Biopolitica. Il nuovo paradigma


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Ambiente naturale, ambiente culturale e selezione

La consapevolezza del "rischio disgenico" e la sostituzione di un intervento artificiale alla selezione naturale fanno infatti da sempre parte del processo di autodomesticazione che l'uomo compie su se stesso, o almeno della risposta culturale che a tale sfida danno le culture storiche, e in particolare la cultura indoeuropea. Molto prima che qualcuno pensasse alle conseguenze per i gruppi umani delle leggi di Mendel [alias], il monte Taigeto e l'αγωγή, agogé, a Sparta, la rupe Tarpea a Roma, le analoghe pratiche di esposizione dei neonati tra i Celti o i Germani, la stretta regolamentazione dei matrimoni nell'India antica, rappresentano una forma certo rozza, ma assolutamente ancestrale, di tale consapevolezza, che del resto echeggia nella Repubblica di Platone (121) e nella Politica di Aristotele [alias] così come in varie fonti del diritto romano (122). Ma la strutturazione stessa della società, e a livello delle aristocrazie il mantenimento, del tutto "artificiale" e deliberato, di stili di vita e valori selettivi propri alla società pre-neolitica, rappresentano essi stessi un elemento di selezione direzionale, se non altro sessuale, che non può certo essere sottovalutata.

Tale intervento umano rappresenta del resto null'altro che la versione "culturale" di moduli etologici ben descritti con riguardo a varie specie animali, che le culture in questione tendono ad imitare. Ricorda Adriana Del Prete, in un mensile di divulgazione scientifica a larga diffusione: «Nel codice genetico di alcune specie di api è scritta un'istruzione che impone loro di eliminare le larve malate. Le larve da miele sono interessate da molte malattie, tra le quali un'infezione che le distrugge: è la peste americana. Alcuni alveari ne sono molto colpiti, altri meno, e altri ancora ne sono del tutto esenti. È merito di questi ceppi, che lavorano così: le api operaie addette alla "cova" devono localizzare la cella di ogni larva ammalata, rimuovere il coperchio di cera, estrarre la larva, trascinarla fino all'entrata dell'alveare e gettarla nel cumulo dei rifiuti all'esterno! I genetisti hanno verificato l'esistenza di due diversi geni: il primo della individuazione-scoperchiamento, il secondo della asportazione-eliminazione della larva infetta. I due geni cooperano e ognuno da solo è assolutamente inutile. Il risultato di questa collaborazione è una concreta prevenzione della malattia: stomping-out, identificazione ed eliminazione; si deve operare per la salute della comunità. È il monito della selezione naturale» 123. Già Nietzsche [alias, alias] scriveva: «E' necessario per la specie che il debole, il malriuscito, il degenerato periscano» (124). E ancora: «Non è la natura che è immorale quando è senza pietà per i degenerati: è la crescita del male fisico e morale della specie umana ad essere al contrario la conseguenza di una morale malsana ed antinaturale. [...] Non vi è solidarietà in una società dove vi sono elementi sterili, improduttivi e distruttori, che avranno d'altronde discendenti ancora più degenerati di loro» (125).

D'altronde, se è vero che, come nota un po' schematicamente Vilfredo Pareto, in una società di ladri il miglior ladro è re, i tratti culturali stessi di una comunità ne determinano a lungo termine i tratti genetici, indirettamente influenzando il successo riproduttivo dei relativi portatori. E di questi tratti non fa parte solo la (in)dipendenza più o meno accentuata, e "tecnica", da fattori selettivi naturali quali malattie o carestie o predatori, ma altresì l'immagine che tale comunità ha di sé e dei suoi ideali, ovvero di ciò che più o meno consapevolmente intende fare di se stessa e dei suoi membri. Ciò infatti determina come è ovvio le chances dei suoi singoli componenti quanto al fatto di lasciare dietro di sé una prole feconda, nonché alla qualità e quantità di tale prole.

