Biopolitica. Il nuovo paradigma
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naturale, ambiente culturale e selezione (V)
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Specie
e razze
Quando
si discute di "popolazione di riferimento", in campo umano
pare sia oggi obbligatorio parlare esclusivamente della specie – cui corrispondono all'altro estremo soltanto gli individui singolarmente considerati.
La
"specie", almeno tra gli esseri viventi sessuati, ha
certamente una rilevanza tassonomica particolare, in quanto è
per definizione tutto e solo il gruppo di individui entro cui avviene
uno scambio genetico diretto, in particolare attraverso la capacità
dei suoi membri di procreare tra loro prole feconda; ma questo –
anche senza contare il prevedibile e progressivo sfumare di tale
confine ad opera dell'ingegneria genetica – non è ovviamente
l'unico raggruppamento possibile. Ciò non fosse altro che per
il fatto che il destino delle stirpi e linee germinali che la
compongono non è affatto necessariamente unitario; così
come non è affatto unitario il destino delle singole
caratteristiche presenti in una data specie, e della loro relativa
dominanza all'interno della specie stessa ().
La
logica di rimozione già descritta trova però
un'espressione saliente nell'eliminazione dal vocabolario del
concetto stesso di razza, come substrato propriamente
biologico dei popoli e delle culture che essi esprimono. In effetti,
c'è chi ha seriamente proposto di bandire tale termine,
curiosamente però soltanto per le accezioni che riguardano la
specie umana. In altri termini, è accettabile definire siamese
o soriano un gatto, ma è doveroso riconoscere che l'homo
sapiens sarebbe l'unica specie affetta un'incapacità
costituzionale di suddividersi in "razze" che abbiano una
qualsiasi base empirica riconoscibile allo zoologo o all'antropologo
(se non eventualmente per il pregiudizio ideologico "razzista"
di quest'ultimo) ().
Il famoso musicologo ed indianista Alain
Daniélou diceva già negli anni ottanta: «Il
timore di infrangere tabù concernenti l'uso blasfemo di parole
proibite fa sì che i più grandi scienziati, sociologi,
biologi, psicologi, storici, impiegano sbalorditive circonlocuzioni
per evitare di essere accusati di eresia razzista, cosa che farebbe
immediatamente condannare la loro opera» ().
Ma
ritorniamo al testo di Jacquard già più volte citato: «Fin da quando si è
cominciato ad osservare un insieme complesso come quello degli
uomini, si è avvertita la necessità di mettere a punto
classificazioni, raggruppamenti che riferissero ad una stessa
categoria gli individui che sembravano più simili. Affinché
tale classificazione abbia un senso biologico occorre naturalmente
che i caratteri che permettano di rilevare le somiglianze siano
ereditari e che presentino una certa stabilità da una
generazione all'altra. I primi tentativi di classificazione erano
necessariamente basati solo sui dati forniti direttamente
dall'osservazione: le forme e il colore della pelle degli individui;
queste classificazioni potevano essere sottili, tener conto di
parametri complessi, ma, per il modo in cui erano costruite, non
potevano che riferirsi all'"universo dei fenotipi". [...] A seconda
delle caratteristiche studiate (),
le classi o "razze" [le virgolette dell'autore servono
forse ad esorcizzare la parolaccia] così definite potevano
variare e c'erano vivaci polemiche fra coloro che come H. Vallois
consideravano 4 razze principali e 25 secondarie e quelli che ne
contavano 20, o 29 o 40...».
Annotazione
questa certo storicamente interessante, ma poco utile a negare il
valore operativo del concetto che l'autore attacca, posto che
esistono tuttora simili dispute in biologia sul numero o sulla
unitarietà di famiglie o generi o phyla, che per definizione
dovrebbero essere legati a caratteristiche ben più radicali e
meno elusive di quelle che distinguono le varie razze all'interno
della stessa specie.
Continua
Jacquard: «Le scoperte della genetica hanno finalmente permesso
di precisare la problematica, fornendo la possibilità di dare
un contenuto più oggettivo al concetto di razza: una razza è
un insieme di individui che hanno in comune una parte considerevole
del loro patrimonio genetico. In questo caso, si tratta di
caratteristiche intrinseche dei diversi gruppi umani, indipendenti
dalle loro condizioni di vita: la classificazione riguarda
l'"universo dei genotipi". Si può così
sperare di ottenere risultati chiari, che riscuotano un generale
consenso. Sfortunatamente il comportamento delle persone di scienza
in questo campo è stato quello, denunciato dalle Scritture, di
"mettere il vino nuovo nelle botti vecchie", cioè di
interpretare osservazioni nuove secondo concetti vecchi. Nonostante
progressi notevoli nella conoscenza, la confusione degli spiriti è
solo cresciuta».
