenoe, "The German Sterilization Law", nel numero dello stesso mese del Journal of Heredity, pag. 257-260).
(247) Mark B. Adams, The Wellborn Science. Eugenics in Germany, France, Brazil and Russia, Oxford University Presso, Oxford 1990, pag. 5, citato anche da Cristian Fuschetto, Fabbricare l'uomo. L'eugenetica tra biologia e ideologia, op. cit., pag. 18.
(248) Cfr. le penose contorsioni al riguardo di Cristian Fuschetto, Fabbricare l'uomo. L'eugenetica tra biologia e ideologia, op. cit., che giunge a riesumare la distinzione tra una possibile eugenetica "negativa" (buona) e l'eugenetica "positiva" e cattiva (luciferina, prometeica, "nazista", etc.), dopo cinquant'anni di dimostrazioni di come il concetto di salute e malattia siano concetti eminentemente culturali. Habermas stesso allude ad una forma appena più moderna di tale vecchio discorso, fondata su una verifica della certezza morale di un ipotetico consenso delle cellule germinali (!), in Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, op. cit., pag. 45-48.
(249) Citato in Alain Peyrefitte, C'était De Gaulle, vol I, Editions de Fallois / Fayard, Parigi 1994, pag. 52. Per le posizioni di De Gaulle in materia di immigrazione, cfr. anche Guillaume Faye nel capitolo su "De Gaulle et l'immigration" in La colonisation de l'Europe.
(250) Riportato da Philippe Alméras, Retour sur le siècle, Les Cahiers de Jalle, Boston 1991, pag. 101.
(251) Circostanza ricordata in Le Theâtre de Satan. Décadence du droit, partialité des juges, L'Aencre, Parigi 2002, pag. 335 [versione Web] op. cit., pag. 302.
(252) Nouvelle Ecole n. 14 del gennaio-febbraio 1971.
(253) Citato in Jean-Jacques Mourreau, "L'éugenisme. Survol historique", Nouvelle Ecole n. 14 del gennaio-febbraio 1971, cui rimandiamo per una presentazione più completa della storia dell'eugenismo prima del 1945, in particolare nelle sue espressioni europee non-fasciste qui tralasciate. L'imbarazzante brano ricordato è stato commentato nel dopoguerra anche da parte comunista; un marxista francese scrive in particolare, quasi per scusarlo: «Nel testo di Riazanov, l'allusione alla preservazione della razza può far sorridere, ma forse bisogna ricordare il livello sanitario medio dell'Unione Sovietica dell'epoca, lo stato di carestia in cui essa vi è trovata per molti anni» (Emile Copfermann, "Sexualité et répression", in Partisans, Ottobre-Novembre 1966, pag. 70).
(254) Yves Christen, "L'eugenisme. Prospective actuelles", Nouvelle Ecole n. 14 del gennaio-febbraio 1971. Merita di essere citato il fatto che all'epoca Jean-Jacques Mourreau aveva venticinque anni, e Christen, che aveva appena concluso un Master in genetica, biochimica e biologia animale, ventitré!
(255) Citato da John Cavanaugh-O'Keefe "The Root of Racism and Abortion: An Exploration of Eugenics"
(256) Gilbert Meilaender, "Designing Our Descendants", in First Things, gennaio 2001.
(257) Ramez Naam, More than Human. Embracing the Promise of Biological Enhancement, Broadway 2005 [sito collegato], pag. 166.
(258) Albert Jacquard, Elogio della differenza, op. cit., pag. 98 [edizione parziale Web].
(259) Sembra suggestivo immaginare che l'interdizione rituale riguardante il maiale, simbolo dell'allevamento a scopi alimentari, possa apparentarsi con la più generale condanna o diffidenza d'ordine morale nei confronti dei portati della rivoluzione neolitica.
(260) Ad esempio, nel caso dei cammelli, dove tale selezione umana è molto più antica, la stessa capacità di accoppiarsi e partorire senza un "aiuto" umano è a quanto pare oggi del tutto eccezionale. Cfr. John Reader, Africa, Mondadori, Milano 1997.
(261) Cfr. Ronald A. Fisher [alias], The Genetical Theory of Natural Selection, Clarendon Press, Oxford 1930 (ult. ed. Oxford University Press, Oxford 2000).
(262) In realtà, spettacolari quanto risalenti. Il "tipico frutto africano", la banana, innanzitutto è frutto di un'importazione umana (in particolare dal sud-est asiatico) nell'ambiente ecologico e climatico parzialmente differente del Continente Nero, e in secondo luogo in tutte le sue varietà commestibili è... priva di semi e partenocarpica (ovvero, i frutti sono prodotti da fiori femminili non impollinati), cosa che impedisce completamente la sua riproduzione se non per talea, processo che non può ovviamente avvenire in natura. Cfr. John Reader, L'Africa, op. cit., pag. 250. Niente banani, perciò, senza un contadino che li abbia piantati.
(263) Gli scavi di Atapuerca suggeriscono per altro la presenza (in Europa!) di individui morfologicamente molto simili all'Homo sapiens, e probabilmente appartenenti alla nostra specie, sin da settecento o ottocento milioni di anni fa. Cfr. Maurizio Blondet, L'uccellosauro ed altri animali,Edizioni Effedieffe, Milano 2002.
(264) Per le ovvie conclusioni dietologiche, nutrizionistiche e persino mediche che pare lecito trarne, cfr. Loren Cordain, The Paleo Diet: Lose Weight and Get Healthy by Eating the Food You Were Designed to Eat, Willey, New York 2001; Michael Eades, The Protein Power, Bantham, New York 1997; Robert C. Atkins [alias], The Age-Defying Diet, St. Martin Press, Baltimora 2003. Vedi anche Jerry Brainum, "La dieta paleolitica", in Olympian News.
(265) Ciò è tanto più significativo stante la possibilità dei loro membri di scegliere cosa mangiare, e i fenomeni di assuefazione e tolleranza (legati al metabolismo dell'insulina) che il consumo di amidi e zuccheri tende a provocare negli esseri umani, e che tendono perciò a mantenerlo ed incrementarlo ove non si controllino deliberatamente. Cfr. Robert C. Atkins [alias], Dr. Atkins' New Diet Revolution, ult. ed. Evans 2003 (versione italiana: La dieta Atkins. Gli insospettabili vantaggi di un'alimentazione proteica, Mondadori, Milano 2004).
(266) Vedi Genevois, "Les nouveaux blés et la révolution verte", in Journal d'agriculture et botanique appliquée, 1, 2, 3, 1975, tomo XXII, pagg. 47-55.
(267) Affronta ad esempio l'argomento da questo punto di vista Enzo Caprioli, in "Cibo geneticamente modificato o scontro tra civiltà?", l'Uomo libero n. 55.
(268) Scrive Spengler già negli anni trenta: «Ancor oggi, che assistiamo alla fase conclusiva di questo triviale ottimismo, tali sciocchezze ci fanno pensare all'orribile noia, al taedium vitae, che la semplice lettura di simili idilli diffonde nell'anima; in realtà, se si avverasse anche soltanto in parte questa previsione, l'umanità verrebbe spinta a massacri e suicidi in massa» (Ascesa e declino della civiltà delle macchine, op. cit., pag. 37, ult. ed. italiana con il titolo L'uomo e la macchina, versione originale: Der Mensch und die Technik. Beitrag zu einer Philosophie des Leben).
(269) Albert Jacquard, Elogio della differenza, op. cit., pag. 118 [edizione parziale Web].
(270) Giovanni Monastra, "Maschera e volto" degli OGM, op. cit.
(271) Erik P. Eckholm, Disappearing Species: The Social Challenge, Worldwatch Institute, Washington D.C. 1978, pag. 6; vedi anche Edward O. Wilson, The Diversity of Life, Harvard University Press, Cambridge 1992, pag. 280.
(272) In realtà, come vedremo nel seguito, è molto probabile che arriveremo alla capacità di creare nuove specie prima di capire veramente in che modo la nascita di nuove specie avvenga (o almeno sia avvenuta) in natura. Il problema naturalmente non si pone per i fondamentalisti americani, versione "letteralista", per cui se l'idea di creare nuove specie è una pura bestemmia, quelle esistenti oggi sono tutte apparse più o meno contemporaneamente dalla bacchetta magica di Jahvé nei sei giorni descritti dalla Genesi... D'altronde, ciò che sappiamo con certezza è invece proprio il fatto che le specie viventi non sono apparse né in sei giorni, né in seicento anni, ma praticamente in tutto il corso della vita sulla Terra; ed inoltre sappiamo, a partire dal famoso esperimento di Pasteur [alias], che tutti gli esseri viventi, e tanto più gli esseri viventi superiori, discendono da altri esseri viventi, senza alcuna "generazione spontanea" da materia inerte (nullum vivum nisi e vivo). Ciò implica in tutta ovvietà che le "nuove" specie debbano essere derivate in qualche maniera da specie preesistenti; cosa del resto confermata dalla compresenza in specie diverse, in gradi differenziati, di caratteri simili e ricorrenti, che pure sono privi di particolare valore adattativo rispetto alle possibili alternative, ma sono coerenti con la descrizione del mondo vivente e della storia naturale in termine di ceppi, rami e stirpi. Altra questione è poi il fatto che la "nuova sintesi" neodarwiniana, basata unicamente su selezione e micromutazioni casuali, sia oggettivamente insoddisfacente nella sua capacità esplicativa, in particolare sotto il profilo matematico. Recenti, rivoluzionarie scoperte di tipo prettamente teorico sulla capacità di meccanismi elementari di generare gradi arbitrari di complessità sono d'altronde state applicate in modo molto interessante alla evoluzione del vivente. ad esempio da Stephen Wolfram, A New Kind of Science, Wolfram Inc., 2002 [versione Web], in particolare nella sezione "Fundamental Issues in Biology". Ciò pare rendere del tutto superato il problema che ha affannato per tanto tempo darwinisti ed antidarwinisti, ovvero la complessità, varietà ed adattamento delle specie viventi (con rispettivo ricorso "al caso e alla necessità" di Jacques Monod [alias], o al deus ex machina dell'intelligent design dei fondamentalisti): che la complessità debba essere frutto di un meccanismo o di una volontà altrettanto complessi è solo frutto di un pregiudizio.
