Biopolitica. Il nuovo paradigma


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Specie e razze


Quando si discute di "popolazione di riferimento", in campo umano pare sia oggi obbligatorio parlare esclusivamente della specie – cui corrispondono all'altro estremo soltanto gli individui singolarmente considerati.

La "specie", almeno tra gli esseri viventi sessuati, ha certamente una rilevanza tassonomica particolare, in quanto è per definizione tutto e solo il gruppo di individui entro cui avviene uno scambio genetico diretto, in particolare attraverso la capacità dei suoi membri di procreare tra loro prole feconda; ma questo – anche senza contare il prevedibile e progressivo sfumare di tale confine ad opera dell'ingegneria genetica – non è ovviamente l'unico raggruppamento possibile. Ciò non fosse altro che per il fatto che il destino delle stirpi e linee germinali che la compongono non è affatto necessariamente unitario; così come non è affatto unitario il destino delle singole caratteristiche presenti in una data specie, e della loro relativa dominanza all'interno della specie stessa (142).

La logica di rimozione già descritta trova però un'espressione saliente nell'eliminazione dal vocabolario del concetto stesso di razza, come substrato propriamente biologico dei popoli e delle culture che essi esprimono. In effetti, c'è chi ha seriamente proposto di bandire tale termine, curiosamente però soltanto per le accezioni che riguardano la specie umana. In altri termini, è accettabile definire siamese o soriano un gatto, ma è doveroso riconoscere che l'homo sapiens sarebbe l'unica specie affetta un'incapacità costituzionale di suddividersi in "razze" che abbiano una qualsiasi base empirica riconoscibile allo zoologo o all'antropologo (se non eventualmente per il pregiudizio ideologico "razzista" di quest'ultimo) (143). Il famoso musicologo ed indianista Alain Daniélou diceva già negli anni ottanta: «Il timore di infrangere tabù concernenti l'uso blasfemo di parole proibite fa sì che i più grandi scienziati, sociologi, biologi, psicologi, storici, impiegano sbalorditive circonlocuzioni per evitare di essere accusati di eresia razzista, cosa che farebbe immediatamente condannare la loro opera» (144).

Ma ritorniamo al testo di Jacquard già più volte citato: «Fin da quando si è cominciato ad osservare un insieme complesso come quello degli uomini, si è avvertita la necessità di mettere a punto classificazioni, raggruppamenti che riferissero ad una stessa categoria gli individui che sembravano più simili. Affinché tale classificazione abbia un senso biologico occorre naturalmente che i caratteri che permettano di rilevare le somiglianze siano ereditari e che presentino una certa stabilità da una generazione all'altra. I primi tentativi di classificazione erano necessariamente basati solo sui dati forniti direttamente dall'osservazione: le forme e il colore della pelle degli individui; queste classificazioni potevano essere sottili, tener conto di parametri complessi, ma, per il modo in cui erano costruite, non potevano che riferirsi all'"universo dei fenotipi". [...] A seconda delle caratteristiche studiate (145), le classi o "razze" [le virgolette dell'autore servono forse ad esorcizzare la parolaccia] così definite potevano variare e c'erano vivaci polemiche fra coloro che come H. Vallois consideravano 4 razze principali e 25 secondarie e quelli che ne contavano 20, o 29 o 40...».

Annotazione questa certo storicamente interessante, ma poco utile a negare il valore operativo del concetto che l'autore attacca, posto che esistono tuttora simili dispute in biologia sul numero o sulla unitarietà di famiglie o generi o phyla, che per definizione dovrebbero essere legati a caratteristiche ben più radicali e meno elusive di quelle che distinguono le varie razze all'interno della stessa specie.

Continua Jacquard: «Le scoperte della genetica hanno finalmente permesso di precisare la problematica, fornendo la possibilità di dare un contenuto più oggettivo al concetto di razza: una razza è un insieme di individui che hanno in comune una parte considerevole del loro patrimonio genetico. In questo caso, si tratta di caratteristiche intrinseche dei diversi gruppi umani, indipendenti dalle loro condizioni di vita: la classificazione riguarda l'"universo dei genotipi". Si può così sperare di ottenere risultati chiari, che riscuotano un generale consenso. Sfortunatamente il comportamento delle persone di scienza in questo campo è stato quello, denunciato dalle Scritture, di "mettere il vino nuovo nelle botti vecchie", cioè di interpretare osservazioni nuove secondo concetti vecchi. Nonostante progressi notevoli nella conoscenza, la confusione degli spiriti è solo cresciuta».