Il
prosieguo dell'esposizione resta sul medesimo tono predicatorio e
moralistico: «Non è inutile, per cominciare, mettere a
confronto questi due termini, razza e razzismo:
-
uno si riferisce a ricerche scientifiche, legittime a priori (),
basate su dati oggettivi: lo scopo è di mettere a punto metodi
di classificazione degli individui che permettano di definire gruppi,
le "razze", relativamente omogenei;
-
l'altro richiama un atteggiamento dello spirito, necessariamente
soggettivo: si tratta di mettere a confronto le diverse razze
attribuendo un "valore" a ciascuna e stabilendo una
gerarchia.
È
evidente che le due attività sono distinte: si può
cercare di definire le razze senza minimamente essere "razzisti".
Il più delle volte, però, questa possibilità
rimane del tutto teorica. Il bisogno di dare una definizione delle
diverse razze è raramente motivato da un puro spirito di
tassonomista meticoloso di voler mettere ordine tra i dati; risulta
dal desiderio, così sviluppato nella nostra società
[sic!] di differenziare dagli altri il gruppo al quale si appartiene.
Corrisponde all'idea platonica di "tipo". Possiamo definire
la specie umana, ma è difficile precisare nei dettagli il tipo
umano ideale; sono necessari tipi diversi: il Bianco, il Negro,
l'Indiano, l'Esquimese, etc. [...] Una classificazione è
basata il più delle volte su un insieme di criteri, alcuni
oggettivi, altri soggettivi, che raramente non porta alla
compilazione di una gerarchia: le razze sono diverse, quindi alcune
sono "migliori" di altre. Si sa dove, seguendo questa
strada, sono potuti giungere certi dittatori».
L'epistemologia
di Jacquard è superata ed ingenua. Una categoria scientifica è
significativa per il suo valore descrittivo ed operativo, non per la
sua corrispondenza ad una verità "oggettiva". Dire
che i triangoli perfettamente rettangoli di cui tratta la geometria
"non esistono" è un'affermazione vera, ma banale,
che lascia del tutto intatta la loro utilità concettuale, o la
validità del teorema di Pitagora. Altrettanto stupido è
contestare il valore del concetto di quadrilatero sulla base del
fatto che talora viene invece fatto riferimento più
genericamente ai poligoni (che li comprendono) o più
specificamente ai parallelogrammi (che non li esauriscono).
Parimenti, il pendolo ideale, la macchina di Turing, i gas perfetti,
l'accelerazione esattamente costante, sono cose "inesistenti",
che però è perfettamente lecito, e proficuo, studiare.
L'attacco
all'approccio tipologico in antropologia, cui si associa ad esempio Theodosius
Dobzhansky [alias]
(),
è perciò giustificato unicamente nella misura in cui
l'antropologo criticato abbia un'idea "realista", ovvero in
qualche modo neoplatonica, dei tipi razziali proposti e studiati,
come era il caso degli antropologi positivisti ottocenteschi che
ipotizzavano che le varianti intrapopolazionali potessero essere
spiegate unicamente con la mescolanza e l'ibridazione di tipi "puri"
suppostamente preesistenti.
Risulta
invece perfettamente plausibile l'operazione consistente
nell'identificare, isolare, estrapolare ed esaltare un modello, un
"tipo", sulla base delle differenze tendenziali di
un gruppo di oggetti, o in questo caso di una popolazione o di sue
componenti individuate a priori, rispetto ad un background costituito
da una classe o popolazione inclusiva, ad esempio la specie ().
Tale tipo "puro" è certamente un tipo ideale,
ed in un certo modo arbitrario, ma le sue connotazioni risultano
ancora più significative con riguardo alle razze selezionate
artificialmente – quali almeno in parte possono essere considerate comunque le razze umane, per definizione successive
all'ominazione. Il mastino
napoletano perfetto può benissimo non essere mai esistito,
ma questo non rende particolarmente più difficile il lavoro
dell'allevatore, o della giuria di una mostra canina (né,
quando esistono canoni ideali sufficientemente condivisi, risulta
così difficile quello della giuria di un ordinario concorso di
bellezza femminile, a prescindere dal fatto che il modello di
bellezza preso a riferimento possa non essersi mai perfettamente
incarnato).
Ad
ogni modo, è proprio l'idea universalista di un'Umanità
unica e per ragioni morali "inscindibile", di un unico
"tipo" ideale per l'intera specie, che consente
eventualmente di stabilire gerarchie di valori in funzione del grado
di somiglianza e vicinanza di ciascuna popolazione ed individuo al
tipo suddetto.