(273) Le varietà di vitigno che danno vita all'amplissima gamma di vini oggi prodotti al mondo come noto non sono specie diverse (con pochissime eccezioni, come quella utilizzata per il Lambrusco, si tratta sempre e invariabilmente di Vitis vinifera) e neppure razze, ma... cloni di singoli individui, originariamente prodotti tramite incroci artificiali e poi costantemente replicati. Ogni singola bottiglia di Müller-Thurgau proviene da talee della pianta originaria creata da Müller e da Thurgau, e le differenze dipendono unicamente dal suolo in cui è stata piantata, dal clima, dall'annata, e dalle tecniche di coltivazione e vinificazione del relativo produttore.
(274) Non è un caso che lo spettro di Frankenstein (l'omonimo racconto di Mary Shelley [versione originale, versione originale Web], ricordiamo, era sottotitolato Il moderno Prometeo), venga regolarmente agitato, insieme con quello "nazista", come mito incapacitante relativamente a qualsiasi tipo di applicazione del genere; siano le possibili applicazioni poste in atto a fini eugenetici o meno, rientrano comunque nell'ambito di un ampliamento di quel "dominio dell'uomo su se stesso" che la tendenza dominante vuole teoricamente abolire, o almeno costantemente denunciare e colpevolizzare. Cfr. l'epiteto di "frankenfood" per gli OGM a scopo alimentare.
(275) Hervé Kempf, La revolution biolithique. Humains artificiels et machines animées, op. cit., pag. 8.
(276) Hervé Kempf, La revolution biolithique. Humains artificiels et machines animées, op. cit., pag. 211.
(277) Hervé Kempf, La revolution biolithique. Humains artificiels et machines animées, pag. 212.
(278) Secondo Jeremy Rifkin, come dalla sponda opposta secondo Guillaume Faye, sussiste una convergenza culturale più profonda, che vede l'ambiente ecologico e lo stesso essere vivente considerati come sistemi cibernetici, e nel caso dell'essere vivente il DNA come il suo software, con conseguente sforzo di sviluppare tecniche appunto a partire da questo approccio. Esistono d'altronde livelli ulteriormente avanzati, che disegnano a lungo termine una possibile convergenza dell'ingegneria genetica e più in generale del biologico con l'ingegneria informatica, molto al di là dei primi rozzi esperimenti grazie a cui ad esempio Il Sole-24Ore ha dato il 26/02/2004 notizia di un collegamento effettuato con successo di terminali elettronici al cervello di una lampreda. Che si tratti della possibilità di effettuare il backup della personalità di un essere umano in un dispositivo artificiale, di sviluppare calcolatori basati su neuroni e/o molecole di DNA, o di interfacciare direttamente tessuti nervosi con dispositivi e sensori di natura arbitraria, tale tendenza va sicuramente nel senso di attenuare i confini tra l'organismo e il contesto in cui si trova ad operare, così come quelli tra i sistemi biologici e sistemi di altro genere, ad esempio digitali.
(279) Jeremy Rifkin, Il secolo biotech, op. cit., pag. 35.
(280) «Wo aber Gefahr ist, wächst das Rettende auch» (da Patmos [versione Web], poesia contenuta ad esempio, con traduzione a fronte, , a pag. 314 di Friedrich Hölderlin, Tutte le liriche, Mondadori, Milano 2001). Per la verità, il richiamo a questi due versi del poeta tedesco è almeno in un certi circoli ormai un po' inflazionato, essendo divenuti una della citazioni preferite di Heidegger, e tramite questo, di Alain de Benoist.
(281) Brian Alexander, Rapture: How Biotech Became the New Religion. A Raucous Tour of Cloning, Transhumanism, and the New Era of Immortality, op. cit., pag. 25.
(282) Ibidem, pag. 33.
(283) Richard Dawkins, "Son of Moore's Law", in John Brockman, The Next Fifty Years, Science in the First Half of the Twenty-First Century, Vintage Books, New York 2002, pag. 146.
(284) Bishop , Waldholz, Genome. The Story of the Most Astonishing Scientific Adventure of Our Time: the Attempt to Map All the Genes in the Human Body, Simon & Schuster, New York, 1990, pag. 203.
(285) È interessante constatare che Francis Crick [alias, alias], che ottenne nel 1962 il Nobel per le sue ricerche sul DNA, era un eugenista risoluto, al punto da dichiarare: «Nuove definizioni legali della vita e della morte sono necessarie, se non si vuole che l'esplosione demografica ponga problemi di qualità oltre che di quantità. Per esempio, si potrebbe immaginare una nuova definizione di nascita, posticipandone la data a due giorni dopo il parto. Ciò permetterebbe di esaminare i neonati, che non sarebbero ancora considerati esseri umani nel pieno senso del termine, e di amministrare l'eutanasia a quelli che siano nati con una tara o una malformazione. [...] Le mie idee così espresse implicherebbero una rivalutazione completa della vita umana stessa. Io non credo a una parola del punto di vista tradizionale secondo cui tutti gli uomini
nascono uguali e sono sacri» (in Tribune médicale, 21/11/1970).
(286) McKusick, "Mapping and Sequencing the Human Genome", in New England Journal of Medicine, vol. 320, 1989, pag. 912.
(287) Cfr. Claudia Di Giorgio, "Completata la sequenza del genoma umano" in La Repubblica, 06/04/2000.
(288) Abbiamo d'altronde scoperto nel frattempo che sequenziare interamente il DNA di un organismo non ci dà ancora l'intera mappa genetica di un organismo. Per la recente scoperta dell'importanza del codice "epigenetico" e la famosa storia dell'agnello "callipigio" chiamato Solid Gold per i suoi abbondanti quarti posteriori, che pure i genetisti non riuscivano a riprodurre, cfr. W. Wayt Gibbs, "Il genoma invisibile. Oltre il DNA", in Le Scienze, Gennaio 2004, n. 425, pag. 82 [versione originale Web], nonché Beck e Alexander, The Epigenome. Molecular Hide and Seek, Wiley, New York 2003.
(289) Secondo la legge di Moore, sempre rispettata dal 1965 quando fu per la prima volta formulata, la potenza di calcolo degli elaboratori è destinata a raddoppiare (o, a parità di potenza, il suo prezzo di mercato a dimezzare) ogni diciotto mesi. Le profezie rispetto a vari "tetti" che la fisica dei materiali avrebbe ad un certo punto imposto sono state finora aggirate con vari accorgimenti.
(290) Richard Dawkins, "Son of Moore's Law", , in John Brockman, The Next Fifty Years, Science in the First Half of the Twenty-First Century, op. cit. In realtà, come già notato con riguardo alla tesi della "stretta parentela" genetica tra le razze umane, una simile parentela esiste al 98% con le scimmie superiori, all'85% con i topi, e al 50% con il moscerino della frutta caro ai genetisti sperimentali (cfr. Gregory Stock [alias], Redesigning Humans, op. cit., pag. 16, trad. italiana: Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005).
(291) Cfr. la Solexa Inc. Citati in Gregory Stock [alias], Redesigning Humans, op. cit., pag. IX (Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005).
(292) In effetti, una grande sorpresa apportata dal completamento del Progetto Genoma è che i geni umani non sono cento o centocinquantamila come previamente ipotizzato, ma circa trentamila. Ciò rende le cose più complicate, non più semplici., perché indica che una parte rilevante parte dell'informazione è immagazzinata non nel singolo gene, ma nell'astronomico numero di interazioni tra di essi, nonché nei meccanismi epigenetici già ricordati.
(293) Sul tema della possibile irriducibilità computazionale dei sistemi fisici e biologici, cfr. Stephen Wolfram, A New Kind of Science, op. cit. [versione Web], in particolare lla sezione "Computational Irreducibility".
(294) Cfr. il "Lucy Genome Project", discusso in Richard Dawkins, "Son of Moore's Law", in , in John Brockman, The Next Fifty Years, Science in the First Half of the Twenty-First Century, op. cit., concernente la ricostruzione del genoma degli australopitechi. Come nota Dawkins, un componente essenziale dell'antropocentrismo umanista è l'avvenuta estinzione delle altre specie della famiglia Homo. Come distinguere lo "specieismo" dal "razzismo", una volta che un australopiteco camminasse in mezzo a noi?
(295) Gregory Stock [alias], Redesigning Humans, op. cit., pag. X (Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005).
(296) Riecheggia recentemente i termini del problema di una medicina "razzialmente consapevole" l'articolo recentemente apparso in italiano di Bamshad e Olson, con il titolo demenziale di "Esistono le razze?" su Le Scienze n. 425, Gennaio 2004, pag. 48 [versione originale Web].
(297) Guillaume Faye, Archeofuturismo, op. cit., pag. 99 [edizione Web]
(298) Jeremy Rifkin, Il secolo biotech, op. cit., pag. 39.
(299) In particolare, viene prima utilizzato un "enzima di restrizione" per estrapolare le molecole di DNA da un organismo. Dopo che il DNA è stato diviso, si separa un piccolo segmento di materiale genetico, un singolo gene o una sequenza di geni ravvicinati. Successivamente, si taglia un segmento dal corpo di un plasmide, che è un corto frammento di DNA batterico. Sia il segmento originario che il segmento del plasmide presentano la capacità di "attaccarsi" all'estremità, e il plasmide così modificato viene utilizzato come vettore per trasportare il DNA in una cellula ospite, che comincia a duplicarlo, producendo cellule con lo stesso DNA modificato.
(300) Ritchie-Calder, "Retailing the Tailor", in Encyclopaedia Britannica, Londra 1976.
(301) In effetti, uno degli aspetti più affascinanti e curiosi dei trapianti genetici è il come lo stesso gene possa conservare un'espressività simile non solo al di fuori della specie, della famiglia o del genere di appartenenza, ma addirittura attraverso i phyla, o dal regno animale al regno vegetale e viceversa.