Il prosieguo dell'esposizione resta sul medesimo tono predicatorio e moralistico: «Non è inutile, per cominciare, mettere a confronto questi due termini, razza e razzismo:
- uno si riferisce a ricerche scientifiche, legittime a priori (146), basate su dati oggettivi: lo scopo è di mettere a punto metodi di classificazione degli individui che permettano di definire gruppi, le "razze", relativamente omogenei;
- l'altro richiama un atteggiamento dello spirito, necessariamente soggettivo: si tratta di mettere a confronto le diverse razze attribuendo un "valore" a ciascuna e stabilendo una gerarchia.
È evidente che le due attività sono distinte: si può cercare di definire le razze senza minimamente essere "razzisti". Il più delle volte, però, questa possibilità rimane del tutto teorica. Il bisogno di dare una definizione delle diverse razze è raramente motivato da un puro spirito di tassonomista meticoloso di voler mettere ordine tra i dati; risulta dal desiderio, così sviluppato nella nostra società [sic!] di differenziare dagli altri il gruppo al quale si appartiene. Corrisponde all'idea platonica di "tipo". Possiamo definire la specie umana, ma è difficile precisare nei dettagli il tipo umano ideale; sono necessari tipi diversi: il Bianco, il Negro, l'Indiano, l'Esquimese, etc. [...] Una classificazione è basata il più delle volte su un insieme di criteri, alcuni oggettivi, altri soggettivi, che raramente non porta alla compilazione di una gerarchia: le razze sono diverse, quindi alcune sono "migliori" di altre. Si sa dove, seguendo questa strada, sono potuti giungere certi dittatori».

L'epistemologia di Jacquard è superata ed ingenua. Una categoria scientifica è significativa per il suo valore descrittivo ed operativo, non per la sua corrispondenza ad una verità "oggettiva". Dire che i triangoli perfettamente rettangoli di cui tratta la geometria "non esistono" è un'affermazione vera, ma banale, che lascia del tutto intatta la loro utilità concettuale, o la validità del teorema di Pitagora. Altrettanto stupido è contestare il valore del concetto di quadrilatero sulla base del fatto che talora viene invece fatto riferimento più genericamente ai poligoni (che li comprendono) o più specificamente ai parallelogrammi (che non li esauriscono). Parimenti, il pendolo ideale, la macchina di Turing, i gas perfetti, l'accelerazione esattamente costante, sono cose "inesistenti", che però è perfettamente lecito, e proficuo, studiare.

L'attacco all'approccio tipologico in antropologia, cui si associa ad esempio Theodosius Dobzhansky [alias] (147), è perciò giustificato unicamente nella misura in cui l'antropologo criticato abbia un'idea "realista", ovvero in qualche modo neoplatonica, dei tipi razziali proposti e studiati, come era il caso degli antropologi positivisti ottocenteschi che ipotizzavano che le varianti intrapopolazionali potessero essere spiegate unicamente con la mescolanza e l'ibridazione di tipi "puri" suppostamente preesistenti.

Risulta invece perfettamente plausibile l'operazione consistente nell'identificare, isolare, estrapolare ed esaltare un modello, un "tipo", sulla base delle differenze tendenziali di un gruppo di oggetti, o in questo caso di una popolazione o di sue componenti individuate a priori, rispetto ad un background costituito da una classe o popolazione inclusiva, ad esempio la specie (148). Tale tipo "puro" è certamente un tipo ideale, ed in un certo modo arbitrario, ma le sue connotazioni risultano ancora più significative con riguardo alle razze selezionate artificialmente – quali almeno in parte possono essere considerate comunque le razze umane, per definizione successive all'ominazione. Il mastino napoletano perfetto può benissimo non essere mai esistito, ma questo non rende particolarmente più difficile il lavoro dell'allevatore, o della giuria di una mostra canina (né, quando esistono canoni ideali sufficientemente condivisi, risulta così difficile quello della giuria di un ordinario concorso di bellezza femminile, a prescindere dal fatto che il modello di bellezza preso a riferimento possa non essersi mai perfettamente incarnato).

Ad ogni modo, è proprio l'idea universalista di un'Umanità unica e per ragioni morali "inscindibile", di un unico "tipo" ideale per l'intera specie, che consente eventualmente di stabilire gerarchie di valori in funzione del grado di somiglianza e vicinanza di ciascuna popolazione ed individuo al tipo suddetto.

In tal senso, il riferimento di Jacquard a "certi dittatori" è del tutto fantasioso: l'antropologia ispirata al nazionalsocialismo mira da un lato all'identificazione (e al tempo stesso promozione) di caratteristiche biologiche assunte come "superiori" o "desiderabili" o "identificanti" all'interno di una prospettiva etnoculturale e popolare ben definita, e del tutto relativa; dall'altro alla loro difesa, ed affermazione concorrenziale, rispetto alle altre macrorazze. Nessun teorico od antropologo nazionalsocialista, e tanto meno Adolf Hitler, si è è mai sognato di immaginare che i medesimi tratti razziali dovessero essere propugnati o considerati "superiori" dal punto di vista di un arabo o di un masai o di un giapponese, o che fosse opportuna la loro diffusione all'interno delle relative etnie – magari attraverso un processo di ibridazione con la razza europoide (149)! Questa non è altro che la proiezione dei fantasmi dell'etnocentrismo universalista, che può variare nelle sue versioni anglosassone e giacobina, ma resta invariabilmente "missionario", "democratico" e "civilizzatore", e non aspira ad altro se non a "benevolmente" rendere tutti uguali 150.