Ciò significa due cose: che qualsiasi cultura è in certo modo una "natura"; e che perciò nel presente della nostra cultura possiamo leggere il futuro della sua base biologica. Un futuro forse lontano; certo tuttora vago allo stato delle nostre conoscenze dei meccanismi coinvolti; su cui ovviamente tentativi di intervento diretto presentano dei rischi e possono, come già discusso, sortire effetti del tutto opposti a quelli auspicati. Ma anche un futuro che – ove non ci piaccia quello che è possibile intravederne, rischi di estinzione compresi – dovrebbe indurci a riflettere, sia sulla struttura stessa della comunità interessata, sia sulle responsabilità al riguardo, che sono interamente nostre. Dire che "Dio è morto" significa esattamente che non possono più essergli delegate tali responsabilità; né possono esserlo al Mercato; né alla Natura.

Ciò in relazione anche ai poteri del tutto nuovi di cui andiamo a disporre. «Per figurarci che tratti vorremo per i nostri figli quando avremo il potere di fare tali scelte, dobbiamo pensare a lungo e fortemente a cosa siamo», scrive Stock [alias] (126). Aggiungiamo: a ciò che davvero vogliamo diventare. Meglio ancora, nietzschanamente: a come rispondere all'imperativo di "diventare ciò che siamo".

D'altronde, è vero che se il gene mira semplicemente alla propria propagazione ciò che invece è politicamente e culturalmente rilevante è ovviamente il fenotipo – le caratteristiche oggettive delle popolazioni reali e concrete. Un improbabile ricorso o fiducia "di destra" in una supposta selezione naturale dovrebbe fare i conti con il fatto che gli effetti della medicina moderna o degli antibiotici non sono di per sé distinguibili da quelli delle vaccinazioni, della profilassi, delle bonifiche, di un'alimentazione corretta, dell'igiene, dell'educazione fisica e dello sport di massa, tutte pratiche "salutari" che di fatto eliminano od attenuano oggettive pressioni selettive preesistenti – e pure pratiche promosse anche e proprio dai regimi politici che nel secolo scorso hanno fatto proprie più pienamente preoccupazioni di tipo eugenetico (127).

Le stesse tecniche eugenetiche, in particolare quelle che tendono a limitare il rischio di nascita di individui colpiti da tare – nella prima metà del secolo scorso attraverso il ricorso all'anamnesi familiare dei membri della coppia e a deduzioni mendeliane, oggi soprattutto attraverso lo screening genetico dei genitori e la diagnosi prenatale – possono contribuire a modificare il successo statistico di alcuni geni. Come nota Harry Harris, «una donna con il gene dell'emofilia, cioè una "portatrice" sana, che rinuncerebbe ad avere figli per il timore di avere maschi emofiliaci, soggetti a morire di emorragia al minimo incidente, potrebbe scegliere di averne se sa di poter prevedere ed abortire gli eventuali maschi emofilici e di poter partorire una femmina o un maschio non emofiliaco, di cui risultasse invece gravida» (128). Il risultato di una politica che oggettivamente elimina la comparsa di una tara genetica rilevante può essere così l'incremento (desiderabile, indesiderabile o indifferente, ma di cui va tenuto conto) del numero di individui eterozigoti e sani, ma portatori del gene stesso (129). L'alternativa "naturale" è d'altronde... la presenza di individui affetti da emofilia conclamata tra la popolazione – nonché, per estensione, di estese componenti della popolazione stessa affette da rachitismo, malaria, scorbuto, postumi del vaiolo, etc.

Il ricorso ad una "selezione naturale", che nel caso della nostra specie appare del tutto mitica, rischia così di essere semplicemente funzionale alla creazione di popolazioni analoghe a quelle che la natura provvede in effetti a "selezionare" per i ratti, le erbacce o gli sciacalli.