(302) La tecnica ipotizzata in un film come Jurassic Park (USA, 1993) – rimarchevole per gli effetti speciali quanto intriso della maledizione che la religione del regista leva da sempre contro simili tentazioni (cfr. la leggenda del Golem) – è quella dell'estrazione di segmenti di DNA dal sangue di dinosauro rimasto nel pungiglione o nel tratto digestivo di insetti preistoriche che si sono ritrovati incapsulati nell'ambra vegetale, e il loro innesto nelle blastule di uova di struzzo.
(303) Come vedremo, d'altronde, questa "esplosione" è tutt'altro che diffusa e simmetrica, e la sua geografia riflette preoccupanti trend di carattere generali, tali per cui, ad esempio, mentre le aziende farmaceutiche europee hanno a malapena raddoppiato il proprio budget nell'area "ricerca e sviluppo" dal 1990 al 2000, le aziende americane l'hanno quintuplicato, così da raggiungere, già all'inizio di questo secolo, 24 miliardi di dollari, così che oggi dei dieci farmaci più venduti otto sono americani. Non solo. Nel 1990 i gruppi europei del settore spendevano il 73% dei loro stanziamenti per la ricerca in Europa, dieci anni dopo tale percentuale era già ridotta al 59%, di nuovo con gli Stati Uniti quali primi beneficiari di tale trasferimento degli investimenti (vedi al riguardo David W. Versailles, Valérie Merindol, Patrice Cardot, La Recherche et la Technologie, Enjeux de Puissance, Economica, Parigi 2003). Tale situazione crea a maggior ragione un ritardo specifico nelle "tecnologie di rottura", come le biotecnologie, rispetto alla ricerca nel campo delle "me-too drugs", basata su varianti di molecole note.
(304) Vedi O' Toole, "In the Lab: Bugs to Grow Wheat, Eat Metal", in Washington Post, 18/01/1980, pag. A1.
(305) Jeremy Rifkin, Il secolo biotech, op. cit., pag. 44. Molti degli esempi che seguono sono ricordati nel libro citato.
(306) Robert J Frederick, Margaret Egan, "Environmentally Compatible Applications of Biotechnology. Using Living Organisms to Minimize Harmful Human Impact on the Environment", in Bioscience, primavera 1994, pag. 531.
(307) E' stato calcolato che nel 1996 solo negli USA venivano già prodotte 200 milioni di tonnellate di rifiuti pericolosi, e venivano spesi a livello mondiale 1700 miliardi di dollari per lo smaltimento di sostanze tossiche. Ciò dà un'idea dell'importanza strategica della questione, esaminata ad esempio da Parkin, "Bioremediation. A Promising Technology", in Frederick B. Rudolph, Larry V. McIntyre, Biotechnology, Science, Engineering and Ethical Challenges for the Twenty-First Century, Joseph Henry Press, Washington D.C. 1996.
(308) Cfr. Gabriele Marcotti, "A Harvest of Heavy Metal", in Financial Times, 08/05/1998, pag. 16.
(309) Michael Fumento, Bioevolution. How Biotechnology Is Changing the World, op. cit., pag. 313.
(310) Dato citato in Enzo Caprioli, "Cibo geneticamente modificato o scontro tra civiltà?", art. cit.
(311) Di nuovo da Jeremy Rifkin, Il secolo biotech, op. cit.
(312) Lawrence Busch et al., Plants, Power and Profit. Social, Economical and Ethical Consequences of the New Biotechnologies, Basil Blackwell, Cambridge, MA, 1991, pag. 173.
(313) "Tricking Cotton to Think Lab is Home, Sweet Home", Washington Post, 29/05/1988, pag. A3.
(314) Martin H. Rogof, Stephen I. Rawlins, "Food Security. A Technological Alternative", in Bioscience, Maggio 1994, pag. 800-807.
(315) Per un riassunto del dibattito scientifico e politico al riguardo, vedi Zuccato e Fanelli, "Processo ai cibi OGM", in Le Scienze, n. 425, gennaio 2004, pag. 56.
(316) Cfr. Giovanni Monastra, "Maschera e volto" degli OGM, op. cit. In effetti, la "natura", per quanto possa essere considerata "madre e maestra", e in particolare il regno vegetale, offrono di per sé una vastissima gamma di veleni, sostanze allergizzanti, sostanze che distorcono il metabolismo umano, inducono dipendenza, alterano le percezioni, provocano patologie ben documentate, etc.
(317) L'isterismo che tale patologia, rara e di lunghissimo decorso, ha suscitato, non è estraneo alla percezione simbolica di un "sacrilegio" che sarebbe stato commesso nutrendo dei bovini con proteine animali – come se in natura le mucche si nutrissero di mangimi o fieno! Mentre l'origine del prione responsabile della malattia resta tuttora dubbia, giova notare che esattamente come gli esseri umani possono digerire il pane – pur non essendo i chicchi di frumento di per sé commestibili o parte della dieta naturale della specie – così gli erbivori sono fisologicamente e metabolicamente in grado di nutrirsi di carne, e talora in condizioni estreme lo fanno, ivi compreso mediante il ricorso al cannibalismo. Cfr. il comportamento delle pecore in Australia in periodi di grande siccità.
(318) E' giusto d'altronde osservare che la modifica genetica delle varietà coltivate, pur oggi orientata unicamente al profitto, non mira unicamente a superiori rese per ettaro o caratteristiche organolettiche (cioè gradevolezza per il consumatore), ma anche all'arricchimento ed integrazione dei fattori nutritivi in esse contenuti, o all'eliminazione dei componenti nocivi o tossici in esse presenti. In tal senso, l'ingegneria genetica tenta di "riparare" in qualche modo ai danni apportati dalla modifica delle abitudini alimentari seguita all'abbandono delle culture di caccia e raccolta a favore di alimenti ricchi di calorie, in particolare sotto forma di zuccheri complessi, ma poveri in micronutrienti e proteine.
(319) Vedi la campagna contro i "Frankenfoods" della potente Union of Concerned Scientists, associazione in realtà composta da ben pochi "scienziati" e pressoché unicamente da militanti ecologisti ed esponenti del movimento "bioetico".
(320) In Julianne Johnston, "FDA Official: Biotech Foods Safer than Hybridization", in AGB News, 13/10/2000.
(321) Enzo Caprioli, "Cibo geneticamente modificato: innovazione scientifica o scontro tra civiltà", art. cit.
(322) Michael Fumento, Bioevolution. How Biotechnology Is Changing the World, op. cit., pag. 200.http://www.dupont.com/
(323) Come ricorda lo stesso Giovanni Monastra ("Maschera e volto" degli OGM, op. cit., pag. 48) per fustigare i suoi "correligionari" di sinistra, a suo giudizio non abbastanza pronti nel denunciare le pratiche in tal senso quando hanno luogo in paesi non ancora completamente dominati dal capitalismo mondialista
(324) Sarà al limite necessario, e sufficiente, reprimere le frodi in commercio al riguardo, nonché assicurare l'informazione dei soggetti economici coinvolti e dei consumatori finali del prodotto.
(325) L'opposizione italiana "di destra" agli OGM risulta al tempo stesso demagogica e legata a radicati pregiudizi ideologici radicati. In questo senso, come nel citato pamphlet di Giovanni Monastra, evade del tutto il problema politico di fondo, a lungo termine, che la questione pone, per richiamarsi ad interessi immediati particolaristici, certo evidenti, ma che non possono trovare in tale prospettiva alcuna soluzione definitiva. Tale atteggiamento ricorda quello di chi, nel legittimo rifiuto di un'Unione Europea burocratica, mercantilista e impotente, oltre che priva di qualsiasi legittimazione popolare, cui preferirebbero la costituzione di un'entità politica sovrana in senso forte, si accontentano di resistere quanto più lungo possibile ad ulteriori trasferimenti di sovranità da parte dei vecchi Stati nazionali. Monastra, membro della commissione tecnico-scientifica sugli OGM del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, si fa così portavoce apertamente prevenuto di temi propagandistici di varia provenienza, senza curarsi troppo della loro portata e coerenza interna: "una varietà OGM ha danneggiato alcune farfalle"; "gli OGM non funzionano, ed anzi la scienza sbagliata e riduzionista alla loro base impedisce di modificare davvero gli organismi viventi"; "gli OGM sono sotto il controllo delle multinazionali perché non sanno riprodursi, e del resto non sono neanche biologicamente stabili", ma al tempo stesso "minacciano di sfuggire dalle gabbie e prendere il controllo del pianeta"; "i test sugli OGM andrebbero resi più severi", ma "la ricerca stessa sugli OGM andrebbe evitata, in quanto di per sé pericolosa, e comunque non può dirci nulla sulla sicurezza degli stessi"; "gli OGM sono impoveriti da un punto di vista nutritivo", ma "quelli come il Golden Rice che sono invece deliberatamente arricchiti sotto questo profilo sono inutili per ciò che riguarda la salute delle popolazioni che li utilizzano per rimediare a carenze alimentari", e "corrispondono alla creazione di un 'falso bisogno'". Anzi, a quest'ultimo proposito, il vero "livello scientifico" dell'esposizione, al di là dell'accumulo di dettagli tecnici più o meno "brillantemente esemplificati" per il volgo, è esemplificato dalla osservazione dell'autore, pure biologo ricercatore, secondo cui «la soia ha un alto valore proteico che, anche se non raggiunge quello delle proteine animali di uova e carne, lo può eguagliare se la si accompagna a cereali come pasta, pane e riso» (!). E' vero d'altronde che è idea propria di una "sapienza alchemica" cui l'autore non è evidentemente estraneo, e precisamente il tipo secondo cui il contenuto in oro di un dato miscuglio può aumentare se lo stesso è associato ad un altro dato miscuglio che di oro non ne contiene affatto.
(326) L'argomento è ripreso, anche se marginalmente, da Gianantonio Valli in "Le radici ideologiche dell'invasione", l'Uomo libero n. 52, nel capitolo su "La distruzione sociale e alimentare del Terzo Mondo".