Persino Julius Evola, quello tra gli autori del razzismo fascista cui può essere con maggior fondamento attribuita l'idea ambigua di una Verità o di una Tradizione metafisicamente fondate ed indipendenti da una identità e soggettività collettiva, finisce per concludere: «[La nostra mentalità] non si pone il problema di ciò che sia il vero e il bene, ma si chiede per quale razza una data concezione può esser vera e una data norma può essere valida e "buona". Lo stesso si dica nei riguardi delle forme giuridiche, dei criteri estetici, perfino degli ideali di conoscenza della natura. Una "verità", un valore o criterio che per una data razza può esser valido e salutare, per un altra può non esserlo, sì da condurre, quando da essa sia accettato, ad uno snaturamento e ad una distorsione» (151).

Del resto, scriveva già l'autore tedesco che più di ogni altro ha ispirato al riguardo Evola, ovvero Ludwig Ferdinand Clauss: «è privo di senso ed antiscientifico voler guardare la razza mediterranea con gli occhi della razza nordica e valutarla secondo la scala nordica dei valori, così come insensato ed antiscientifico sarebbe l'inverso. Forse Dio conosce l'ordine gerarchico delle razze. Noi no. [...] Il valore oggettivo di una razza potrebbe essere conosciuto solo da quell'uomo che stesse al di là di ogni razza» (152).

È significativo del resto che mentre tutti i movimenti protofascisti e fascisti si pongono, in gradi differenti, il problema della composizione etnica e del substrato biologico della comunità di riferimento, ciascuno di essi si riferisce al problema in modo diversificato, e storicamente e localmente determinato in rapporto alla comunità di riferimento (la "nordizzazione", la "razza italica", la "razza turanica". etc.), pur nella riaffermazione e nel riferimento al discrimine di una comune identità (indo)europea fondamentale; così che in tal caso davvero l'"amore per la differenza" si spinge sino alla dimensione nazionale e regionale, e mira, come parrebbe logico, ad aumentare le differenze, non a negarle in attesa (e nella speranza) di annullarle prima o poi del tutto!

Ciò detto, l'esistenza delle razze umane rientra in un dato evidente di comune esperienza, e può essere negata unicamente per pregiudizio ideologico. Tale intuizione condivisa da tutti è ben definibile , come ammette Jacquard, anche in termini rigorosamente biologici.

«Cosa significa classificare? La tecnica che consente di farlo è stata messa a punto dai matematici, e consiste nel calcolare una "distanza": due individui sono tanto più simili globalmente quanto più piccola è la distanza fra di loro. Le formule che permettono di effettuare un simile calcolo sono numerose: a uno stesso insieme di dati possiamo far corrispondere diversi insiemi di distanze fra gli individui, a seconda che si ricorra alla distanza "euclidea", alla "distanza Manhattan" o alla "distanza del chi quadrato". Supponiamo che dopo aver scelto determinati criteri di classificazione e una formula per calcolare le distanze, sia stato possibile determinare tutte le distanze di ciascun individuo e ognuno degli altri (per quattro miliardi di individui il numero delle distanze a due a due è dell'ordine di otto miliardi di miliardi). Le "classi" che cerchiamo di definire avranno un senso se le distanze fra gli individui di una stessa classe sono, almeno in media, nettamente inferiori a quelle tra individui di classi diverse. Il metodo più semplice, che senza dubbio resta il più vicino al ragionamento intuitivo, è quello di costruire un "albero": prima di tutto si uniscono i due elementi più prossimi per costituire una classe formata da questi due elementi, poi si riuniscono le classi più vicine; il numero delle classi viene così a poco a poco ridotto, finché non ne rimane che una che comprende tutto l'insieme».

Prosegue Jacquard: «Come utilizzare tale albero per definire le razze? Dobbiamo ancora compiere una scelta, quella del numero delle razze, numero necessariamente compreso tra 1 (la razza e la specie sono allora confuse) e n (tante razze quanti sono gli individui, il che toglie ogni senso ai nostri sforzi). Se vogliamo distinguere x razze, dobbiamo tagliare l'albero ad una certa altezza. L'altezza a cui tagliamo l'albero ha un senso preciso: rappresenta la perdita di informazioni che si deve accettare per sostituire i dati iniziali, che riguardano gli individui, con i dati globali che riguardano le classi definite come "razze"».

Tale perdita dipende dal numero di classi con cui si desidera avere a che fare. Per non perdere nessuna informazione bisognerebbe restare all'altezza zero, ovvero non effettuare nessun raggruppamento; se si raggruppa l'insieme in un'unica categoria si perde viceversa la totalità dell'informazione. «Non si tratta di negare ogni valore al risultato di una classificazione, ma essere coscienti della sua relatività», conclude Jacquard.

Di nuovo, giova però notare che la coscienza della "relatività" [pacifica] del risultato ottenuto non toglie affatto validità al risultato stesso. Non solo.