Un'adeguata risposta alla minaccia disgenica difficilmente potrebbe essere fatta consistere in una scelta implicita a favore di una popolazione di taglia medio-piccola, afflitta e sfigurata da carenze alimentari, malattie debilitanti e parassiti, mediocre nelle sue prestazioni psicofisiche ma capace di nutrirsi di immondizia, resistere in mezzo ad un letamaio ed infestare qualsiasi ambiente, aggressiva ma vigliacca, indiscriminatamente promiscua e stolidamente pigra, dalla socialità indebolita al limite del cannibalismo, con una vita media brevissima – scenario questo in cui pure un'ipotetica selezione "naturale" umana, magari post-atomica (130), si esprimerebbe al meglio. Per esempio, pestilenze endemiche o innalzati livelli di inquinamento chimico, radioattivo o biologico – sempre naturalmente che fossero almeno marginalmente compatibili con la sopravvivenza della specie – accentuerebbero certo la resistenza media dei sopravvissuti a tali fattori, ma difficilmente potrebbero essere considerati come un fattore di miglioramento della salute della popolazione coinvolta.

Konrad Lorenz rileva come negli animali la "domesticazione" comporterebbe la perdita di caratteristiche comunemente considerate "nobili", e in linea di massima la riduzione dell'acutezza sensoriale, la tendenza all'obesità, l'accorciamento degli arti, la cronicizzazione di atteggiamenti e comportamenti infantiloidi, la diminuzione delle risposte immunitarie, l'incapacità di sopravvivere in natura (131). A fronte di ciò può essere opposto il fatto che frutto di una selezione del tutto artificiale sono non solo i barboncini e i conigli di allevamento, ma gli alani, i levrieri, i tori da corrida, i gatti siamesi, i purosangue arabi ed inglesi, certo più "delicati" in termini di generica capacità di sopravvivenza dei brocchi, dei bastardini randagi o dei coyote, ma che è davvero difficile considerare "inferiori" a questi ultimi sotto qualsiasi altro profilo.

L'alternativa non è perciò tra una selezione "naturale" – che sarebbe comunque... artificialmente mantenuta – da un lato, e l'abolizione dei fattori selettivi dall'altro; ma tra una programmazione cosciente e deliberata delle caratteristiche (anche) genetiche della popolazione di riferimento (132), e la determinazione di tali caratteristiche da parte di fattori deliberatamente incontrollati o randomizzati o comunque sottratti ad una scelta umana e politica (il mercato, gli "effetti collaterali del progresso", la volontà divina, l'imperativo morale di un umanitarismo indiscriminato a favore dei membri di certe fascie sociali ed etniche dei paesi occidentali...).

Un altro modo di vedere la minaccia disgenica consiste nell'interpretarla come complesso di condizioni che nascondono, impediscono o modificano un'espressività, arbitrariamente assunta come "naturale", dei geni implicati (ad esempio, attraverso la somministrazione di insulina ai malati, di quelli che predispongono al diabete); con la conseguenza di rendere inefficaci o distorcere non solo le ordinarie pressioni selettive, ma altresì la cosiddetta "selezione sessuale", ovvero quella legata alle scelte ed inclinazioni dei potenziali partner riproduttivi, ad esempio tramite la modificata "leggibilità delle caratteristiche genetiche della controparte" che di per sé comportano l'abbigliamento o la chirurgia estetica, i trattamenti cosmetici e farmacologici, e più in generale stili di vita orientati e culturalmente determinati .