(327) Jeremy Rifkin, Il secolo biotech, op. cit., pag. 186.
(328) La questione non si estende d'altronde di per sé alle varietà vegetali, già difendibili da lungo tempo anche in Italia attraverso una protezione brevettuale sui generis.
(329) La stessa possibilità di un'ingegneria genetica, e comunque anche delle tecniche tradizionali di ibridazione, selezione, etc., è condizionata dalla disponibilità di materiale su cui operare, che è... ridotta dalla medesima tendenza alla monocultura che da essa si sviluppa. Risulta perciò evidente l'importanza che ha la protezione della biodiversità, non solo nel senso di assicurarne la permanenza, attraverso banche dei semi, etc. ma anche nel senso della tutela dall'impossessamento altrui di quella che è una specifica risorsa della comunità che controlla il relativo territorio, alla stessa stregua delle risorse idroelettriche o di un giacimento minerario. Non a caso, in alcuni paesi della fascia equatoriale, la più ricca di materiale genetico selvatico, è in corso proprio oggi un'importante presa di coscienza politica, economica e culturale in questo senso.
(330) Eloquente in tal senso quanto è dato di leggere in David W. Versailles, Valérie Merindol, Patrice Cardot, La Recherche et la Technologie, Enjeux de Puissance, op. cit. Lo studio dà atto altresì della progressiva evoluzione ed integrazione, dal punto di vista dell'indipendenza e capacità di sopravvivenza di una comunità politica, del concetto di Difesa in quello di Sicurezza, ove l'aspetto militare tradizionale viene ad essere assunto in una prospettiva in cui in termini pratici rischia di diventare elusiva la differenza tra un'epidemia e un attacco batteriologico, tra una rappresaglia militare ed un atto di terrorismo, tra un embargo ed uno strangolamento tecno-economico effettuato con mezzi commerciali, tra un bombardamento e una catastrofe naturale.
(331) Riprendiamo gli esempi da Michael Fumento, Bioevolution. How Biotechnology Is Changing the World, op. cit., pag. 284.
(332) Anzi, la maggiorparte delle catastrofi ecologiche verificatesi in passato, ed ovviamente ancora possibili in futuro, non hanno neppure nulla a che fare con un intervento umano di qualsiasi tipo. Anche senza contare mutamenti climatici spontanei e catastrofi geologiche, la penetrazione ad esempio di specie estranee in nuovi habitat è un fenomeno che può verificarsi spontaneamente in natura, e che ha avuto talora conseguenze esplosive e devastanti sull'ecosistema preesistente, con buona pace dell'irenismo ecologista.
(333) Philip Ball, "Living Factories", in New Scientist, 03/02/1996, pag. 28-31.
(334) US Department of Defence, "Biological Defence Program", in Report to the Committee of Appropriation, House of Representative, 1986, menzionato tra l'altro da Jeremy Rifkin, op. cit.
(335) Deposizione di Douglas Feith al Subcomittee on Oversight and Evaluation dell'House Permanent Select Comittee on Intelligence, Agosto 1986. Chi si oppone agli OGM perché "tanto non funzionano", naturalmente non ha di che preoccuparsi...
(336) Riportato in Jeremy Rifkin, Declaration of a Heretic, Routledge & Kegan, Boston 1985, pag. 58.
(337) Ibidem, pag. 59.
(338) La vicenda è ricordata da Horlock, "The New Terror Fear. Biological Weapons, Detecting an Attack is Only The First Problem", in US News and World Report,
12/05/1997, pag. 36.
(339) Dickey, "His Secret Weapon. Iraq: Saddam Has a Big Germ-Warfare Arsenal", in Newsweek, 04/09/1995, pag. 34.
(340) La vicenda, mai chiarita, delle "lettere all'antrace" indirizzate in primo luogo contro il Senato americano, appare plausibilmente un episodio della stessa saga, nel clima post-11 Settembre e nell'accanita concorrenza successiva per accaparrarsi i ricchi budget della "sicurezza contro il terrorismo", oltre che eventualmente evitare la formazione di una commissione d'inchiesta sugli "attacchi aerei". Già ai tempi dell'amministrazione Reagan, comunque, per far fronte ad un immaginario "gap batteriologico" con l'allora Unione Sovietica, il Dipartimento della Difesa era riuscito a far passare al Congresso gli investimenti sulla guerra biologica dai 15 milioni di dollari del 1981 ai 90 milioni del 1987 (valori in moneta dell'epoca).
(341) Leonard A. Cole, "The Specter of Biological Weapons", in Scientific American, dicembre 1996, pag. 92.
(342) A cura di Bruce Alberts, William A. Wulf, Making the Nation Safer: the Role of Science and Technology in Countering Terrorism, National Academy Press 2002.
(343) Nel Luglio del 2002, ad esempio, Eckard Wimmer dell'Università di New York annunciò di aver ricreato in laboratorio il virus della poliomelite utilizzando le basi di DNA e la mappa che aveva ottenuto su Internet (cfr. J. Cello, A.V. Paul e E. Wimmer in Science n. 207, 2002, pag. 1016). Certo la maggior parte della popolazione oggi è vaccinata, ma come nota Martin Rees [alias], Il secolo finale. Perché l'umanità rischia di autodistruggersi nei prossimi cento anni, op. cit., pag. 62, non sarebbe stato affatto più difficile creare una variante tale da rivelarsi infettiva e letale.
(344) Tale teoria, che era stata attribuita ora a "maniaci della cospirazione" (i cosiddetti conspiracy nuts) americani, ora all'Ufficio Disinformazione del KGB, ha avuto a suo tempo una discreta diffusione, ed era stata echeggiata nella seconda metà degli anni ottanta, sia pure in forma dubitativa, da Eléments, la rivista più "impegnata" e "politicizzata" della Nouvelle Droite francese. Per quello che ne sappiamo potrebbe anche essere vera. Certamente le misure di sicurezza dell'epoca non erano un granché, e del resto l'AIDS, sia pure a costi e rischi molto elevati, si è rilevato un meraviglioso strumento di controllo sociale per la classe dirigente americana, sia sulle minoranze interne che sulle popolazioni dei paesi in via di sviluppo.
(345) Un'alternativa, valida solo per i batteri, è la cosiddetta "guerra antibatteriologica", ovvero lo sviluppo di agenti patogeni che attaccano specificamente gli organismi portatori dell'epidemia, e in particolari di virus cosiddetti "batteriofagi", che sono attualmente oggetto di ricerca anche a scopi più generali, ad esempio medici od agricoli. Cfr. Paroma Basu, "The New Fage", in Technology Review 17/07/2001. Le conclusioni riguardo alla sorte di chi possiede e non possiede la tecnologia relativa comunque non cambiano.
(346) Jeremy Rifkin, Il secolo biotech, op. cit., pag. 50.
(347) Da Christopher Helman, "Charlotte's Goat", in Forbes, 19/02/2001.
(348) Annuncia tra gli altri la lieta novella Luca Sciortino, in "Il primo animale transgenico da compagnia", Le Scienze, Gennaio 2004, n. 425, pag. 24. Ma più recentemente pare che analoghi esperimenti a Taiwan abbiano condotto alla creazione di... maiali fluorescenti, che si ipotizza possano rilvarsi utile per studiare varie malattie data la facilità di individuare il materiale di provenienza da tali maiali, appunto fluorescente, senza esami invasivi. Vedi Lester Haines "Boffins breed fluorescent pig" in The Register, 12/02/2006.
(349) Ann Thayer, "Firms Boost Prospects for Transgenic Drugs", Chemical and Engineering News, 26/98/1996, pag. 23; Johannes, "Biotech Cow Is Created to Produce Drug", Wall Street Journal, 09/04/1997, pag. B1.
(350) Martha Groves, "Transgenic Livestock May Become Biotech's Cash Cow", Los Angeles Times, 01/05/1997, pag. A12.
(351) Smith et al., "How Genetics May Multiply the Bounty of the Sea", Business Week, 15/12/1985, pag. 94.
(352) Per una panoramica, risalente però ormai a quasi dieci anni fa, Holmes, "Blue Revolutionaries", New Scientist, Dicembre 1996, pag. 82. Da allora, il ritmo delle scoperte e delle applicazioni industriali è accelerato esponenzialmente.
(353) Esempi citati in Rick Weiss, "Mutant Bugs: Genetically Altered Heroes or Spineless Menaces?", Washington Post, 18/12/1995, pag. A3.
(354) Curiosamente, il creatore di Dolly, Ian Wilmut [alias], è un oppositore radicale della clonazione umana, ed ancor più dell'ingegneria genetica, che con la sua opera ha ampiamente contribuito ad avvicinare. Cfr. Gregory Stock [alias], Redesigning Humans, op. cit., pag. 6 (trad. italiana: Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005).