Ricorda Dobzhansky [alias]: «Immanuel Kant, che fu naturalista prima di diventare filosofo, scrisse con notevole intuizione nel 1775: "Negri e bianchi non sono specie diverse di uomini (presumibilmente appartengono perciò ad uno stesso ceppo), però costituiscono razze distinte, perché ognuna si perpetua in ogni area di distribuzione, e i figli nati dagli incroci sono necessariamente ibridi, o mulatti. D'altra parte, biondi e bruni non sono differenti razze di bianchi, poiché un uomo biondo può anche avere da una donna bruna soltanto figli biondi, pur se ognuna di queste caratteristiche si conserva per molte generazioni nonostante vari trapianti". In altri termini, Kant comprese con chiarezza maggiore di certi autori recenti la distinzione tra variabilità individuale (intrapopolazionale) e di gruppo (interpopolazionale). [...] Servendoci della terminologia moderna, possiamo così descrivere la situazione: con l'unica eccezione dei gemelli monozigoti (153) due individui qualsiasi si differenziano per alcuni, e forse per molti, geni. Genitori e figli, fratelli, parenti stretti e persone senza apparenti legami di parentela presentano, in media, un numero di geni diversi via via crescente. Il genotipo di un individuo è unico, senza precedenti e aperiodico. La fonte prima della variabilità genetica individuale è la segregazione mendeliana in popolazioni a riproduzione sessuata ed esogame. Un individuo è eterozigote rispetto a molti (probabilmente migliaia o decine di migliaia) dei suoi geni. È improbabile che due qualunque delle cellule sessuali da lui prodotte contengano esattamente lo stesso assetto genetico; ugualmente differenziate sono le cellule del partner; gli zigoti (i figli) che daranno alla luce saranno, di norma, eterozigoti e diversificati per lo stesso numero di geni dei genitori» (154).

Continua Dobzhansky [alias]: «Con la variabilità di gruppo le unità di indagine non sono più i singoli, ma insiemi di individui biologicamente e geneticamente imparentati, ovvero le popolazioni. [...] Un individuo ha due genitori, quattro nonni, otto bisnonni, e così via. Già in una trentina di generazioni il numero degli antenati di ciascuno di noi supera la popolazione mondiale attuale. Naturalmente tali numeri non sono mai esistiti. Malgrado le limitazioni agli incroci più immediati frapposti dal tabù dell'incesto, tutti i nostri progenitori sono parenti più o meno alla lontana. Anche se siamo in grado di documentarlo solo in pochissimi casi, tutti gli esseri umani sono imparentati. Se riuscissimo ad elaborare un pedigree completo della specie umana, ne risulterebbe un intricato reticolo sul quale ogni individuo sarebbe più volte concatenato a tutti gli altri. Il genere umano è una popolazione mendeliana complessa, con un pool genetico comune. I geni di ogni individuo discendono dal pool, e, a meno che muoia senza prole, una parte vi farà ritorno».

E ancora: «D'altronde, l'umanità non è una popolazione panmittica, cioè una popolazione ove ogni singolo membro ha l'identica probabilità di accoppiarsi con qualunque altro individuo del sesso opposto e dell'età adatta. [Persino oggi,] è molto più probabile che un ragazzo nato in Canada sposi una ragazza canadese che una cinese o una ugandese. Al pari di molte specie animali e vegetali a riproduzione sessuata, gli uomini si differenziano [geograficamente e per altri fattori] in popolazioni mendeliane secondarie; il matrimonio tra consanguinei nell'ambito di una popolazione secondaria è più frequente che tra popolazioni diverse. L'umanità, come specie biologica, è la popolazione mendeliana inclusiva. Al suo interno, troviamo una gerarchia di popolazioni mendeliane secondarie, parzialmente isolate tra loro per motivi geografici e nel nostro caso culturali. Soltanto le ripartizioni più piccole – abitanti di qualche villaggio, membri di una stessa classe sociale all'interno di una piccola città – si possono considerare approssimativamente panmittiche».

Le razze corrispondono in questo senso all'astrazione delle caratteristiche identificanti di popolazioni mendeliane secondarie all'interno di una medesima specie (155).

Ora, un certo grado di segregazione riproduttiva rappresenta un elemento fondamentale per il mantenimento – se non di per sé sufficiente per la creazione – di tali popolazioni (156). Lo studio della differenziazione genetica di popolazioni intraspecifiche resta comunque assai complesso. Sono stati in particolare suggeriti tre modelli fondamentali. Il primo, il più maneggiabile da un punto di vista matematico, è quello dell'"isola"; gli altri due sono il modello dell'isolamento progressivo in funzione della distanza su un'area uniformemente abitata, e il modello del "trampolino". Il modello dell'isola presuppone che la specie sia formata da colonie discrete in cui prevale la panmissia, ma che ricevono una frazione m di immigranti provenienti dal resto della specie. L'isolamento delle isole può variare nel tempo e nello spazio, con m oscillante da zero (isolamento completo) a uno (nessun isolamento). Se gli "immigranti" provengono – come spesso si verifica in pratica – da colonie vicine anziché indistintamente dal resto della specie, abbiamo il modello del trampolino. Nell'uomo si riscontrano situazioni conformi a tutti e tre i modelli, e anche agli stadi intermedi tra di essi (157).

