Biopolitica. Il nuovo paradigma
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Ambiente
naturale, ambiente culturale e selezione
La
consapevolezza del "rischio disgenico" e la sostituzione di
un intervento artificiale alla selezione naturale fanno
infatti da sempre parte del processo di autodomesticazione che l'uomo
compie su se stesso, o almeno della risposta culturale che a tale
sfida danno le culture storiche, e in particolare la cultura
indoeuropea. Molto prima che qualcuno pensasse alle conseguenze per i
gruppi umani delle leggi di Mendel [alias], il
monte Taigeto e l'αγωγή, agogé, a Sparta, la rupe
Tarpea a Roma, le analoghe pratiche di esposizione dei neonati
tra i Celti o i Germani, la stretta regolamentazione dei matrimoni
nell'India antica, rappresentano una forma certo rozza, ma
assolutamente ancestrale, di tale consapevolezza, che del resto
echeggia nella Repubblica di Platone ()
e nella Politica di Aristotele [alias]
così come in varie fonti del diritto romano ().
Ma la strutturazione stessa della società, e a livello delle
aristocrazie il mantenimento, del tutto "artificiale" e
deliberato, di stili di vita e valori selettivi propri alla
società pre-neolitica, rappresentano essi stessi un elemento
di selezione direzionale, se non altro sessuale, che non può
certo essere sottovalutata.
Tale
intervento umano rappresenta del resto null'altro che la versione
"culturale" di moduli etologici ben descritti con riguardo
a varie specie animali, che le culture in questione tendono ad
imitare. Ricorda Adriana Del Prete, in un mensile di divulgazione
scientifica a larga diffusione: «Nel codice genetico di alcune
specie di api è scritta un'istruzione che impone loro di
eliminare le larve malate. Le larve da miele sono interessate da
molte malattie, tra le quali un'infezione che le distrugge: è
la peste americana. Alcuni alveari ne sono molto colpiti, altri meno,
e altri ancora ne sono del tutto esenti. È merito di questi
ceppi, che lavorano così: le api operaie addette alla "cova"
devono localizzare la cella di ogni larva ammalata, rimuovere il
coperchio di cera, estrarre la larva, trascinarla fino all'entrata
dell'alveare e gettarla nel cumulo dei rifiuti all'esterno! I
genetisti hanno verificato l'esistenza di due diversi geni: il primo
della individuazione-scoperchiamento, il secondo della
asportazione-eliminazione della larva infetta. I due geni cooperano e
ognuno da solo è assolutamente inutile. Il risultato di questa
collaborazione è una concreta prevenzione della malattia: stomping-out, identificazione ed eliminazione; si deve operare
per la salute della comunità. È il monito della
selezione naturale» .
Già Nietzsche [alias, alias]
scriveva: «E' necessario
per la specie che il debole, il malriuscito, il degenerato periscano»
().
E ancora: «Non è la
natura che è immorale quando è senza pietà per i
degenerati: è la crescita del male fisico e morale della
specie umana ad essere al contrario la conseguenza di una morale
malsana ed antinaturale. [...]
Non vi è solidarietà in una società dove vi sono elementi sterili, improduttivi e
distruttori, che avranno d'altronde discendenti ancora più
degenerati di loro» ().
D'altronde,
se è vero che, come nota un po' schematicamente Vilfredo
Pareto, in una società di ladri il miglior ladro è
re, i tratti culturali stessi di una comunità ne
determinano a lungo termine i tratti genetici, indirettamente
influenzando il successo riproduttivo dei relativi portatori. E di
questi tratti non fa parte solo la (in)dipendenza più o meno
accentuata, e "tecnica", da fattori selettivi naturali
quali malattie o carestie o predatori, ma altresì l'immagine
che tale comunità ha di sé e dei suoi ideali,
ovvero di ciò che più o meno consapevolmente intende
fare di se stessa e dei suoi membri. Ciò infatti determina
come è ovvio le chances dei suoi singoli componenti quanto al
fatto di lasciare dietro di sé una prole feconda, nonché
alla qualità e quantità di tale prole.