(355) Il primo annuncio della nascita di un clone umano è stato diffuso alla fine del 2002 da Clonaid, la società già citata vicina alla setta dei Raeliani, ma la sua credibilità è stata messa in discussione dopo che la setta ha deciso di non dare agli esperti accesso ad Eva, la bambina asseritamente clonata dalla madre (vedi "Clonazione, abbandona il 'garante' dei raeliani", Corriere della Sera 07/01/2003). Ulteriori annunci sono seguiti però da parte di personaggi meno folkloristici, come il genetista Panos Zavos del Kentucky, che riferisce di aver impiantato su una donna di trentacinque anni un embrione ottenuto mediante clonazione dalle cellule della pelle del marito sterile ("Annuncio choc: impiantato un embrione clonato", Corriere della Sera 17/01/2004). Nel frattempo, mentre molte legislazioni nazionali si affannano a mettere fuori legge la sperimentazione umana, sta diventanto banale, ed è entrata nella sua fase commerciale, la clonazione di singoli animali da compagnia, servizio di lusso, e tuttora molto costoso, che lavora sulla durata molto inferiore della vita di un gatto o di un cane rispetto a quella di un essere umano. Tale servizio, se non può ovviamente restituire alla sua padrona l'adorato Fido o o l'amato Fuffy può d'altronde fornire un gemello monozigote molto più giovane, contribuendo così alla realizzazione di come un clone non sia niente di particolarmente più mostruoso di un gemello. Anzi, pare stia nascendo un business relativo alla preservazione del DNA di "exceptional pets" per un'eventuale clonazione futura, cfr. il sito della Genetic Savings & Clone. Benché paia che numerosi animali clonati siano già in circolazione negli Stati Uniti, la prima conferma accademica di una clonazione canina riguarda Snuppy, prodotto da un'ormai famosa équipe coreana all'avanguardia anche nella ricerca sulle cellule staminali umane (vedi ad esempio Rick Weiss, "In a Furry First, A Dog Is Cloned In South Korea", in Washington Post, 04/08/2005; Rowan Hooper, "World’s first canine clone is revealed"). Benche la lobby mondiale anticlonazione, supportata tra l'altro in questo caso da chi non vede di buon occhio la leadership coreana nel settore, sia riuscita a coinvolgere Woo Suk Hwang e il suo gruppo in vari "scandali" (non ultimo, quello di aver usato, orrore!, le uova di alcuni membri femminili del team), la notizia è stata confermata (cfr. ad esempio Lester Haines, "Koreans did actually clone dog, panel declares", in The Register, 10/01/2006). Infine, il 19 Maggio 2005 viene rilasciata la conferma ufficiale che un'équipe di Newcastle e quella già citata di Seoul hanno contemporaneamente realizzato la clonazione "ufficiale" di embrioni umani ricavati da pazienti che sperano di potersi valere a scopo terapeutico delle relative cellule staminali (vedi ad esempio "Clonato un embrione umano in Inghilterra", in Il Corriere della sera, 20/05/2005).
(356) Gina Kolata, "Lab Yields Lamb with Human Gene", New York Times, 25/07/1997, pag. A18
(357) Brian Alexander, Rapture: How Biotech Became the New Religion. A Raucous Tour of Cloning, Transhumanism, and the New Era of Immortality, op. cit., pag. 124.
(358) Brian Alexander, Rapture: How Biotech Became the New Religion. A Raucous Tour of Cloning, Transhumanism, and the New Era of Immortality, pag. 128.
(359) Leon R. Kass, Life, Liberty, and the Defense of Dignity: The Challenge for Bioethics, Encounter Books., San Francisco 2002.
(360) "Il bioetico cattolico", intervista a cura di Franca Porciani in Il Corriere della Sera, art. cit.
(361) Cfr. la United Nations Declaration on Human Cloning. E' importante rilevare che se la dichiarazione dell'ONU è intitolata alla clonazione umana, o la legge Cè (parimenti qui riportata in calce) alla "procreazione medicalmente assistita", entrambe si occupano anche di tutt'altro, e di questioni di portata molto più generale anche se meno immediata, dall'eugenetica alla manipolazione della linea germinale.
(362) Testualmente riportato da Brian Alexander, Rapture: How Biotech Became the New Religion. A Raucous Tour of Cloning, Transhumanism, and the New Era of Immortality, op. cit., pag. 140.
(363) Ibidem.
(364) Rahul K. Dhanda, Guiding Icarus : Merging Bioethics with Corporate Interests, Wiley-Liss 2002.
(365) Bill McKibben, Enough : Staying Human in an Engineered Age, ult. ed. Owl Books, 2004. Interessanti (e convergenti nelle conclusioni, sia pure da una prospettiva opposta, con quanto sostenuto nel presente saggio) sono anche le opere precedenti dell'autore, ed in particolare The End of Nature, che pure risale al 1987 (ult. ed. Anchor, 1997).
(366) Ramez Naam, More than Human. Embracing the Promise of Biological Enhancement, op. cit. [sito collegato], pag. 227.
(367) Scandalo ha d'altronde sollevato l'ipotesi recenti che differenti razze umane presentino gradi di compatibilità diversi con organi provenienti da specie diverse: in particolare secondo alcuni ricercatori americani i negroidi con le scimmie superiori e i "caucasici" (gli europoidi) con il maiale. Cfr. Le Scienze, Marzo 2004, n. 427, pag. 32. La riuscita clonazione di embrioni umani a scopo terapeutico toglie però appunto importanza alla questione: l'ideale resta sempre un organo clonato dal paziente stesso...
(368) Cfr. Hervé Kempf, La revolution biolithique. Humains artificiels et machines animées, op. cit., pag. 30. Vedi anche Lucy Sherriff, "Scientists hail stem cell breakthrough", in The Register 20/05/2005 (anche se i risultati saranno successivamente ridimensionati).
(369) Citato da Harriet Swaine (ed.), The Big Questions in Science, Jonathan Cape, Londra 2002, pagg. 159 e segg.
(370) Richiama l'ipotesi, tra gli altri, Martin Rees [alias], Il secolo finale. Perché l'umanità rischia di autodistruggersi nei prossimi cento anni, op.cit., pag. 23. Il tema è d'altronde particolarmente trattato da Ray Kurzweil, in The Age of the Spiritual Machines, op. cit., The Singularity Is Near. When Human Transcend Biology, op. cit. [sito collegato], e soprattutto Fantastic Voyage. Live Long Enough to Live Forever, Rodale Books, New York 2004 [sito collegato]. Secondo l'autore, una persona già oggi vivente che fosse davvero motivata avrebbe almeno qualche chance di estendere la sua esistenza attraverso quelli che definisce i tre "ponti". Il primo, basato, sull'attuale migliore conoscenza della biochimica e del metabolismo umani, nonché dall'integrazione tra la prevenzione e le medicine alternative, avrebbe come meta quella di conservare il soggetto in discreta forma per i prossimi trenta o quarant'anni, più che sufficienti per consentire l'affermazione delle terapie anti-invecchiamento basate sulle cellule staminali, sull'intervento genetico e, se necessario, sul trapianto di organi clonati. A sua volta, tale secondo ponte dovrebbe consentire facilmente di guadagnare ulteriori venti o trent'anni utili al perfezionamento della riparazione e ripristino dei tessuti e degli organi (o il loro miglioramento) tramite la nanotecnologia. Quest'ultima infine rappresenterebbe il terzo ponte in grado di mantenere in vita l'interessato sino al momento in cui non gli diventi possibile realizzare "copie di sicurezza" di se stesso, o trasferirsi su altri "supporti", biologici, digitali e misti, eventualmente anche virtuali e "distribuiti, a piacere.
(371) Sandra Blakeslee, "Brain Signals Shown to Move a Robot Arm", in New York Times, 16/11/2000, pag. A20.
(372) Anne Eisemberg, "A Chip Mimicking Neurons Firing Up the Memory", in New York Times, 20/06/2002, pag. A7.
(373) C.Q. Maquire, "Implantable Brain Chips? Time for Debate", in Hastings Center Report, 01/01/1999.
(374) Hervé Kempf, La revolution biolithique. Humains artificiels et machines animées, op. cit., pag. 144.
(375) Gregory Stock [alias] (cfr. Redesigning Humans, op. cit., pag. 19 e segg., trad. italiana: Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005), in contrasto con le visioni già più volte citate di Ray Kurzweil, ritiene d'altra parte molto improbabile che la tendenza sia verso una trasformazione degli uomini in cyborg, e la sostituzione o integrazione di organi sani con organi "meccanici", e riprende la distinzione di Alexander Chislenko tra il cyborg, che inclusw stabilmente le macchine nel proprio corpo, e il fyborg (o functional cyborg), in cui tale fusione non è fisica, ma funzionale. Chi si farebbe sostituire gli arti inferiori con protesi in grado di correre a cinquanta chilometri all'ora quando una motocicletta ottiene facilmente lo stesso scopo? Perché impiantare nella cornea un visore agli infrarossi, quanto un visore esterno è parimenti efficace in termini di visione notturna? A che scopo ricorrere ad una qualche rudimentale interfaccia neuronale, quando i nostri sensi sono stati affinati come meccanismo di input e programmazione cerebrale da milioni di anni di evoluzione? D'altronde, una otturazione dentaria o un'anca artificiale sono certamente preferibili ad una dentiera e a una stampella. In via generale, però, il principale rivale della tecnica relativamente rozza dell'incremento umano o animale tramite l'incorporazione di dispositivi artificiali è esattamente l'ottenimento degli stessi risultati attraverso una modifica della nostra biologia. Così, il trend che si disegna va molto più nel senso di rimpiazzare le macchine con sistemi biologici, o misti, o che simulino alcune caratteristiche degli organismi viventi, che nel senso di incorporare stabilmente dispositivi artificiali nel corpo degli uomini e di altri esseri viventi. La cosa d'altronde non è assolutamente sicura: la penetrazione esplosiva della chirurgia estetica addittiva o della cosiddetta body modification, dalle unghie e capelli artificiali per arrivare agli impianti sottocutanei, ai tatuaggi alle marchiature a fuoco al piercing (che del resto espandono tradizioni molto antiche) lascia pensare che la modificazione estetica e funzionale del corpo sano anche con elementi non-biologici incontra in fondo resistenze meno forti di quanto immaginabile, almeno in alcuni strati della popolazione. La distinzione è inoltre destinata a scomparire al limite se la nanotecnologia dovesse davvero acquisire la capacità di sostituire, riparare, costruire o rimpiazzare ogni singola cellula e tessuto del corpo umano molecola per molecola (cfr. Josh Storrs Hall, Nanofuture: What's Next For Nanotechnology, Prometheus Books, 2005).
(376) Rodney Brooks, "The Merger of Flesh and Machines", in John Brockman, The Next Fifty Years, op. cit., pag. 186.