Gli studi classici nel campo delle popolazioni umane restano quelli di Cavalli-Sforza [alias] (158), cui è tra l'altro capitato di studiare la "migrazione matrimoniale" tra città e villaggi della diocesi di Parma, così come Harrison ha analizzato i dati disponibili relativamente alle comunità dell'Oxfordshire inglese (159). Entrambi gli autori hanno constatato che nei dati disponibili la probabilità di matrimonio è una funzione esponenziale negativa della distanza reciproca dei villaggi, ed è anche una funzione della dimensione dei villaggi stessi: più numerosa è la popolazione di un villaggio, maggiore è il numero dei potenziali compagni ivi contenuti. Un altro fattore importante della mobilità matrimoniale e sessuale, e di conseguenza del flusso genico tra popolazioni mendeliane, è non soltanto la distanza fisica, ma la facilità di spostamento. Nelle comunità studiate da Cavalli-Sforza, ad esempio, è stato possibile mettere in relazione la maggiore mobilità, e anche la più elevata densità di popolazione, che si riscontra in pianura con la differenziazione genetica degli abitanti dei vari paesi.

Nel 1969, Neel e i suoi collaboratori effettuarono studi sulla frequenza di venticinque geni differenti in trentanove villaggi della tribù Yanomama dell'Orinoco superiore in Venezuela (160). Per parecchi geni si registrarono differenze molto sensibili a seconda del villaggio considerato. Cavalli-Sforza attribuisce tali eterogeneità alla deriva genetica, non essendo plausibile ipotizzare differenze locali a livello di selezione naturale per popolazioni stanziate su un territorio sostanzialmente identico. Secondo Neel, «queste differenze riflettono principalmente il modo in cui ebbero origine i nuovi villaggi», e ci raccontano perciò in sostanza la storia della regione.

Quelli precedenti sono d'altronde esempi di differenziazione microgeografica di popolazioni secondarie della specie umana. Certo, come osserva Dobzhansky [alias], la differenziazione macrogeografica si distingue quantitativamente più che qualitativamente: «Le popolazioni umane vivono in un'ampia varietà di ambienti fisici e culturali. Popolazioni insediate in differenti continenti e porzioni delimitate dello stesso continente spesso presentano molti geni dissimili; di conseguenza si diversificano in molte caratteristiche morfologiche e fisiologiche. In altre parole, l'umanità è un aggregato di popolazioni distinte in senso razziale».

La genetica delle popolazioni porta un contributo originale all'identificazione e definizione delle identità razziali suddette; contributo che si aggiunge, più che sostituirsi, al modello tipologico già discusso. Le popolazioni mendeliane possono essere descritte in termini di incidenza di caratteristiche separate, ed idealmente di alleli di geni varianti (161). In effetti, se si riportano su un grafico le frequenze di alleli genici o di caratteristiche fenotipiche distinte, si osservano regolarmente gradienti o clini di frequenze crescenti o descrescenti verso qualche punto centrale, simili ad isobare genetiche.

Osserva ancora Dobzhansky [alias]: «L'allele 1B del sistema dei gruppi sanguigni fondamentali (A, B, 0) raggiunge nell'Asia centrale e nell'India settentrionale frequenze comprese tra il 25 e il 30%. Le sue frequenze declinano verso occidente al 20-25% nella Russia europea, al 5-10% nell'Europa occidentale e si abbassano ancor più in alcune zone della Francia e della Spagna. Le frequenze diminuiscono altresì in direzione sud-est, sino a giungere praticamente a zero tra gli aborigeni australiani, e in direzione nord-est sino al 10% tra gli esquimesi, per annullarsi di nuovo tra gli amerindi puri. Il centro della pigmentazione chiara della pelle e degli occhi si trova in Europa nord-occidentale: la pigmentazione si scurisce verso est ma soprattutto verso sud, raggiungendo il massimo nell'Africa sub-sahariana, nell'India meridionale e nella Melanesia. L'indice di Roher (peso corporeo diviso per il cubo dell'altezza) arriva ai valori massimi tra gli esquimesi ed è al minimo in Asia meridionale, in Africa e in Australia».

Tali dati meritano un'analisi più approfondita, che come abbiamo detto aggiunge qualcosa di significativo all'analisi tipologica. Se la risultante complessiva di tutti i possibili gradienti genici o la variazione nella distribuzione delle caratteristiche fenotipiche fossero uniformi, le frequenze geniche aumenterebbero o diminuirebbero regolarmente di tante unità percentuali per tanti chilometri percorsi in una data direzione. Con gradienti uniformi i confini delle razze potrebbero essere soltanto arbitrari; e le razze sarebbero unicamente un modello "ideale". Al contrario, spesso i gradienti sono molto ripidi in alcune direzioni o zone, e più dolci od assenti in altre.

Conclude Dobzhansky [alias]: «Consideriamo due alleli genici, A1 e A2 in una specie con un'area di distribuzione di 2100 chilometri. Supponiamo che per 1000 chilometri la frequenza di A1 declini dal 100 al 90%, per i successivi 100 chilometri dal 90 al 10, e per i restanti 1000 dal 10 allo 0%. Chiunque vede che è ragionevole e conveniente dividere la specie in due razze, rispettivamente caratterizzate dalla predominanza di A1 e A2, e tracciare un confine geografico nel punto in cui il clino è scosceso».