La consapevolezza di tali potenzialità in termini di "falsificazione" è molto antica, e la cosa può non essere estranea al particolare significato sessuale della nudità, specie femminile, in molte culture. Una misura apertamente eugenetica era del resto l'abitudine spartana di imporre alle fanciulle di mostrarsi a torso nudo nel ginnasio agli uomini destinati a sceglierle, e lo stesso naturismo tedesco all'inizio del novecento muoveva originariamente da premesse analoghe. Non è un caso che tale ordine di idee collida direttamente con l'atteggiamento, non solo eventualmente sessuofobico, ma ancora più generalmente e radicalmente anti-eugenetico, di tutte le religioni monoteiste. Esistono d'altronde problematiche anche più complesse. Appare ad esempio perfettamente possibile che i prossimi anni vedano, come è negli auspici delle già citate correnti del life-extensionism, l'affermazione di tecniche che consentano il raggiungimento magari non dell'immortalità biologica, ma di una longevità più o meno estrema rispetto ai valori attuali (133). Se si accetta l'ipotesi sociobiologica, singolarmente anti-darwiniana, che l'invecchiamento e la morte stessa degli organismi superiori e sessuati sono caratteristiche geneticamente programmate, e in particolare funzionali alla perpetuazione e sviluppo dell'informazione genetica attraverso l'eliminazione periodica dei relativi "veicoli" ed il rimescolamento continuo consentito dalla successione degli accoppiamenti e delle generazioni (134), anche una novità di questo tipo potrebbe essere interpretata esattamente come un fattore disgenico, con conseguenze di enorme portata non solo in termini culturali, ma rispetto alle dinamiche demografiche, all'invecchiamento della popolazione, all'identità stessa della specie, specie in riferimento alle dinamiche tra i gruppi che la compongono (135).

La questione della sostenibilità di un tale mutamento pone problemi che è difficile risolvere restando nell'ambito dei valori egualitari ed umanisti, ad esempio se le tecniche della longevità si rivelassero di un costo tale da impedirne, anche nel breve periodo (136), l'applicazione generalizzata, e/o da sottrarre risorse che sarebbero diversamente destinate ad altri progetti sociali, per esempio quelli concernenti l'assistenza sanitaria di massa (137). Che fare? Vietare incondizionatamente le tecniche in questione (arrogandosi implicitamente il potere di decidere della morte anticipata degli interessati) 138? Tentare di sottrarsi alla responsabilità di scegliere cosa farne delegando all'uopo meccanismi pretesamente "automatici" come il mercato (cosa che com'è ovvio rappresenta ugualmente una scelta, soltanto più "inumana" di altre in quanto in sostanza basata sul censo)?

Su scala molto inferiore, siamo già di fronte a questioni di questo tipo con riferimento al problema della distribuzione dei farmaci contro l'AIDS nei paesi "in via di sviluppo". Abbiamo da un lato il monopolio brevettuale esercitato dalle multinazionali farmaceutiche in forza di una legislazione protettiva che si giustifica per la sua "razionalità" economica, cosa che consente in certa misura di evadere il problema della scelta di valore. Dall'altro, esiste l'esigenza "umanitaria" di distribuire sottocosto tali farmaci, anche se questo nella logica del sistema attuale mina ovviamente la capacità di autofinanziarne l'ulteriore sviluppo. Le cose sono poi peggiorate dal fatto che i farmaci suddetti non guariscono l'infezione, ma si limitano (entro certi limiti) a aumentare l'aspettativa di vita delle persone infette, e pertanto, in ultima analisi,... aggravano i costi sociali dell'infezione stessa, ne consentono l'ulteriore diffusione nelle popolazioni coinvolte, e prevengono lo sviluppo selettivo di un più alto grado di immunità o resistenza geneticamente determinata alla malattia!

Resta naturalmente l'argomento per cui anche l'estinzione della specie potrebbe essere considerata un prezzo accettabile per il rispetto di esigenze di carattere essenzialmente morale, che vietano appunto all'uomo di rendersi "simile a Dio" e assumere su di sé la scelta del destino biologico della specie, o, più direttamente e praticamente, della propria concreta popolazione di riferimento.

Nessuna Provvidenza garantisce in effetti la sopravvivenza della nostra specie a prescindere dalle circostanze (139). I dinosauri dominavano la Terra, e sono scomparsi. L'Homo sapiens non è stata l'unica specie intelligente dell'universo; senza scomodare altri sistemi solari, sappiamo ormai con certezza che i Neanderthaliani erano intelligenti, e che non erano una razza di uomini, ma una specie diversa (140); e tale specie meno di trentamila anni fa si è del tutto estinta, come del resto sono oggi estinte la stragrande maggioranza delle specie che in un'epoca o in un'altra hanno abitato il pianeta (141). A maggior ragione, ed ancora più facilmente, può estinguersi del tutto – tranne forse negli studi di qualche paleontologo o archeologo o filologo del futuro – la singola, specifica popolazione cui ciascuno di noi appartiene.