(377) Citato in Brian Alexander, Rapture: How Biotech Became the New Religion. A Raucous Tour of Cloning, Transhumanism, and the New Era of Immortality , op. cit., pag. 231. Uno dei fondatori della Sun Microsystems, Bill Joy, ha d'altronde assunto in un famoso articolo ("Why the future doesn't need us", in<b class="small"><a href="http://www.amazon.fr/exec/obidos/tg/browse/-/603020/18/ref=br_lpsp_pg/403-1370053-3763628?">18</a></b> Wired, Aprile 2000) una posizione del tutto opposta. Joy condivide le posizioni di Kurzweil e Moravec in materia di "GNR" (genetica, nanotecnologia, robotica), ma proprio per questo ritiene che i governi debbano forzare quello che chiama eufemisticamente "relinquishment", ovvero non solo l'abbandono di ogni idea di utilizzarle, ma la «limitazione dello sviluppo di tecnologie che sono troppo pericolose, attraverso la limitazione del nostro perseguimento di certi tipi di conoscenza» mediante una regolamentazione intrusiva, preventiva e ferreamente centralizzata, da affidare innanzitutto al governo federale americano (!). Ciò che è singolare di tali posizioni è che le stesse siano state propagandate su una rivista che si occupa di tecnologia, da parte di un imprenditore già attivo in una delle più grandi società di informatica del mondo.
(378) Rick Weiss, "Human Cromosome Transplanted into Mice", Washington Post, 30/05/1997, pag. A1.
(379) Rick Weiss, "Artificial Human Cromosome That Replicates Developed in Lab", Washington Post, 01/04/1997, pag. A1.
(380) Tale tecnica può sembrare esoterica, ma viene ipotizzato che i virus siano o siano stati responsabili anche in natura di un certo grado di scambio genetico tra specie tra loro non diversamente apparentate (per definizione non sessualmente interfeconde), e che tale fenomeno abbia svolto un ruolo significativo nel processo evolutivo.
(381) Jeremy Rifkin, Il secolo biotech, op. cit., pag. 62. Ricordiamo che il libro è stato scritto nel 1998!
(382) Gregory Stock [alias], Redesigning Humans, op. cit., pag. 76 (trad. italiana: Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005).
(383) In particolare e tra l'altro per la sindrome di Down, la fibrosi cistica, la corea di Huntington [alias], la sindrome di Tay-Sachs e l'anemia falciforme.
(384) Il convegno, intitolato "Engineering the Human Germline" è stato organizzato il 20 Marzo 1998 dal Program on Science, Technology and Society, sotto gli auspici dello UCLA Center for the Study of Evolution and the Origin of Life, che ne ha anche pubblicato il Summary Report nel giugno successivo.
(385) Gregory Stock [alias], Redesigning Humans, op. cit., pag. 12 (trad. italiana: Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005).
(386) Daryl Macer et al., "International Perceptions and Approval of Gene Therapy", in Human Gene Therapy n. 6, pagg. 791-803. E' difficile, quanto alla distribuzione "polare" di Israele ed India, sfuggire alla conclusione di un'influenza significativa del contesto culturale e religioso dei due paesi, il secondo tuttora dominato da un politeismo di sia pure lontana matrice indoeuropea, e dalla visione dell'uomo che tale contesto determina. Uno studio comparativo tra USA e India riguardo le percentuali di approvazione delle tecniche di ingegneria genetica sull'uomo, con risultati del tutto analoghi a favore della seconda, pure paese certamente più "tradizionalista" e "religioso" del primo secondo le grossolane categorie illuministe, è quello del 2002 di Johns Hopkins Genetic and Public Policy Center e Princeton Survey Research Associates, Public Awareness and Attitudes about Reproductive Genetic Technology. Anche sotto questo profilo, pare che eventuali, velleitari divieti negli USA e per estensione in Europa occidentale avranno ben poco effetto sullo sviluppo delle tecniche in questione e sulla loro adozione da parte di vasti settori dell'umanità.
(387) Ramez Naam, More than Human. Embracing the Promise of Biological Enhancement, op. cit. [sito collegato], pag. 39. Il panorama della società attuale disegna del resto una totale schizofrenia riguardo il rapporto tra "sicurezza" e "risultati". Se abbiamo già rilevato che l'atteggiamento paranoide riguardo la sperimentazione umana ha radici ideologiche rispetto a cui le stesse ossessive preoccupazioni per la "sicurezza" (per cui oggi per portare un nuovo principio attivo sul banco di una farmacia è necessario più di un lustro e un investimento di almeno venti milioni di dollari) risultano secondarie, capita d'altronde che secondo quando riferisce Bill McKibben (in Enough : Staying Human in an Engineered Age, op. cit., pag. 4) in un sondaggio condotto tra le squadre olimpiche su chi sarebbe stato disposto ad assumere un farmaco che conducesse a morte sicura, ma dopo cinque anni di vittorie consecutive senza rischi di squalifica, il cinquanta per cento (!) degli intervistati ha risposto che sarebbe stato tentato.
(388) Gregory Stock [alias], Redesigning Humans, op. cit., pag. 130 (Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005)
(389) Quelle cioè che mirano ad inserire geni determinati, ad esempio necessari alla produzione di un particolare enzima, nelle cellule di un individuo adulto. Tali inserzioni non hanno ovviamente alcuna conseguenza sulla discendenza del paziente, ma risultano particolarmente difficili in connessione alla necessità di trovare metodi utili a mirare e raggiungere specificamente i tessuti o gli organi interessati, e a modificarne in sostanza il funzionamento attivando in luogo i geni stessi. D'altronde, un altro campo di ricerca che nessuno oserebbe vietare e che non può non avere ricadute pressoché immediate sull'uomo è quello che riguarda i già discussi interventi sulla linea germinale degli altri mammiferi, e degli animali superiori in generale.
(390) La galleria degli orrori di origine genetica, e non prodotti da qualche oscura combinazione di centinaia di fattori e magari dalla loro interazione con fattori ambientali, ma che sappiamo risultanti in modo del tutto deterministico da un singolo gene aberrante e di cui è stato interamente chiarito il meccanismo, è molto vasta. Ricordiamo, in aggiunta a quanto discusso nel capitolo sul rischio disgenico, la sindrome di Lesch-Nyhan [alias] (il "bambino-lupo"), che conduce al ritardo mentale ed all'automutilazione, la sindrome di Tay-Sachs, che porta con sé la degenerazione neurale e la morte nella prima infanzia, e quella di Werner, che comporta un invecchiamento rapidissimo ed irreversibile dei bambini affetti.
(391) E ancora: «Il grado dell'apertura della popolazione alle terapie somatiche è reso evidente dallo studio di Michael Blaese sui test di terapia genetica tra i bambini Amish [alias] con la sindrome di Krigler-Najjar, una malattia potenzialmente fatale in cui l'enzima del fegato che scinde la bilorubina, un prodotto del ciclo dei globuli rossi, è mancante. Nessun gruppo è più cauto degli Amish nell'abbracciare nuove tecnologie, ma benché essi possano mettere al bando televisori ed automobili e fare uso di cavalli e calessi, non hanno esitato a dare il benvenuto alle possibilità della terapia genetica» (Gregory Stock [alias], Redesigning Humans, op.cit., pag. 39, trad. italiana: Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005). Vedi anche Denise Grady, "At Gene Therapy's Frontier, the Amish Build a Clinic", in The New Your Times, 29/06/1999.
(392) Entrambe le citazioni sono riportate da Brian Alexander, Rapture: How Biotech Became the New Religion. A Raucous Tour of Cloning, Transhumanism, and the New Era of Immortality, op. cit., pag. 244.
(393) In effetti, in coincidenza con la rivoluzione biotecnologica ed informatica, per la prima volta le scienze cognitive e la neuropsicologia si stanno davvero avvicinando ad integrare e verificare le nostre millenarie nozioni empiriche in materia di percezione, apprendimento, addestramento, memorizzazione, etc. Ciò appare tra l'altro funzionale ad una comprensione più profonda e ripetibile delle tecniche che consentono di oltrepassare i limiti "ordinari" della psicologia e fisiologia umana, e/o attivare stati alterati di coscienza, dall'ipnosi all'esperienza Zen e Ch'an al Tantra allo Yoga per arrivare alle trances marziali o mistiche o alle capacità degli "idiots savants" ben note anche alla tradizione europea. Tali acquisizioni convergono con il portato della già citata "programmazione neuro-linguistica", dell'etologia umana, della linguistica moderna, della psicologia applicata, nel disegnare un ulteriore vettore nel salto di qualità relativo al "potere dell'uomo su se stesso" che costituisce l'essenza stessa del possibile avvento del "terzo uomo" discusso in questo saggio.
(394) Vedi tra gli altri "Annuncio choc dagli Stati Uniti: 'Ecco la vita in laboratorio'. Il progetto è di creare un organismo artificiale in grado di sopravvivere e riprodursi", La Repubblica, 21/11/2002; Luigi Dell'Aglio, "Il microbo di Faust. Craig Venter annuncia: dopo la decifrazione del Dna stiamo puntando a produrre un microorganismo in laboratorio" in Avvenire, 22/11/2002; "Craig Venter will 'neue Form von Leben' erzeugen", in 3sat, 25/11/2002.
(395) Secondo la suddetta obiezione, le caratteristiche e l'anamnesi familiare dei genitori di Beethoven avrebbero loro sconsigliato di procreare secondo qualsiasi ragionevole conclusione empirica applicabile all'epoca, comportando l'irrimediabile perdita dell'opera del compositore per le generazioni future.
(396) Hervé Kempf, La revolution biolithique. Humains artificiels et machines animées, op. cit., pag. 236.
(397) Gregory Stock [alias], Redesigning Humans, op. cit., pag. 63 (Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005).
(398) Gregory Stock [alias], Redesigning Humans, op. cit., pag. 135 (Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005).
(399) Brian Alexander, Rapture: How Biotech Became the New Religion. A Raucous Tour of Cloning, Transhumanism, and the New Era of Immortality, op. cit., pag. 149.
(400) Nota Gregory Stock [alias]: «La maggiorparte delle obiezioni etiche sono state polverizzate da un milione di bambini IVF [in-vitro fecondation] e da duemila bambini PGD (pre-implantion genetic diagnosis)» (in Redesigning Humans, op. cit., pag. 54, trad. italiana: Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie, Orme Editori 2005).