Ciò
significa due cose: che qualsiasi cultura è in certo modo una
"natura"; e che perciò nel presente della nostra
cultura possiamo leggere il futuro della sua base biologica. Un
futuro forse lontano; certo tuttora vago allo stato delle nostre
conoscenze dei meccanismi coinvolti; su cui ovviamente tentativi di
intervento diretto presentano dei rischi e possono, come già
discusso, sortire effetti del tutto opposti a quelli auspicati. Ma
anche un futuro che – ove non ci piaccia quello che è
possibile intravederne, rischi di estinzione compresi – dovrebbe
indurci a riflettere, sia sulla struttura stessa della comunità
interessata, sia sulle responsabilità al riguardo, che sono
interamente nostre. Dire che "Dio
è morto" significa esattamente che non possono più
essergli delegate tali responsabilità; né possono
esserlo al Mercato; né alla Natura.
Ciò
in relazione anche ai poteri del tutto nuovi di cui andiamo a
disporre. «Per figurarci che tratti vorremo per i nostri
figli quando avremo il potere di fare tali scelte, dobbiamo pensare a
lungo e fortemente a cosa siamo»,
scrive Stock [alias]
().
Aggiungiamo: a ciò che davvero vogliamo diventare. Meglio
ancora, nietzschanamente: a come rispondere all'imperativo di
"diventare ciò che siamo".
D'altronde,
è vero che se il gene mira semplicemente alla propria
propagazione ciò che invece è politicamente e
culturalmente rilevante è ovviamente il fenotipo – le
caratteristiche oggettive delle popolazioni reali e concrete. Un
improbabile ricorso o fiducia "di destra" in una supposta
selezione naturale dovrebbe fare i conti con il fatto che gli effetti
della medicina moderna o degli antibiotici non sono di per sé
distinguibili da quelli delle vaccinazioni, della profilassi, delle
bonifiche, di un'alimentazione corretta, dell'igiene, dell'educazione
fisica e dello sport di massa, tutte pratiche "salutari"
che di fatto eliminano od attenuano oggettive pressioni selettive
preesistenti – e pure pratiche promosse anche e proprio dai regimi politici che nel secolo scorso hanno fatto proprie più
pienamente preoccupazioni di tipo eugenetico ().
Le
stesse tecniche eugenetiche, in particolare quelle che tendono a
limitare il rischio di nascita di individui colpiti da tare – nella
prima metà del secolo scorso attraverso il ricorso
all'anamnesi familiare dei membri della coppia e a deduzioni
mendeliane, oggi soprattutto attraverso lo screening genetico dei
genitori e la diagnosi prenatale – possono contribuire a
modificare il successo statistico di alcuni geni. Come nota Harry
Harris, «una donna con il gene dell'emofilia, cioè una
"portatrice" sana, che rinuncerebbe ad avere figli per il
timore di avere maschi emofiliaci, soggetti a morire di emorragia al
minimo incidente, potrebbe scegliere di averne se sa di poter
prevedere ed abortire gli eventuali maschi emofilici e di poter
partorire una femmina o un maschio non emofiliaco, di cui risultasse
invece gravida» ().
Il risultato di una politica che oggettivamente elimina la comparsa di una tara genetica rilevante può essere così
l'incremento (desiderabile, indesiderabile o indifferente, ma
di cui va tenuto conto) del numero di individui eterozigoti e sani,
ma portatori del gene stesso ().
L'alternativa "naturale" è d'altronde... la presenza
di individui affetti da emofilia conclamata tra la popolazione –
nonché, per estensione, di estese componenti della popolazione
stessa affette da rachitismo, malaria, scorbuto, postumi del vaiolo,
etc.
Il
ricorso ad una "selezione naturale", che nel caso della
nostra specie appare del tutto mitica, rischia così di essere
semplicemente funzionale alla creazione di popolazioni analoghe a
quelle che la natura provvede in effetti a "selezionare"
per i ratti, le erbacce o gli sciacalli.