In
tal senso, il riferimento di Jacquard a "certi dittatori" è
del tutto fantasioso: l'antropologia ispirata al nazionalsocialismo
mira da un lato all'identificazione (e al tempo stesso promozione) di
caratteristiche biologiche assunte come "superiori" o
"desiderabili" o "identificanti" all'interno
di una prospettiva etnoculturale e popolare ben definita, e del tutto
relativa; dall'altro alla loro difesa, ed affermazione
concorrenziale, rispetto alle altre macrorazze. Nessun teorico
od antropologo nazionalsocialista, e tanto meno Adolf Hitler, si è
è mai sognato di immaginare che i medesimi tratti razziali
dovessero essere propugnati o considerati "superiori" dal
punto di vista di un arabo o di un masai o di un giapponese, o che
fosse opportuna la loro diffusione all'interno delle relative etnie –
magari attraverso un processo di ibridazione con la razza europoide
()!
Questa non è altro che la proiezione dei fantasmi
dell'etnocentrismo universalista, che può variare nelle sue
versioni anglosassone e giacobina, ma resta invariabilmente
"missionario", "democratico" e "civilizzatore",
e non aspira ad altro se non a "benevolmente" rendere tutti
uguali .
Persino Julius Evola,
quello tra gli autori del razzismo fascista cui può essere con
maggior fondamento attribuita l'idea ambigua di una Verità o
di una Tradizione metafisicamente fondate ed indipendenti da una
identità e soggettività collettiva, finisce per
concludere: «[La
nostra mentalità] non si pone il problema di ciò che
sia il vero e il bene, ma si chiede per quale razza una data concezione può esser vera e una data norma può
essere valida e "buona". Lo stesso si dica nei riguardi
delle forme giuridiche, dei criteri estetici, perfino degli ideali di
conoscenza della natura. Una "verità", un valore o
criterio che per una data razza può esser valido e salutare,
per un altra può non esserlo, sì da condurre, quando da
essa sia accettato, ad uno snaturamento e ad una distorsione»
().
Del
resto, scriveva già l'autore tedesco che più di ogni altro ha ispirato al riguardo Evola,
ovvero Ludwig Ferdinand Clauss: «è
privo di senso ed antiscientifico voler guardare la razza
mediterranea con gli occhi della razza nordica e valutarla secondo la
scala nordica dei valori, così come insensato ed
antiscientifico sarebbe l'inverso. Forse Dio conosce l'ordine
gerarchico delle razze. Noi no. [...] Il valore oggettivo di una
razza potrebbe essere conosciuto solo da quell'uomo che stesse al di
là di ogni razza» ().
È
significativo del resto che mentre tutti i movimenti protofascisti e
fascisti si pongono, in gradi differenti, il problema della
composizione etnica e del substrato biologico della comunità
di riferimento, ciascuno di essi si riferisce al problema in modo
diversificato, e storicamente e localmente determinato in rapporto
alla comunità di riferimento (la "nordizzazione",
la "razza italica", la "razza turanica". etc.),
pur nella riaffermazione e nel riferimento al discrimine di una
comune identità (indo)europea fondamentale; così che in
tal caso davvero l'"amore per la differenza" si spinge sino
alla dimensione nazionale e regionale, e mira, come parrebbe logico,
ad aumentare le differenze, non a negarle in attesa (e nella
speranza) di annullarle prima o poi del tutto!
Ciò
detto, l'esistenza delle razze umane rientra in un dato evidente di
comune esperienza, e può essere negata unicamente per
pregiudizio ideologico. Tale intuizione condivisa da tutti è
ben definibile , come ammette Jacquard, anche in termini
rigorosamente biologici.
«Cosa
significa classificare? La tecnica che consente di farlo è
stata messa a punto dai matematici, e consiste nel calcolare una
"distanza": due individui sono tanto più simili
globalmente quanto più piccola è la distanza fra di
loro. Le formule che permettono di effettuare un simile calcolo sono
numerose: a uno stesso insieme di dati possiamo far corrispondere
diversi insiemi di distanze fra gli individui, a seconda che si
ricorra alla distanza "euclidea", alla "distanza
Manhattan" o alla "distanza del chi quadrato".