(401) Persino il cattolicissimo metodo Ogino-Knaus mantiene una qualche efficacia, almeno statistica, ed il suo "costo" soggettivo non eccede quello di pochi giorni di astinenza al mese in coincidenza con il periodo dell'ovulazione femminile, periodo del resto identificabile oggi con vari metodi di discreta accuratezza e praticità, ivi compreso per favorire, anziché prevenire, il concepimento (pratica quest'ultima reputata invece immorale, per ragioni non chiare).
(402) In effetti, pare che persino l'amministrazione di George W. Bush abbia rinunciato ai progetti abolizionisti in materia di legalizzazione dell'aborto. Solo il fatto che un programma del genere fosse concepibile, mostra comunque la strada fatta dalle relative idee nell'"America profonda".
(403) Ad esempio, dato che una semplice ecografia consente di accertare il sesso del nascituro, l'aborto ha consentito il ridispiegarsi della selezione de sesso dei nascituri che alcune culture praticavano tradizionalmente attraverso l'infanticidio o l'esposizione dei neonati. «Uno studio a Bombay ha riportato che uno stupefacente numero di 7987 feti abortiti su 8000 erano femmine, e in Corea del Sud questi aborti sono divenuti così diffusi che il 65% dei terzi nati sono maschi, presumibilmente perché molte coppie che hanno già avuto due figlie femmine non sono disposte ad accoglierne una terza... Secondo un recente sondaggio negli Stati Uniti, solo il 32% dei medici ritiene che tali pratiche dovrebbero essere illegali. Il supporto popolare per una loro messa al bando va da quasi il 100% in Portogallo al 22% in Cina. Benché si possa essere a disagio di fronte all'idea che i feti vengano discriminati sulla base del loro sesso, nei sistemi giuridici che ammettono l'aborto a discrezione della madre il divieto della selezione per sesso richiederebbe una notevole contorsione legislativa, e sarebbe sostanzialmente impraticabile, richiedendo un'indagine psicologica impossibile quanto al movente della decisione» (Gregory Stock [alias], Redesigning Humans, op. cit., pag. 14, trad. italiana: Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005). Similmente, tutte le leggi del mondo sulla discriminazione non possono impedire ad una madre di abortire deliberatamente un figlio meticcio, il cui parto tra l'altro renderebbe in vari casi manifesto il suo concepimento all'esterno della comunità e/o della coppia di appartenenza.
(404) Vedi, sempre per fare l'esempio della patria della democrazia e dei Diritti dell'Uomo, US Congress Office of Technology Assessment, Artificial Insemination Practice in the United States. Summary of a 1987 Survey-Background Paper, OTA-BP-BA-48, Government Printing Office, Washington D.C., 1988. Con la demenziale legge italiana sulla fecondazione assistita, la selezione delle caratteristiche del donatore dello sperma – fortunatamente ancora consentita ove l'interessata se lo faccia somministrare nel modo... tradizionale – parrebbe oggi non essere più praticamente possibile nel nostro paese.
(405) Chiara Valentini, La fecondazione proibita, op. cit., pag. 13.
(406) In effetti, il primo tentativo di fecondare un ovulo umano in laboratorio pare sia stato quello di John Rock e Miriam Menkin, per cui gli stessi vennero trattati da scriteriati. D'altronde, nota Chiara Valentini (ibidem, pag. 26), «si era nel 1944, nel pieno della guerra mondiale contro il nazismo, ed era facile sospettare di eugenetica un esperimento come quello. Vari scienziati erano arrivati ad accursare la povera Miriam Menkin di "stupro in provetta"».
(407) Per la storia della vicenda, vedi Leslie e John Brown, Our Miracle Called Louise. A Parents' Story, Paddington Press, New York 1979. Malgrado lo stadio assolutamente rudimentale delle tecniche dell'epoca, Leslie Brown riuscì poco dopo ad avere un'altra figlia, Natalie, nello stesso modo.
(408) La sua assistente Laura De Paoli, cui si deve questa storia, ha comunque raccontato a Chiara Valentini (La fecondazione proibita, op. cit., pag. 26) che almeno dieci anni prima della nascita in Inghilterra di Louise Brown, Petrucci, morto d'infarto nel 1973, avrebbe proceduto a vari impianti clandestini di embrioni in Germania e in Italia. La posizione ufficiale della Chiesa cattolica al riguardo sarà sancita dalle quaranta pagine dell'Istruzione sul rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione, volute da Giovanni Paolo II e firmate dal cardinale Ratzinger (poi asceso al Soglio sotto il nome di Benedetto XVI). Meno scontate, ed interessanti, le iniziali opposizioni all'IVF di parte femminista (un collettivo internazionale, il FINRAGE, Feminist International Network of Resistance to Reproductive and Genetic Engineering, arriva a scrivere, non a torto, che «il concepimento fuori dal corpo della madre facilita la manipolazione ed il controllo eugenetico»); e soprattutto quelle radicate nell'ambiente verde-ecologista. «Come per altre manipolazioni della natura, anche sui "bambini artificiali" c'era il sospetto di una "sfida al limite", come in altri campi dominati dalla cultura scientista. Forzando questo punto di vista, un gruppo di ambientalisti per lo più maschi fra cui il leader verde Alex Langer [alias] avevano pubblicato un documento per dichiararsi solidali con il cardinale Ratzinger nella sua condanna della provetta e delle manipolazioni genetiche. L'aspetto più interessante è che nella polemica che ne era seguita, varie intellettuali si erano dissociate non tanto sul merito della questione, quanto sulla scelta di allearsi con un'istituzione sempre più conservatrice come la chiesa» (Chiara Valentini, ibidem, pag. 53; vedi anche lo scritto di un gruppo di redattrici di Nuova Ecologia intitolato "Quanta confusione su Ratzinger", in Il Manifesto, 08/05/1987).
(409) Vedi Gregory Stock [alias], Redesigning Humans, op. cit., pag. XI (trad. italiana: Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005).
(410) Ciò naturalmente a prescindere dalle prescrizioni oggettivamente demenziali della legge del Parlamento italiano sulla procreazione assistita, che "cristianamente" considerando omicida e blasfema la manipolazione e il possibile spreco degli embrioni, prevede oggi che questi possano sì essere stoccati, ma... pochi per volta (vedi il bizzarro compromesso della "regola dei tre embrioni": «dato che non abbiamo il coraggio di vietare semplicemente la pratica, e che uno è troppo poco perché la fecondazione in vitro sia concretamente utilizzabile, facciamo finta che ucciderne sino ad un massimo di tre non sia peccato»). Cosa che ha l'unico risultato di provocare una ripetizione di procedure e trattamenti tanto inutili e costosi, quanto pericolosi e spiacevoli per la madre – cui forse viene data così l'occasione di espiare il suo desiderio di prole in sfida alla Provvidenza... Non solo: il reimpianto di un embrione di cui siano stati constatati difetti genetici come abbiamo visto è almeno teoricamente obbligatorio, salva la libertà per la madre di abortirlo successivamente (!), benché tale obbligo sia ovviamente incoercibile e comunque probabilmente in violazione dell'art. 32 della Costituzione italiana. E ancora: la fecondazione eterologa dal lato maschile è vietata, ma il consenso del marito (o del... "compagno") viene dichiarato valido agli effetti di impedire che possa venire esperita con successo una successiva azione di disconoscimento di paternità (norma i cui scopi sono ovvii, ma comunque curiosa nella misura in cui discrimina senza motivi evidenti la situazione in cui la fecondazione avvenga bensì con il consenso del padre putativo, ma... mediante un normale rapporto sessuale); viceversa, il benessere e/o il rispetto per il nascituro potenziale dovrebbe essere il principio fondamentale della legge, ma l'impianto di embrioni in una madre diversa da quella che ha fornito l'ovulo è vietato, anche quando questa non sia in alcun modo in grado di portare a termine una gravidanza, e così incondizionatamente anche il reimpianto di embrioni di un padre premorto (pratiche evidentemente reputate troppo "faustiane"); etc. Cfr. Chiara Valentini, La fecondazione proibita, op. cit.; ma anche gli oppositori coerenti della IVF sono in prima fila nel sottolineare le assurdità della legge : cfr. a cura di Giuseppe Garrone, Fecondazione extra corporea. Pro o contro l'uomo, op. cit.
(411) La distinzione rigorosa tra maschi e femmine nelle specie sessuate non ha nulla a che vedere con la estroflessione o introflessione dei rispettivi organi sessuali, come nell'immaginario popolare che resta generalizzabile al più ai mammiferi, e neppure con qualche forma di concepimento o gestazione intracorporei (vi sono tra i pesci femmine che depongono le uova che vengono fecondate solo successivamente, e specie di insetti in cui è il è maschio che dispone di sacche per conservare le uova), bensì nel fatto di generare un grandissimo numero di gameti molto piccoli, o un piccolo numero di gameti relativamente grandi. Tale caratteristica, che connota universalmente i generi delle specie sessuate, dalla specie umana alle piante angiosperme, determina poi come è noto la differenza "sociobiologica" di strategie riproduttive tra i due sessi. In ogni modo, se per gli uomini non esistono normalmente problemi di quantità o di esaurimento con il decorso degli anni, le recenti scoperte relativamente all'incremento del rischio genetico connesso all'età avanzata anche dal lato maschile potrebbero consigliare lo stoccaggio in età giovanile, per un futuro eventuale riutilizzo, anche degli spermatozooi.
(412) Gregory Stock [alias], Redesigning Humans, op. cit., pag. 58 (Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005).
(413) Nel suo intervento in Fecondazione extra corporea. Pro o contro l'uomo, a cura di Giuseppe Garrone, op. cit., pag. 38.
(414) Hervé Kempf, La revolution biolithique. Humains artificiels et machines animées, op. cit., pag. 49-52.
(415) I metodi anticoncezionali, in particolare quelli di tipo ormonale o intrauterino, consentono infatti di determinare almeno negativamente l'identità del padre della propria prole, escludendo che l'accoppiamento possa comportare l'impegno di capacità riproduttive con partner per qualsiasi ragione non ritenuti idonei, e evitando che il relativo investimento parentale sia assorbito da prole indesiderabile.