Stefano Vaj

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(121) E' interessante d'altronde notare che in Platone, come del resto in tutte le preoccupazioni "eugenetiche" dell'antichità europea, la "qualità" della discendenza non si lega come nel filone "progressista", specie americano, dell'eugenismo moderno a criteri più o meno oggettivizzati (ad esempio, alle performances fisiche o intellettuali, o a supposte superiorità darwiniane), ma è inscindibile dalla prospettiva di una soggettività collettiva di tipo identitario: «... e il dio proclama, come un principio fondamentale per i governanti, che non c'è nulla che essi debbano così gelosamente tutelare, o di cui essi debbano essere tanto buoni custodi, quanto della purezza della razza» (Repubblica, III, 415). Cfr. anche Hans F.K. Günther, Platone custode della vita, op. cit.
(122) Per un'estesa illustrazione delle antiche pratiche europee di selezione dei nuovi nati, e di regolamentazione dei matrimoni (o più in generale dell'accesso alla riproduzione), vedi Jean-Jacques Mourreau, "L'éugenisme. Survol historique", in Nouvelle Ecole n. 14 del Gennaio-Febbraio 1971, numero interamente dedicato all'eugenetica.
(123) Adriana del Prete, "Una società razzista?", in Missione salute, n. 5 del 2003.
(124) Friedrich Nietzsche [alias, alias], La volontà di potenza, libro II, 1, aforisma 151.
(125) Ibidem, libro II, 2, aforisma 228.
(126) Gregory Stock [alias], Redesigning Humans, op. cit., pag. 117. Trad. italiana: Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005.
(127) Anche la protezione dell'ambiente ha paradossalmente in questo senso una valenza "antiselettiva", posto che è ovvio come l'inquinamento o in generale una qualità della vita estremamente degradata selezionino i portatori della capacità di tollerare meglio sostanze tossiche o altre condizioni avverse.
(128) Harry Harris, Diagnosi prenatale e aborto selettivo, Einaudi, Torino 1978, versione originale Prenatal Diagnosis and Selective Abortion, Harvard University Press, Boston 1975. (129) Ciò non è d'altronde vero per le tecniche eugenetiche, unicamente contemporanee e future, basate appunto non sulla selezione delle linee genetiche, ma sulla manipolazione diretta dei geni interessati.
(130) Sarebbe però necessario qualcosa di più radicale del tipo di vita immaginato nei film di George Miller Mad Max II. Il guerriero della strada (USA 1981) e Mad Max III. Oltre la sfera del tuono (USA 1985), ove continuano ad essere almeno provvisoriamente disponibili armi da fuoco, mezzi di trasporto, etc.
(131) Vedi ad esempio Konrad Lorenz, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, Adelphi, Milano 1974. Curiosamente, un'altra caratteristica che tra gli animali superiori pare associata (a prescindere dalle componenti genetiche, pure evidenziate) dalla domesticazione è l'incidenza dell'omosessualità e della bisessualità, come noto particolarmente elevata nella nostra specie. Vedi Lester Haines, "Aussie boffins probe lesbian cows", The Register, 03/09/2004.
(132) Come è stato notato, siamo oggi in grado di intervenire sulle popolazioni con tre tipi di tecnica: le tecniche eugeniche (volte a selezionare i geni desiderabili e ridurre la frequenza di quelli indesiderabili), le tecniche genetiche (volte a manipolare direttamente il corredo genetico), e le tecniche eufeniche (volte ad influenzare lo sviluppo del fenotipo e l'espressione dei geni attraverso la manipolazione dell'ambiente in cui l'organismo si sviluppa: gestazione, alimentazione, abitudini, clima, allenamento, terapie, etc.). Il fatto che il presente studio si concentri principalmente sui primi due tipi non significa che non ci sia molto da dire anche sul terzo. È ad esempio interessante notare come l'unico paese che continua ad offrire scuole per superdotati, e a fare ricerca riguardo le migliori condizioni per la loro formazione, sia Israele, oltre che (molto marginalmente) gli Stati Uniti.