Supponiamo che dopo aver scelto determinati criteri di
classificazione e una formula per calcolare le distanze, sia stato
possibile determinare tutte le distanze di ciascun individuo e ognuno
degli altri (per quattro miliardi di individui il numero delle
distanze a due a due è dell'ordine di otto miliardi di
miliardi). Le "classi" che cerchiamo di definire avranno un
senso se le distanze fra gli individui di una stessa classe sono,
almeno in media, nettamente inferiori a quelle tra individui di
classi diverse. Il metodo più semplice, che senza dubbio resta
il più vicino al ragionamento intuitivo, è quello di
costruire un "albero": prima di tutto si uniscono i due
elementi più prossimi per costituire una classe formata da
questi due elementi, poi si riuniscono le classi più vicine;
il numero delle classi viene così a poco a poco ridotto,
finché non ne rimane che una che comprende tutto l'insieme».
Prosegue
Jacquard: «Come utilizzare tale albero per definire le razze?
Dobbiamo ancora compiere una scelta, quella del numero delle razze,
numero necessariamente compreso tra 1 (la razza e la specie sono
allora confuse) e n (tante razze quanti sono gli individui, il
che toglie ogni senso ai nostri sforzi). Se vogliamo distinguere x razze, dobbiamo tagliare l'albero ad una certa altezza. L'altezza
a cui tagliamo l'albero ha un senso preciso: rappresenta la perdita
di informazioni che si deve accettare per sostituire i dati iniziali,
che riguardano gli individui, con i dati globali che riguardano le
classi definite come "razze"».
Tale
perdita dipende dal numero di classi con cui si desidera avere a che
fare. Per non perdere nessuna informazione bisognerebbe restare
all'altezza zero, ovvero non effettuare nessun raggruppamento; se si
raggruppa l'insieme in un'unica categoria si perde viceversa la
totalità dell'informazione. «Non si tratta di negare
ogni valore al risultato di una classificazione, ma essere coscienti
della sua relatività», conclude Jacquard.
Di
nuovo, giova però notare che la coscienza della "relatività"
[pacifica] del risultato ottenuto non toglie affatto validità
al risultato stesso. Non solo.
Ricorda Dobzhansky [alias]:
«Immanuel
Kant, che fu naturalista prima di diventare filosofo, scrisse con
notevole intuizione nel 1775: "Negri e bianchi non sono specie
diverse di uomini (presumibilmente appartengono perciò ad uno
stesso ceppo), però costituiscono razze distinte, perché
ognuna si perpetua in ogni area di distribuzione, e i figli nati
dagli incroci sono necessariamente ibridi, o mulatti. D'altra parte,
biondi e bruni non sono differenti razze di bianchi, poiché un
uomo biondo può anche avere da una donna bruna soltanto figli
biondi, pur se ognuna di queste caratteristiche si conserva per molte
generazioni nonostante vari trapianti". In altri termini, Kant
comprese con chiarezza maggiore di certi autori recenti la
distinzione tra variabilità individuale (intrapopolazionale)
e di gruppo (interpopolazionale). [...] Servendoci della
terminologia moderna, possiamo così descrivere la situazione:
con l'unica eccezione dei gemelli monozigoti ()
due individui qualsiasi si differenziano per alcuni, e forse per
molti, geni. Genitori e figli, fratelli, parenti stretti e persone
senza apparenti legami di parentela presentano, in media, un numero
di geni diversi via via crescente. Il genotipo di un individuo è
unico, senza precedenti e aperiodico. La fonte prima della
variabilità genetica individuale è la segregazione
mendeliana in popolazioni a riproduzione sessuata ed esogame. Un
individuo è eterozigote rispetto a molti (probabilmente
migliaia o decine di migliaia) dei suoi geni. È improbabile
che due qualunque delle cellule sessuali da lui prodotte contengano
esattamente lo stesso assetto genetico; ugualmente differenziate sono
le cellule del partner; gli zigoti (i figli) che daranno alla luce
saranno, di norma, eterozigoti e diversificati per lo stesso numero
di geni dei genitori» ().
Continua Dobzhansky [alias]:
«Con la variabilità di gruppo le unità di
indagine non sono più i singoli, ma insiemi di individui
biologicamente e geneticamente imparentati, ovvero le popolazioni.
[...] Un individuo ha due genitori, quattro nonni, otto bisnonni, e
così via. Già in una trentina di generazioni il numero
degli antenati di ciascuno di noi supera la popolazione mondiale
attuale. Naturalmente tali numeri non sono mai esistiti. Malgrado le
limitazioni agli incroci più immediati frapposti dal tabù
dell'incesto, tutti i nostri progenitori sono parenti più o
meno alla lontana. Anche se siamo in grado di documentarlo solo in
pochissimi casi, tutti gli esseri umani sono imparentati. Se
riuscissimo ad elaborare un pedigree completo della specie umana, ne
risulterebbe un intricato reticolo sul quale ogni individuo sarebbe
più volte concatenato a tutti gli altri. Il genere umano è
una popolazione mendeliana complessa, con un pool genetico comune. I
geni di ogni individuo discendono dal pool, e, a meno che muoia senza
prole, una parte vi farà ritorno».