Ma se ciò non bastasse, esistono tra le razze umane, oltre che significativi ed improvvisi sbalzi quantitativi nella distribuzione dei geni – che nella loro risultante complessiva danno ragione della convergenza delle nostre intuizioni tipologiche al riguardo, malgrado la presenza in ciascun individuo di un certo numero di caratteristiche che sono dominanti in altre razze e invece minoritarie nella sua –, differenze cosiddette qualitative, che si definiscono come quelle in cui l'appartenenza ad una data popolazione si rileva del tutto determinante quanto alle possibili caratteristiche individuali. Cosa che si verifica evidentemente quando un allele o un insieme di alleli genici si presentano nel cento per cento di una popolazione, e sono del tutto assenti in un'altra.

Un carattere di questo tipo, che non a caso ha assunto storicamente una valenza simbolica particolare, è il colore della pelle. Come osservò già Darwin: «Di tutte le differenze tra le razze umane il colore della pelle è la più cospicua e una delle meglio marcate». Anche se il meccanismo soggiacente pare sia in realtà più complicato, tale carattere si comporta esattamente come se fosse controllato da quattro coppie di geni con effetti addittivi. Ora, è ben vero che come nota André Langaney (162) si può passare senza discontinuità dagli uomini più chiari (gli europoidi del nord) agli uomini più scuri, nell'esempio i Sara del Ciad, scegliendo gli intermediari solo in altre due popolazioni, i Nordafricani e i Boscimani; ma non esiste semplicemente nessuna possibilità che un indigeno dell'Africa subsahariana (a parte i casi di albinismo) nasca con una pigmentazione chiara come un europeo, né che un europeo etnico nasca con la pigmentazione scura come un africano o un melanesiano, qualsiasi possa essere la gamma di variazioni individuali presenti nelle rispettive popolazioni di appartenenza per altre caratteristiche. Anzi, pur essendo tutte le variazioni della pigmentazione cutanea dipendenti in sostanza dalla quantità di melanina prodotta, è assai dubbio che le variazioni intrarazziali (le variazioni di colore all'interno della stessa popolazione genetica) siano comandate dagli stessi geni che governano le variazioni interrazziali (ovvero le variazioni stabilmente esistenti tra una razza e l'altra).

Esistono a quanto pare varie altre caratteristiche dello stesso tipo, o molto simili, pur se meno vistose. Uno degli alleli del sistema Rh (cDe) supera spesso frequenze del cinquanta in popolazioni africane, ma ha percentuali tanto basse altrove da essere coerente con la probabilità di progeniture africane recenti nei pochissimi portatori. Aggiunge Dobzhansky [alias]: «Un allele del locus 'Diego' sembra mancare tra gli Europei e presentarsi regolarmente tra gli Amerindi, pur non raggiungendo il 100%. Un allele del sistema Duffy ha frequenze superiori al novanta per cento tra i negri dell'Africa occidentale, e di nuovo è praticamente assente tra gli europei».

Certo, è perfettamente vero che la maggior parte delle singole caratteristiche si presentano distribuite in modo irregolare e diversificato attraverso le razze, e che i determinismi genetici di tali caratteristiche sono ancora nella maggior parte dei casi poco noti, a cominciare da quelli che regolano il rapporto tra le dimensioni della testa (determinando la "dolicocefalia" e la "brachicefalia"). Altri caratteri, nonostante dipendano rigorosamente dal patrimonio genetico, sono poco stabili, come l'altezza; è noto infatti come il ventesimo secolo abbia visto un aumento molto rapido della statura media nei paesi industrializzati, per ragioni non interamente chiarite, e del tutto a prescindere dalla taglia media della razza di appartenenza delle relative popolazioni.

Ugualmente, rileva Jacquard, «le popolazioni di pelle scura si trovano soprattutto in Melanesia, ovvero nella parte sudoccidentale del Pacifico, nella penisola indiana e nell'Africa a sud del Sahara. Indipendentemente dalla comune vicinanza di tali regioni all'equatore, e dalla questione se ciò possa costituire un argomento in funzione di una valenza adattativa di tale caratteristica (cosa su cui del resto sono stati recentemente avanzati dubbi), va notato come queste tre popolazioni non possono in alcun modo essere considerate come costituenti una "razza"; a parte il colore della pelle, tutto le differenzia: l'analisi dei loro sistemi sanguigni, ad esempio, mostra come sia impossibile considerarle come tre rami provenienti da uno stesso gruppo; il loro "albero filogenetico" non può essere rappresentato da tre diramazioni di uno stesso tronco. Se così fosse, nell'ipotetica popolazione antenata sarebbero presenti altri caratteri, oltre il colore nero, che si ritroverebbero in questi tre insiemi di popolazione. Questa constatazione mostra come una classificazione basata solo sul colore della pelle non può avere un senso biologico; è un fatto molto irritante per chi ritiene possibile una definizione delle razze fondata solo su questo criterio» (sarebbe d'altronde facile obbiettare che resta però vero il contrario, ovvero che la pigmentazione chiara degli europoidi rappresenta un caso sufficientemente unico, con l'eventuale modesta eccezione rappresentata dagli Ainu [alias] nel nord del Giappone – di cui comunque sono state ipotizzate parentele protoindoeuropee).