(133) Su come tali argomenti trovino oggi spazio addirittura a livelli di quotidiani della sera, vedi ad esempio Alessandro Giuli, "Il corpo si ribella all'anima e progetta l'immortalità", art. cit. Per una discussione dello "stato dell'arte" sull'argomento, cfr. Yves Christen, Les années Faust, ou La science face au vieillissement, op. cit.; The Scientific Conquest Of Death, op. cit.; Ray Kurzweil, Fantastic Voyage. Live Long Enough to Live Forever, op. cit. [sito collegato]; ed ancora il sito della Life Extension Foundation.
(134) La mortalità, nel senso di una "scadenza di fabbrica" più o meno breve, non è una caratteristica intrinseca della vita. I microrganismi che si riproducono per scissione sono in un certo senso immortali. Le cellule cancerogene, grazie alla loro capacità di evitare l'accorciamento dei telomeri, condividono tale privilegio insieme con le cellule germinali degli animali superiori, quelle che si trasformano in ovuli e spermatozoi. In effetti, ovuli e spermatozoi non hanno tecnicamente antenati morti, sin dall'origine della vita sulla terra: sono solo le altre cellule destinate inevitabilmente ad estinguersi (vedi Brian Alexander, Rapture: How Biotech Became the New Religion. A Raucous Tour of Cloning, Transhumanism, and the New Era of Immortality, op. cit., pag. 108).
(135) Vale la pena di notare che sino ad oggi la medicina e gli altri mutamenti introdotti dal "secondo uomo" hanno significativamente allungato la vita media delle popolazioni, ma non l'"arco vitale", il life span del singolo individuo, che corrisponde piuttosto alla vita massima dei membri della specie. Dire che la durata media della vita di un cavernicolo era trent'anni, o cinquanta quello di un antico romano, non significa affatto che gli individui morivano a tale età come un gatto muore tuttora a dodici o quindici anni qualsiasi siano le cure veterinarie che riceve, ma semplicemente che moltissimi di essi morivano nella prima infanzia, oppure uccisi, o per qualche altro accidente, prima della vecchiaia. Gli ottantenni tra gli esseri umani sono sempre esistiti. Vedi al riguardo Michael Fumento, Bioevolution. How Biotechnology Is Changing the World, op. cit., pag. 125. Come nota Gregory Stock [alias] (Redesigning Humans, op. cit., pag. 33, trad. italiana: Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005.) «[A questo punto] per ottenere ulteriori significativi incrementi della nostra longevità dovremo incrementare il nostro arco vitale, il che significa manipolare il processo di invecchiamento soggiacente». Ciò sarebbe del resto comunque necessario per evitare una "titonizzazione" dell'umanità che nei paesi occidentali è già in atto. Titone, sposo dell'Aurora si era visto donare dagli dèi l'immortalità, ma per sua sfortuna non aveva altresì ottenuto l'eterna giovinezza. Un'interessante rielaborazione del mito è presente nel cult movie "vampirico" di George Scott Miriam si sveglia a mezzanotte (titolo originale: The Hunger, USA 1983, con David Bowie, Catherine Deneuve e Susan Sarandon.
(136) Ovvero a prescindere dai costi indiretti a medio termine legati all'espansione delle cure geriatrihe, alla crescente densità ed invecchiamento della popolazione, etc.
(137) A un convegno svoltosi all'Università Cattolica di Milano il 21/02/2005 Daniel Callahan [alias] direttore dell'Hastings Center e considerato da molti uno dei "padri" della bioetica, ha rimarcato che comunque sulla base dei trend attuali «nel 2050 la sanità costituirà il 50-60% del PIL di uno Stato occidentale», insistendo invece da parte sua nella proposta di una "medicina sostenibile", dagli scopi modesti e dalla connotazione principalmente "sociale", da applicare in modo rigidamente egualitario. Lo stesso si è sentito nondimeno dare del... fascista perché il suo rifiuto di scegliere cosa fare delle tecniche che si rendono via via disponibili implica naturalmente un dirigismo che è a sua volta poco compatibile con altri feticci contemporanei, come il "Mercato". Cfr. Armando Massarenti, "La medicina non insegua l'immortalità", in Il Sole-24Ore del 22/02/2005, pag. 10.