(416) L'aborto selettivo è stato a sua volta reso possibile dalle previsioni, radicalmente diverse da quelle basate sull'anamnesi familiare in quanto capaci di discriminare il singolo embrione, rese possibile da tecniche cliniche come l'amniocentesi e soprattutto la villocentesi, che ha il pregio di poter essere effettuata in una fase molto precoce e di comportare rischi inferiori (cfr. Harry Harris, , Diagnosi prenatale e aborto selettivo, op. cit., versione originale Prenatal Diagnosis and Selective Abortion). Nuove tecniche in via di brevettazione consentiranno manovre diagnostiche ancora meno invasive, basate su un mero e minimo prelievo di sangue fetale.
(417) Cfr. Gregory Stock [alias], Redesigning Humans, op. cit., pag. XII (Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005).
(418) Dalla introduzione a Giuseppe Garrone (a cura di), Fecondazione extra corporea. Pro o contro l'uomo, op. cit., pag. 11.
(419) Ciò discrimina tra l'altro i casi in cui in cui la coppia si perfettamente in grado di concepire naturalmente, ma il padre sia affetto da una malattia trasmissibile sessualmente, o la madre non sia in grado di portare a termine la gravidanza, oppure la madre veda la sua vita o la sua salute messa gravemente in pericolo dalla gravidanza stessa. E ancora costringendo appunto la coppia suscettibile di concepire embrioni con tare facilmente selezionabili in vitro ad esporre la madre al rischio di dover abortire, magari ripetutamente, per poter concepire un figlio sano. Quanto alla questione della "coppia", sembra particolarmente ridicolo che nella legge attuale la "coppia", la cui esistenza e comune partecipazione è necessaria per rendere lecita l'assistenza del medico, è definita, oltre che dal sesso diverso, dalla comune... residenza anagrafica, cosa che lascia naturalmente fuori chi non possa vantarla per una ragione qualsiasi, mentre apparentemente consentirebbe la fecondazione artificiale tra membri della stessa famiglia di provenienza (!). Resta d'altronde non chiaro se la fecondazione che avvenga in utero, ma a seguito non di un coito, ma di inseminazione artificiale, rientri nella sfera di applicazione della normativa. Se così non fosse, una donna potrebbe continuare liberamente a comprarsi del seme anche al mercato, mentre qualsiasi utilizzo di un ovulo fuori dal corpo femminile cadrebbe inevitabilmente sotto i rigori della legge in commento...
(420) Vedi già A. McLaren, "Embryo Research", in Nature, 1986, pag. 320, citato in Fecondazione extra corporea. Pro o contro l'uomo, a cura di Giuseppe Garrone, op. cit., pag. 45. L'idea era già stata avanzata dal Comitato Warnock, nominato dal governo britannico per fornire indicazioni sulla materia al legislatore, cfr. Department of Health and Social Security, Report of the Committee of Inquiring into Human Fertilisation and Embriology, Her Majesty's Stationary Office, Londra 1984.
(421) La "strategia" per lo più presa in considerazoine da chi tra i cattolici non se la sente di escludere del tutto il ricorso a tecniche di procreazione assistita è quella di una raccolta dello sperma prelevato mediante un rapporto sessuale coniugale in vagina (onde evitare la masturbazione, che del resto sarebbe aggirabile anche con un poco piacevole prelievo chirurgico degli spermatozooi dall'epitidimo, cui già si ricorre oggi in caso di oligospermia), ed un preservativo (in cui però sia stato praticato un piccolo foro, onde evitare che il un eventuale concepimento naturale sia completamente impedito), contemporaneamente ad un prelievo dell'ovulo con i metodi normali. Per altro, per evitare la fecondazione fuori dal corpo espressamente vietata dal magistero, l'ovulo e lo spermatozoo devono venir successivamente impiantati nel corpo femminile prima che questa si verifichi (è consigliato il ricorso ad una piccola bolla d'aria, utile a rimandare il "matrimonio" tra i due a quando gli stessi si troveranno "santamente" nel loro vas naturale). Vedi al riguardo quanto spiega il ginecologo cattolico Nicola Garcea nell'intervista "Se le cicogne tardano a venire", a cura di Delia Vaccarello, su L'Unità del 07/11/1991. Il metodo in questione è chiamato anche "Gift".
(422) Cfr. CIOMS, International Ethical Guidelines for Biomedical Research Involving Human Subjects, [versione in francese] Ginevra 1993.
(423) Robert Langer, Joseph Vacanti, "Artificial Organs", in Scientific American, Settembre 1995, pag. 130.
(424) Hervé Kempf, La revolution biolithique. Humains artificiels et machines animées, op. cit., pag. 74.
(425) Steve Connor, Deborah Cadbury, "Headless Frog Opens Way for Human Organ Factory", Sunday Times, 19/10/1997.
(426) Per esempio, sarà possibile clonare e produrre, anziché un individuo intero, solo un fegato, sia questo destinato al consumo come foie gras o ad un trapianto umano, impregiudicata in tale secondo caso la questione, essenzialmente teologica, se a tale fegato siano applicabili i Diritti dell'Uomo, o la normativa a tutela degli handicappati (in mancanza di arti, di un sistema nervoso e di quant'altro normalmente disponibile ad un individuo della specie)
(427) Scrive Spengler già negli anni trenta: «E' proprio dell'essenza della tecnica umana il fatto che ogni invenzione contenga in sé la virtualità e la necessità di nuove invenzioni, che ogni desiderio realizzato ne produca mille altri, che ogni trionfo sulla natura stimoli a trionfi maggiori. L'anima di questo animale da preda è insaziabile, la sua volontà non può mai essere soddisfatta; tale è la maledizione che incombe su questo genere di vita, ma anche la grandezza del suo destino. Riposo, felicità, godimento sono ignoti proprio ai più eccelsi esemplari umani. E nessun inventore ha mai preveduto con esattezza gli effetti reali della sua invenzione» (Ascesa e declino della civiltà delle macchine, op. cit., pag. 91, ult. ed. italiana con il titolo L'uomo e la macchina, versione originale: Der Mensch und die Technik. Beitrag zu einer Philosophie des Leben).
(428) «In realtà, la passione dell'inventore non ha nulla a che fare con le sue conseguenze. Non importa che la sua invenzione sia utile o funesta, creatrice o distruttrice; e non importerebbe all'inventore quand'anche egli fosse fin dall'inizio in grado di saperlo. Ma nessuno prevede l'effetto di una "conquista tecnica dell'umanità" - senza contare che l'"umanità" in quanto tale non ha mai inventato nulla. Scoperte nel campo della chimica come l'indaco sintetico e quella che probabilmente si avvererà tra breve della gomma artificiale sconvolgono la vita di interi paesi; il trasporto elettrico dell'energia e l'impiego dell'energia idrica hanno svalutato i vecchi territori carboniferi dell'Europa insieme alla loro popolazione. Riflessioni di questo genere hanno mai indotto un inventore a distruggere la sua opera? Chi lo crede, conosce male la natura predatrice dell'uomo. Tutte le grandi invenzioni ed imprese derivano dalla gioia che gli uomini forti risentono nella vittoria» (ibidem, pag. 108).
(429) E' indiscutibile che il razzo e il calcolatore digitale, il DNA, l'ereditarietà e le mutazioni, l'atomo e la registrazione-trasmissione a distanza di suoni ed immagini, il microscopio e gli agenti patogeni e il motore a scoppio e la teoria dei quanti, tutto ciò viene scoperto e inventato in un arco corrispondente alla durata di una vita umana, grosso modo dal 1870 al 1950, in corrispondenza ad un'accelerazione della storia che nello stesso periodo si manifesta in ogni campo della vita sociale, politica e culturale. Molte delle cose realizzate successivamente possono essere considerate al più come un affinamento, un miglioramento, un'applicazione, un sottoprodotto di cose pensate in tale periodo, e ciò quando pure tali sviluppi abbiano in effetti luogo. Il cittadino occidentale degli anni settanta aveva buone ragioni per ritenere plausibile la scadenza del 1982 per il primo sbarco umano su Marte o per l'accensione della prima centrale a fusione nucleare, ed attraversava l'Atlantico su voli civili supersonici, che da vari anni non sono più disponibili. Gli Stati Uniti rischiano, dopo il definitivo pensionamento dei loro fallimentari Shuttle, di dover ricorrere a tecnologia russa dell'epoca della conquista lunare (!) per trasportare materiale sulla cosiddetta Stazione Spaziale Internazionale.
(430) Gregory Stock [alias], Redesigning Humans, op. cit., pag. 113 (Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005).
(431) Massimo Fini, Sudditi. Manifesto contro la democrazia, Marsilio Editori, Venezia 2004, pag. 98.
(432) Oswald Spengler, Der Untergang des Abendlandes.Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte. (1918), ult. ed. Deutsche Taschenbuch Verlag, Monaco 1997 [versione Web in spagnolo], trad. it. (di Julius Evola) Il tramonto dell'Occidente, Longanesi, Milano 1957. Una nuova edizione italiana è oggi pubblicata da Guanda, Milano 1999.
(433) Oswald Spengler, Ascesa e declino della civiltà delle macchine, op. cit., pag. 123 (ult. ed. italiana con il titolo L'uomo e la macchina, versione originale: Der Mensch und die Technik. Beitrag zu einer Philosophie des Leben).
(434) Ernst Jünger, L'Operaio. Dominio e Forma, op. cit.
(435) Friedrich Nietzsche [alias, alias], La volontà di potenza, aforismi 280 e 302.
(436) Vedi su questa concezione della storia Giorgio Locchi, "Il senso della storia", in l'Uomo libero n. 11 nonché Wagner, Nietzsche e il mito sovrumanista [versione Web], Akropolis, Roma 1982, o anche la divulgazione fattane da autori come Armin Mohler o Alain de Benoist (cfr. ad esempio "Fondements nominalistes d’une attitude devant la vie", in Nouvelle Ecole n. 33, giugno 1979 [versione originale Web], trad. it. di Stefano Vaj, "L'idea nominalista" in L'uomo libero n. 7).