Ma anche qui lo studioso sceglie, a fini retorici, bersagli immaginari per proclami di natura morale. Nessun antropologo ha mai davvero immaginato che un melanesiano ed uno zulu appartengano allo stesso gruppo razziale per il fatto di essere ugualmente neri, né viceversa foss'anche il più sprovveduto militante analfabeta del Ku Klux Klan [alias] ha mai considerato un negro albino come facente parte, per "merito" di tale affezione, del suo gruppo razziale.

La verità è che è l'esperienza quotidiana a confermare quanto sia facile indovinare almeno il grande gruppo razziale di appartenenza di qualcuno a partire da una foto in bianco e nero con un tempo di esposizione ignoto, o persino da un identikit, pur essendo impossibile in tali condizioni appurare quanto sia scura la pelle della persona ritratta, e rientrando invece in conto, in tale valutazione, il soppesamento inconscio di una serie di parametri quantitativi, che magari rientrano tutti nell'arco di variabilità interna delle singole razze che presentano le relative caratteristiche, ma la cui convergenza non lascia dubbi nella maggior parte dei casi neppure ad un osservatore non particolarmente perspicace – e neppure ad un "sistema esperto" ben addestrato in esecuzione su un elaboratore elettronico.

Sembra perciò del tutto implausibile concludere, come fa Jacquard, che «l'accumulazione di dati sempre più precisi, la loro trattazione con procedimenti sempre più complessi non porta che a rendere più difficile la classificazione delle diverse popolazioni che compongono la nostra specie». Semmai tale classificazione diventa anzi più raffinata, documentata e penetrante.

L'unica ragione che motiva la opposta conclusione di chi la pensa come Jacquard è la tesi che si vuole dimostrare, avanzata per ragioni nient'affatto scientifiche.

Continua infatti il biologo francese: «Così, la visione tanto chiara della geografia della nostra infanzia, i Bianchi, i Gialli, i Neri, è adesso ingarbugliata: non si riscontra più alcuna linea direttrice. La ricerca scientifica, non sarà forse stata fuorviata? In realtà, il ruolo della scienza non è quello di fornire infallibilmente risposte a tutti gli interrogativi. A certe domande non si deve rispondere [corsivo nostro]; dare una risposta anche parziale o imprecisa a una domanda assurda è farsi complici di una mistificazione, essere colpevoli di un abuso di fiducia. Se la classificazione degli uomini in gruppi più o meno omogenei, che si possono chiamare 'razze', avesse senso biologico reale, il ruolo della biologia sarebbe quello di stabilire al meglio tale classificazione; ma questa classificazione non ha senso. È vero che il mio amico Lampa, contadino Bedick del Senegal orientale, è molto nero e io sono grosso modo bianco, ma alcuni dei suoi gruppi sanguigni potrebbero essere più vicini ai miei di quelli del mio vicino di pianerettolo, il signor Dupont. Il risultato messo in rilievo da Lewontin [alias] (163) significa che la distanza biologica che mi separa dal Sig. Dupont è, in media, solo un quinto inferiore dalle distanze che mi separano da Lampa [...] Questa piccola differenza merita tutta l'attenzione che da secoli le accordiamo?».

Tale chiusa ad effetto – che trascura di considerare che Jacquard, se per questo, come tutti gli esseri umani ha anche in comune il 98% del proprio corredo genetico con gli scimpanzé (164), pure per tale risibile differenza percentuale pregiudizialmente esclusi, immaginiamo, dal giro delle sue amicizie più intime – illustra esemplarmente il fenomeno psicologico della rimozione già più volte citato: se qualcosa è intollerabile, non esiste; e se anche esistesse è opportuno, doveroso, fare finta che non ci sia.

Capita invece che l'esistenza delle razze, ovvero la relativa segregazione e "tipificazione" delle varianze tra le popolazioni degli esseri umani, così come di qualsiasi altra specie animale e vegetale, è esattamente ciò che fornisce il materiale genetico per l'emersione, il mantenimento e la selezione di quella differenza – ovvero ricchezza, flessibilità, polimorfismo di tratti stabili di gruppo – al cui "elogio" Jacquard pure intitola con involontaria ironia il suo pamphlet e cui, non a torto, viene attribuita decisiva valenza con riguardo all'adattabilità e alle chance di sopravvivenza a lungo termine di una specie.