Un'adeguata
risposta alla minaccia disgenica difficilmente potrebbe essere fatta
consistere in una scelta implicita a favore di una popolazione di
taglia medio-piccola, afflitta e sfigurata da carenze alimentari,
malattie debilitanti e parassiti, mediocre nelle sue prestazioni
psicofisiche ma capace di nutrirsi di immondizia, resistere in mezzo
ad un letamaio ed infestare qualsiasi ambiente, aggressiva ma
vigliacca, indiscriminatamente promiscua e stolidamente pigra, dalla
socialità indebolita al limite del cannibalismo, con una vita
media brevissima – scenario questo in cui pure un'ipotetica
selezione "naturale" umana, magari post-atomica (),
si esprimerebbe al meglio. Per esempio, pestilenze endemiche o
innalzati livelli di inquinamento chimico, radioattivo o biologico –
sempre naturalmente che fossero almeno marginalmente compatibili con
la sopravvivenza della specie – accentuerebbero certo la resistenza
media dei sopravvissuti a tali fattori, ma difficilmente potrebbero
essere considerati come un fattore di miglioramento della salute
della popolazione coinvolta.
Konrad
Lorenz rileva come negli animali la "domesticazione"
comporterebbe la perdita di caratteristiche comunemente considerate
"nobili", e in linea di massima la riduzione dell'acutezza
sensoriale, la tendenza all'obesità, l'accorciamento degli
arti, la cronicizzazione di atteggiamenti e comportamenti
infantiloidi, la diminuzione delle risposte immunitarie, l'incapacità
di sopravvivere in natura ().
A fronte di ciò può essere opposto il fatto che frutto
di una selezione del tutto artificiale sono non solo i
barboncini e i conigli di allevamento, ma gli alani, i levrieri, i
tori da corrida, i gatti siamesi, i purosangue arabi ed inglesi,
certo più "delicati" in termini di generica capacità
di sopravvivenza dei brocchi, dei bastardini randagi o dei coyote, ma
che è davvero difficile considerare "inferiori" a
questi ultimi sotto qualsiasi altro profilo.
L'alternativa
non è perciò tra una selezione "naturale" –
che sarebbe comunque... artificialmente mantenuta – da un lato, e
l'abolizione dei fattori selettivi dall'altro; ma tra una
programmazione cosciente e deliberata delle caratteristiche (anche)
genetiche della popolazione di riferimento (),
e la determinazione di tali caratteristiche da parte di fattori
deliberatamente incontrollati o randomizzati o comunque sottratti ad
una scelta umana e politica (il mercato, gli "effetti
collaterali del progresso", la volontà divina,
l'imperativo morale di un umanitarismo indiscriminato a favore dei
membri di certe fascie sociali ed etniche dei paesi occidentali...).
Un
altro modo di vedere la minaccia disgenica consiste
nell'interpretarla come complesso di condizioni che nascondono,
impediscono o modificano un'espressività, arbitrariamente
assunta come "naturale", dei geni implicati (ad esempio,
attraverso la somministrazione di insulina ai malati, di quelli che
predispongono al diabete); con la conseguenza di rendere inefficaci o
distorcere non solo le ordinarie pressioni selettive, ma altresì
la cosiddetta "selezione sessuale", ovvero quella legata
alle scelte ed inclinazioni dei potenziali partner riproduttivi, ad
esempio tramite la modificata "leggibilità delle
caratteristiche genetiche della controparte" che di per sé
comportano l'abbigliamento o la chirurgia estetica, i trattamenti
cosmetici e farmacologici, e più in generale stili di vita
orientati e culturalmente determinati .
La consapevolezza di tali potenzialità in termini di "falsificazione" è
molto antica, e la cosa può non essere estranea al particolare
significato sessuale della nudità, specie femminile, in molte
culture. Una misura apertamente eugenetica era del resto l'abitudine
spartana di imporre alle fanciulle di mostrarsi a torso nudo nel
ginnasio agli uomini destinati a sceglierle, e lo stesso naturismo
tedesco all'inizio del novecento muoveva originariamente da
premesse analoghe. Non è un caso che tale ordine di idee collida
direttamente con l'atteggiamento, non solo eventualmente sessuofobico,
ma ancora più generalmente e radicalmente anti-eugenetico, di tutte le religioni monoteiste.
Esistono
d'altronde problematiche anche più complesse. Appare ad
esempio perfettamente possibile che i prossimi anni vedano, come è
negli auspici delle già citate correnti del life-extensionism, l'affermazione di tecniche che consentano il raggiungimento magari
non dell'immortalità biologica, ma di una longevità più
o meno estrema rispetto ai valori attuali ().