E
ancora: «D'altronde, l'umanità non è una
popolazione panmittica, cioè una popolazione ove ogni
singolo membro ha l'identica probabilità di accoppiarsi con
qualunque altro individuo del sesso opposto e dell'età adatta.
[Persino oggi,] è molto più probabile che un ragazzo
nato in Canada sposi una ragazza canadese che una cinese o una
ugandese. Al pari di molte specie animali e vegetali a riproduzione
sessuata, gli uomini si differenziano [geograficamente e per altri
fattori] in popolazioni mendeliane secondarie; il matrimonio tra
consanguinei nell'ambito di una popolazione secondaria è più
frequente che tra popolazioni diverse. L'umanità, come specie
biologica, è la popolazione mendeliana inclusiva. Al suo
interno, troviamo una gerarchia di popolazioni mendeliane secondarie,
parzialmente isolate tra loro per motivi geografici e nel nostro caso
culturali. Soltanto le ripartizioni più piccole – abitanti
di qualche villaggio, membri di una stessa classe sociale all'interno
di una piccola città – si possono considerare
approssimativamente panmittiche».
Le
razze corrispondono in questo senso all'astrazione delle
caratteristiche identificanti di popolazioni mendeliane secondarie
all'interno di una medesima specie ().
Ora,
un certo grado di segregazione riproduttiva rappresenta
un elemento fondamentale per il mantenimento – se non di per sé
sufficiente per la creazione – di tali popolazioni ().
Lo studio della differenziazione genetica di popolazioni
intraspecifiche resta comunque assai complesso. Sono stati in
particolare suggeriti tre modelli fondamentali. Il primo, il più
maneggiabile da un punto di vista matematico, è quello
dell'"isola"; gli altri due sono il modello
dell'isolamento progressivo in funzione della distanza su un'area
uniformemente abitata, e il modello del "trampolino".
Il modello dell'isola presuppone che la specie sia formata da colonie
discrete in cui prevale la panmissia, ma che ricevono una frazione m di immigranti provenienti dal resto della specie. L'isolamento delle
isole può variare nel tempo e nello spazio, con m oscillante da zero (isolamento completo) a uno (nessun isolamento).
Se gli "immigranti" provengono – come spesso si verifica
in pratica – da colonie vicine anziché indistintamente dal
resto della specie, abbiamo il modello del trampolino. Nell'uomo si
riscontrano situazioni conformi a tutti e tre i modelli, e anche agli
stadi intermedi tra di essi ().
Gli
studi classici nel campo delle popolazioni umane restano quelli di Cavalli-Sforza [alias]
(),
cui è tra l'altro capitato di studiare la "migrazione
matrimoniale" tra città e villaggi della diocesi di
Parma, così come Harrison ha analizzato i dati disponibili
relativamente alle comunità dell'Oxfordshire inglese ().
Entrambi gli autori hanno constatato che nei dati disponibili la
probabilità di matrimonio è una funzione esponenziale
negativa della distanza reciproca dei villaggi, ed è anche una
funzione della dimensione dei villaggi stessi: più numerosa è
la popolazione di un villaggio, maggiore è il numero dei
potenziali compagni ivi contenuti. Un altro fattore importante della
mobilità matrimoniale e sessuale, e di conseguenza del flusso
genico tra popolazioni mendeliane, è non soltanto la distanza
fisica, ma la facilità di spostamento. Nelle comunità
studiate da Cavalli-Sforza,
ad esempio, è stato possibile mettere in relazione la maggiore
mobilità, e anche la più elevata densità di
popolazione, che si riscontra in pianura con la differenziazione
genetica degli abitanti dei vari paesi.
Nel
1969, Neel e i suoi collaboratori effettuarono studi sulla frequenza di
venticinque geni differenti in trentanove villaggi della tribù
Yanomama dell'Orinoco superiore in Venezuela ().
Per parecchi geni si registrarono differenze molto sensibili a
seconda del villaggio considerato. Cavalli-Sforza attribuisce tali eterogeneità alla deriva genetica, non
essendo plausibile ipotizzare differenze locali a livello di
selezione naturale per popolazioni stanziate su un territorio
sostanzialmente identico. Secondo Neel,
«queste differenze riflettono principalmente il modo in cui
ebbero origine i nuovi villaggi», e ci raccontano perciò
in sostanza la storia della regione.