(138) Come nota Gregory Stock [alias] (Redesigning Humans, op. cit., pag. 80, trad. italiana: Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005), l'idea di restringere gli sforzi della biogerontologia soltanto sul fatto di mantenerci in salute il più a lungo possibile ed accorciare il periodo di declino finale è solo apparentemente ammirevole e di buon senso: «Immaginiamo che tale progetto abbia il più completo successo... Una morte che ci strappasse dal pieno di una vita attiva senza la graduale debilitazione che ci forza a disimpegnarci dal mondo e a fronteggiare la nostra inevitabile dipartita finale potrebbe essere molto più crudele di ciò che succede oggi. Quando il tempo viene di morire, non solo ci sentiremmo strappati dal fiore degli anni, ma lasceremmo dietro di noi un vuoto più incolmabile. Le nostre famiglie non sarebbero preparate a perderci, né avrebbero la consolazione di sapere che morendo siamo almeno sfuggiti al dolore e ad una qualità della vita ormai degradata».
(139) Un testo interamente dedicato ai più probabili scenari di estinzione a breve termine della specie umana è Martin Rees [alias], Il secolo finale. Perché l'umanità rischia di autodistruggersi nei prossimi cento anni, Mondadori, Milano 2004. Malgrado il sottotitolo, il libro si occupa anche di scenari "catastrofici" che difficilmente potrebbero essere attribuiti ad una diretta responsabilità umana (se non, eventualmente, sotto il profilo dell'omissione delle misure che potrebbero essere utili al tentativo di evitarli: meteore, mutamenti climatici spontanei, etc.).
(140) Secondo la definizione classica, che tutti abbiamo studiato a scuola, individui e popolazioni appartengono alla stessa specie quando sono interfecondi. Ora, sappiamo che i Neandertaliani, la cui intelligenza è comunemente ammessa sulla base di indici quali l'utilizzo di utensili ed indumenti, il culto funerario e la presenza morfologicamente probabile di un linguaggio evoluto, con noi certamente non lo erano, avendo addirittura un numero di cromosomi diverso da quelli dell'Homo sapiens. Vedi al riguardo le fonti ed i dati riportati da Maurizio Blondet, L'uccellosauro ed altri animali, op. cit., pag. 104; ed ancora "Non siamo parenti dei Neanderthaliani", in Prometeo, gennaio 2004. I Neanderthaliani del resto avevano caratteristiche morfologiche ed etologiche tanto diverse e specializzate (ad esempio, avevano un odorato sviluppato, erano esclusivamente carnivori, etc.), che da lunghissimo tempo nessuno più li ritiene "progenitori" della nostra specie.
(141) I reperti paleontologici mostrano che vi sarebbero state cinque grandi ondate di estinzioni, di cui la seconda in ordine di importanza, quella che sessantacinque milioni di anni fa ha spazzato via i dinosauri, viene dagli anni ottanta comunemente attribuita agli sconvolgimenti climatici provocati dalla caduta di un meteorite (resta d'altronde incerto perché siano sopravvissute creature a sangue freddo più antiche e relativamente massicce, come i coccodrilli o i draghi di Komodo, mentre si sono integralmente estinti anche i dinosauri marini, o quelli grandi come galline). Alcuni credono che da un evento analogo possa essere dipesa anche l'estinzione più catastrofica, quella che si è verificata nella transizione tra il Permiano e il Triassico, ma i duecentocinquanta milioni di anni che ci separano da tale epoca rendono molto difficile avanzare ipotesi attendibili.