Se si accetta l'ipotesi sociobiologica, singolarmente
anti-darwiniana, che l'invecchiamento e la morte stessa degli
organismi superiori e sessuati sono caratteristiche geneticamente
programmate, e in particolare funzionali alla perpetuazione e
sviluppo dell'informazione genetica attraverso l'eliminazione
periodica dei relativi "veicoli" ed il rimescolamento
continuo consentito dalla successione degli accoppiamenti e delle
generazioni (),
anche una novità di questo tipo potrebbe essere interpretata
esattamente come un fattore disgenico, con conseguenze di enorme
portata non solo in termini culturali, ma rispetto alle dinamiche
demografiche, all'invecchiamento della popolazione, all'identità
stessa della specie, specie in riferimento alle dinamiche tra i
gruppi che la compongono ().
La
questione della sostenibilità di un tale mutamento pone
problemi che è difficile risolvere restando nell'ambito dei
valori egualitari ed umanisti, ad esempio se le tecniche della
longevità si rivelassero di un costo tale da impedirne, anche
nel breve periodo (),
l'applicazione generalizzata, e/o da sottrarre risorse che sarebbero
diversamente destinate ad altri progetti sociali, per esempio quelli
concernenti l'assistenza sanitaria di massa ().
Che fare? Vietare incondizionatamente le tecniche in questione
(arrogandosi implicitamente il potere di decidere della morte
anticipata degli interessati) ?
Tentare di sottrarsi alla responsabilità di scegliere cosa
farne delegando all'uopo meccanismi pretesamente "automatici"
come il mercato (cosa che com'è ovvio rappresenta ugualmente
una scelta, soltanto più "inumana" di altre in
quanto in sostanza basata sul censo)?
Su
scala molto inferiore, siamo già di fronte a questioni di
questo tipo con riferimento al problema della distribuzione dei
farmaci contro l'AIDS nei paesi "in via di sviluppo". Abbiamo da un lato il
monopolio brevettuale esercitato dalle multinazionali farmaceutiche
in forza di una legislazione protettiva che si giustifica per la sua
"razionalità" economica, cosa che consente in certa
misura di evadere il problema della scelta di valore. Dall'altro,
esiste l'esigenza "umanitaria" di distribuire sottocosto
tali farmaci, anche se questo nella logica del sistema attuale mina
ovviamente la capacità di autofinanziarne l'ulteriore
sviluppo. Le cose sono poi peggiorate dal fatto che i farmaci
suddetti non guariscono l'infezione, ma si limitano (entro certi
limiti) a aumentare l'aspettativa di vita delle persone infette, e
pertanto, in ultima analisi,... aggravano i costi sociali
dell'infezione stessa, ne consentono l'ulteriore diffusione nelle
popolazioni coinvolte, e prevengono lo sviluppo selettivo di un più
alto grado di immunità o resistenza geneticamente determinata
alla malattia!
Resta
naturalmente l'argomento per cui anche l'estinzione della specie
potrebbe essere considerata un prezzo accettabile per il rispetto di
esigenze di carattere essenzialmente morale, che vietano appunto
all'uomo di rendersi "simile a Dio" e assumere su di sé
la scelta del destino biologico della specie, o, più
direttamente e praticamente, della propria concreta popolazione di
riferimento.
Nessuna
Provvidenza garantisce in effetti la sopravvivenza della nostra
specie a prescindere dalle circostanze ().
I dinosauri dominavano la Terra, e sono scomparsi. L'Homo sapiens non è stata l'unica specie intelligente dell'universo; senza
scomodare altri sistemi solari, sappiamo ormai con certezza che i
Neanderthaliani erano intelligenti, e che non erano una razza di
uomini, ma una specie diversa ();
e tale specie meno di trentamila anni fa si è del
tutto estinta, come del resto sono oggi estinte la stragrande
maggioranza delle specie che in un'epoca o in un'altra hanno abitato
il pianeta (). A maggior ragione, ed ancora più facilmente, può
estinguersi del tutto – tranne forse negli studi di qualche
paleontologo o archeologo o filologo del futuro – la singola,
specifica popolazione cui ciascuno di noi appartiene.
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