Quelli
precedenti sono d'altronde esempi di differenziazione microgeografica di popolazioni secondarie della specie umana. Certo, come osserva Dobzhansky [alias],
la differenziazione macrogeografica si distingue
quantitativamente più che qualitativamente: «Le
popolazioni umane vivono in un'ampia varietà di ambienti
fisici e culturali. Popolazioni insediate in differenti continenti e
porzioni delimitate dello stesso continente spesso presentano molti
geni dissimili; di conseguenza si diversificano in molte
caratteristiche morfologiche e fisiologiche. In altre parole,
l'umanità è un aggregato di popolazioni distinte in
senso razziale».
La
genetica delle popolazioni porta un contributo originale
all'identificazione e definizione delle identità razziali
suddette; contributo che si aggiunge,
più che sostituirsi,
al modello tipologico già discusso. Le popolazioni mendeliane
possono essere descritte in termini di incidenza di caratteristiche
separate, ed idealmente di alleli di geni varianti ().
In effetti, se si riportano su un grafico le frequenze di alleli
genici o di caratteristiche fenotipiche distinte, si osservano
regolarmente gradienti o clini di frequenze crescenti o descrescenti
verso qualche punto centrale, simili ad isobare genetiche.
Osserva
ancora Dobzhansky [alias]:
«L'allele 1B del sistema dei gruppi
sanguigni fondamentali (A, B, 0) raggiunge nell'Asia centrale e
nell'India settentrionale frequenze comprese tra il 25 e il 30%. Le
sue frequenze declinano verso occidente al 20-25% nella Russia
europea, al 5-10% nell'Europa occidentale e si abbassano ancor più
in alcune zone della Francia e della Spagna. Le frequenze
diminuiscono altresì in direzione sud-est, sino a giungere
praticamente a zero tra gli aborigeni australiani, e in direzione
nord-est sino al 10% tra gli esquimesi, per annullarsi di nuovo tra
gli amerindi puri. Il centro della pigmentazione chiara della pelle e
degli occhi si trova in Europa nord-occidentale: la pigmentazione si
scurisce verso est ma soprattutto verso sud, raggiungendo il massimo
nell'Africa sub-sahariana, nell'India meridionale e nella Melanesia.
L'indice di Roher (peso corporeo diviso per il cubo dell'altezza)
arriva ai valori massimi tra gli esquimesi ed è al minimo in
Asia meridionale, in Africa e in Australia».
Tali
dati meritano un'analisi più approfondita, che come abbiamo
detto aggiunge qualcosa di significativo all'analisi tipologica. Se
la risultante complessiva di tutti i possibili gradienti genici o la
variazione nella distribuzione delle caratteristiche fenotipiche
fossero uniformi, le frequenze geniche aumenterebbero o
diminuirebbero regolarmente di tante unità percentuali per
tanti chilometri percorsi in una data direzione. Con gradienti
uniformi i confini delle razze potrebbero essere soltanto arbitrari;
e le razze sarebbero unicamente un modello "ideale". Al
contrario, spesso i gradienti sono molto ripidi in alcune direzioni o
zone, e più dolci od assenti in altre.
Conclude Dobzhansky [alias]:
«Consideriamo due alleli genici, A1 e A2 in una specie con
un'area di distribuzione di 2100 chilometri. Supponiamo che per 1000
chilometri la frequenza di A1 declini dal 100 al 90%, per i
successivi 100 chilometri dal 90 al 10, e per i restanti 1000 dal 10
allo 0%. Chiunque vede che è ragionevole e conveniente
dividere la specie in due razze, rispettivamente caratterizzate dalla
predominanza di A1 e A2, e tracciare un confine geografico nel punto
in cui il clino è scosceso».
Ma
se ciò non bastasse, esistono tra le razze umane, oltre che
significativi ed improvvisi sbalzi quantitativi nella
distribuzione dei geni – che nella loro risultante complessiva
danno ragione della convergenza delle nostre intuizioni tipologiche
al riguardo, malgrado la presenza in ciascun individuo di un certo
numero di caratteristiche che sono dominanti in altre razze e invece
minoritarie nella sua –, differenze cosiddette qualitative,
che si definiscono come quelle in cui l'appartenenza ad una data
popolazione si rileva del tutto determinante quanto alle possibili
caratteristiche individuali. Cosa che si verifica evidentemente
quando un allele o un insieme di alleli genici si presentano nel
cento per cento di una popolazione, e sono del tutto assenti in
un'altra.
Un
carattere di questo tipo, che non a caso ha assunto storicamente una
valenza simbolica particolare, è il colore della pelle. Come
osservò già Darwin:
«Di tutte le differenze tra le razze umane il colore della
pelle è la più cospicua e una delle meglio marcate».
Anche se il meccanismo soggiacente pare sia in realtà più
complicato, tale carattere si comporta esattamente come se fosse
controllato da quattro coppie di geni con effetti addittivi. Ora, è
ben vero che come nota André Langaney ()
si può passare senza discontinuità dagli uomini più
chiari (gli europoidi del nord) agli uomini più scuri,
nell'esempio i Sara del Ciad, scegliendo gli intermediari solo in
altre due popolazioni, i Nordafricani e i Boscimani; ma non esiste
semplicemente nessuna possibilità che un indigeno
dell'Africa subsahariana (a parte i casi di albinismo) nasca con una
pigmentazione chiara come un europeo, né che un europeo etnico
nasca con la pigmentazione scura come un africano o un melanesiano, qualsiasi possa essere la gamma di variazioni individuali presenti
nelle rispettive popolazioni di appartenenza per altre
caratteristiche. Anzi, pur essendo tutte le variazioni della
pigmentazione cutanea dipendenti in sostanza dalla quantità di melanina prodotta, è assai dubbio che le variazioni intrarazziali (le variazioni di colore all'interno della stessa popolazione
genetica) siano comandate dagli stessi geni che governano le
variazioni interrazziali (ovvero le variazioni stabilmente
esistenti tra una razza e l'altra).
Esistono
a quanto pare varie altre caratteristiche dello stesso tipo, o molto
simili, pur se meno vistose. Uno degli alleli del sistema
Rh (cDe) supera spesso frequenze del cinquanta in popolazioni
africane, ma ha percentuali tanto basse altrove da essere coerente
con la probabilità di progeniture africane recenti nei
pochissimi portatori. Aggiunge Dobzhansky [alias]:
«Un allele del locus
'Diego' sembra mancare tra gli Europei e presentarsi regolarmente
tra gli Amerindi, pur non raggiungendo il 100%. Un allele del sistema
Duffy ha frequenze superiori al novanta per cento tra i negri
dell'Africa occidentale, e di nuovo è praticamente assente tra
gli europei».
Certo,
è perfettamente vero che la maggior parte delle singole caratteristiche si presentano distribuite in modo irregolare e
diversificato attraverso le razze, e che i determinismi genetici di
tali caratteristiche sono ancora nella maggior parte dei casi poco
noti, a cominciare da quelli che regolano il rapporto tra le
dimensioni della testa (determinando la "dolicocefalia" e
la "brachicefalia"). Altri caratteri, nonostante dipendano
rigorosamente dal patrimonio genetico, sono poco stabili, come
l'altezza; è noto infatti come il ventesimo secolo abbia visto
un aumento molto rapido della statura media nei paesi
industrializzati, per ragioni non interamente chiarite, e del tutto a
prescindere dalla taglia media della razza di appartenenza delle
relative popolazioni.
Ugualmente,
rileva Jacquard,
«le popolazioni di pelle scura si trovano soprattutto in
Melanesia, ovvero nella parte sudoccidentale del Pacifico, nella
penisola indiana e nell'Africa a sud del Sahara. Indipendentemente
dalla comune vicinanza di tali regioni all'equatore, e dalla
questione se ciò possa costituire un argomento in funzione di
una valenza adattativa di tale caratteristica (cosa su cui del resto
sono stati recentemente avanzati dubbi), va notato come queste tre
popolazioni non possono in alcun modo essere considerate come
costituenti una "razza"; a parte il colore della pelle,
tutto le differenzia: l'analisi dei loro sistemi sanguigni, ad
esempio, mostra come sia impossibile considerarle come tre rami
provenienti da uno stesso gruppo; il loro "albero filogenetico"
non può essere rappresentato da tre diramazioni di uno stesso
tronco. Se così fosse, nell'ipotetica popolazione antenata
sarebbero presenti altri caratteri, oltre il colore nero, che si
ritroverebbero in questi tre insiemi di popolazione. Questa
constatazione mostra come una classificazione basata solo sul colore
della pelle non può avere un senso biologico; è un
fatto molto irritante per chi ritiene possibile una definizione delle
razze fondata solo su questo criterio» (sarebbe d'altronde
facile obbiettare che resta però vero il contrario, ovvero che la pigmentazione chiara degli europoidi rappresenta un caso
sufficientemente unico, con l'eventuale modesta eccezione
rappresentata dagli Ainu [alias]
nel nord del Giappone – di cui comunque sono state ipotizzate
parentele protoindoeuropee).
Ma
anche qui lo studioso sceglie, a fini retorici, bersagli immaginari
per proclami di natura morale. Nessun antropologo ha mai
davvero immaginato che un melanesiano ed uno zulu appartengano allo
stesso gruppo razziale per il fatto di essere ugualmente neri, né
viceversa foss'anche il più sprovveduto militante analfabeta
del Ku
Klux Klan [alias] ha mai considerato un negro albino come facente parte, per
"merito" di tale affezione, del suo gruppo razziale.
La
verità è che è l'esperienza quotidiana a
confermare quanto sia facile indovinare almeno il grande gruppo
razziale di appartenenza di qualcuno a partire da una foto in bianco
e nero con un tempo di esposizione ignoto, o persino da un identikit,
pur essendo impossibile in tali condizioni appurare quanto sia scura
la pelle della persona ritratta, e rientrando invece in conto, in
tale valutazione, il soppesamento inconscio di una serie di parametri
quantitativi, che magari rientrano tutti nell'arco di variabilità
interna delle singole razze che presentano le relative
caratteristiche, ma la cui convergenza non lascia dubbi nella maggior
parte dei casi neppure ad un osservatore non particolarmente
perspicace – e neppure ad un "sistema esperto" ben
addestrato in esecuzione su un elaboratore elettronico.
Sembra
perciò del tutto implausibile concludere, come fa Jacquard,
che «l'accumulazione di dati sempre più precisi, la loro
trattazione con procedimenti sempre più complessi non porta
che a rendere più difficile la classificazione delle diverse
popolazioni che compongono la nostra specie». Semmai tale
classificazione diventa anzi più raffinata, documentata e penetrante.
L'unica
ragione che motiva la opposta conclusione di chi la pensa come
Jacquard è la tesi che si vuole dimostrare, avanzata per
ragioni nient'affatto scientifiche.
Continua
infatti il biologo francese: «Così, la visione tanto
chiara della geografia della nostra infanzia, i Bianchi, i Gialli, i
Neri, è adesso ingarbugliata: non si riscontra più
alcuna linea direttrice. La ricerca scientifica, non sarà
forse stata fuorviata? In realtà, il ruolo della scienza non è
quello di fornire infallibilmente risposte a tutti gli interrogativi.
A certe domande non si deve rispondere [corsivo nostro]; dare
una risposta anche parziale o imprecisa a una domanda assurda è
farsi complici di una mistificazione, essere colpevoli di un abuso di
fiducia. Se la classificazione degli uomini in gruppi più o
meno omogenei, che si possono chiamare 'razze', avesse senso
biologico reale, il ruolo della biologia sarebbe quello di stabilire
al meglio tale classificazione; ma questa classificazione non ha
senso. È vero che il mio amico Lampa, contadino Bedick del
Senegal orientale, è molto nero e io sono grosso modo bianco,
ma alcuni dei suoi gruppi sanguigni potrebbero essere più
vicini ai miei di quelli del mio vicino di pianerettolo, il signor
Dupont. Il risultato messo in rilievo da Lewontin
[alias] ()
significa che la distanza biologica che mi separa dal Sig. Dupont è,
in media, solo un quinto inferiore dalle distanze che mi separano da
Lampa [...] Questa piccola differenza merita tutta l'attenzione che
da secoli le accordiamo?».
Tale
chiusa ad effetto – che trascura di considerare che Jacquard, se
per questo, come tutti gli esseri umani ha anche in comune il 98% del
proprio corredo genetico con gli scimpanzé (),
pure per tale risibile differenza percentuale pregiudizialmente
esclusi, immaginiamo, dal giro delle sue amicizie più intime –
illustra esemplarmente il fenomeno psicologico della rimozione già
più volte citato: se qualcosa è intollerabile, non
esiste; e se anche esistesse è opportuno, doveroso, fare finta
che non ci sia.
Capita
invece che l'esistenza delle razze, ovvero la relativa segregazione e
"tipificazione" delle varianze tra le popolazioni degli
esseri umani, così come di qualsiasi altra specie animale e
vegetale, è esattamente ciò che fornisce il materiale
genetico per l'emersione, il mantenimento e la selezione di quella differenza – ovvero ricchezza, flessibilità, polimorfismo di tratti stabili di gruppo – al cui "elogio" Jacquard pure intitola con involontaria ironia il suo pamphlet e cui, non a
torto, viene attribuita decisiva valenza con riguardo
all'adattabilità e alle chance di sopravvivenza a lungo
termine di una specie.
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naturale, ambiente culturale e selezione (V)
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