Stefano Vaj


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Ambiente naturale, ambiente culturale e selezione (V)
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(141) I reperti paleontologici mostrano che vi sarebbero state cinque grandi ondate di estinzioni, di cui la seconda in ordine di importanza, quella che sessantacinque milioni di anni fa ha spazzato via i dinosauri, viene dagli anni ottanta comunemente attribuita agli sconvolgimenti climatici provocati dalla caduta di un meteorite (resta d'altronde incerto perché siano sopravvissute creature a sangue freddo più antiche e relativamente massicce, come i coccodrilli o i draghi di Komodo, mentre si sono integralmente estinti anche i dinosauri marini, o quelli grandi come galline). Alcuni credono che da un evento analogo possa essere dipesa anche l'estinzione più catastrofica, quella che si è verificata nella transizione tra il Permiano e il Triassico, ma i duecentocinquanta milioni di anni che ci separano da tale epoca rendono molto difficile avanzare ipotesi attendibili.
(142) Se la stragrande maggioranza delle specie che hanno abitato la Terra sono oggi estinte, ugualmente si sono estinte la maggior parte delle linee germinali che componevano la nostra specie. Come è ovvio, con il passaggio delle generazioni, il numero di progenitori di cui è ancora presente la discendenza tende inevitabilmente a ridursi, dato che ad ogni generazione una frazione piccola, ma sempre positiva, delle stirpi presenti viene eliminata dalla selezione o dal caso. L'accurata analisi di questo processo con riguardo alla specie umana, che porta ad ipotizzare una durata dell'intero processo di circa centocinquantamila anni, ha fatto parlare i giornali della "scoperta di Eva". Ovviamente, ciò che è davvero successo non è affatto l'irraggiamento delle stirpi da due soli progenitori comuni, ma viceversa l'inevitabile eliminazione progressiva delle stirpi, con il passare del tempo, fino al momento in cui resta la discendenza di un'unica coppia; processo questo che continua, così che l'ultima "coppia ancestrale" tende a sua volta a spostarsi avanti nel tempo. A seguito di tale fenomeno, tutto il patrimonio genetico non presente nella linea germinale rimasta come unica sopravvissuta è andato ovviamente ed irrimediabilmente perduto – così come ad ogni generazione va perduto quello che sia esclusivamente presente nelle stirpi che si estinguono.
(143) Cfr. in questo senso Richard Lewontin [alias], Biologia come ideologia. La dottrina del DNA, Bollati Boringhieri, Torino 1993; titolo invero paradossale, come se non sia esattamente l'ideologia e la religione ancestrale dell'autore a determinare l'esigenza "morale" di tale tipo di conclusione.
(144) Ciò rappresenta il successo di un progetto metapolitico di rimozione molto risalente. In pieno periodo fascista, Benedetto Croce pubblica un capitolo intitolato "Specie naturali e formazioni storiche" nel libro La storia come pensiero e come azione in cui indica apertamente «il preconcetto delle razze» come «l'obbiettivo di una battaglia vigile e continua da parte dell'uomo morale, al fine di ristabilire di continuo la coscienza dell'unica umanità» (corsivo nostro, pag. 301-305, prima edizione: Laterza, Bari 1943). Proprio l'anno seguente alla promulgazione delle leggi di Norimberga, nel 1936, lo stesso riusciva a riaffermare quest'ordine di idee in un articolo pubblicato in... Germania (!), dalla Deutsche Literaturzeitung, in cui condannava apertamente l'interesse nazionalsocialista per questo tema (vedi Rosella Faraone, Giovanni Gentile e la "questione ebraica", Rubbettino, Messina 2003, pag. 21).
(145) L'autore cita alternativamente il colore della pelle (bianco, bruno, giallastro), la forma del cranio (dolicocefalia e brachicefalia), la struttura dei capelli e dei peli (lisci o crespi); in realtà sin dalla nascita dell'antropologia e dell'antropometria le razze sono sempre state definite sulla base di criteri misti e con l'aggiunta di vari altri parametri, quali la taglia media, la dominanza longilinea o brevilinea, la pigmentazione dell'iride, la forma delle labbra, del mento e della fronte, etc.
(146) In realtà, il fatto che Jacquard ritenga necessario precisarlo induce a sospettare che in realtà dubiti della legittimità stessa di tali studi ; cosa di cui avremo presto conferma.
(147) Vedi Theodosius Dobzhansky [alias], Diversità genetica e uguglianza umana, Einaudi, Torino 1975, in particolare nel secondo capitolo, "Genetica evolutiva della razza".
(148) In materia di tassonomia della specie umana fondata sull'individuazione del tipo, ha particolare rilevanze nel dopoguerra la cosiddetta "scuola polacca". Cfr. J. Czekanowski, "The Theoretical Assumptions of Polish Anthropology", in Current Anthropology, 3, 1962; e, sullo stesso numero, T. Bielicki, "Some Possibilities for Estimating Interpopulation Relationship on the Basis of Continuous Traits", e A. Wiercinski, "The Racial Analysis of Human Populations in Relation to Their Ethnogenesis".
(149) Del tutto assurda è ad esempio la definizione, da parte della propaganda occidentale, di "pulizia etnica" per le pratiche di stupro collettivo fantasiosamente attribuite ai Serbi nei confronti delle popolazioni bosniache o kosovare, pratiche il cui unico plausibile risultato sarebbe al contrario... il meticciato dell'etnia serba con le popolazioni in questione. Semmai, una tale improbabile politica sarebbe stata oggettivamente volta alla polluzione etnica.
(150) Magari, come nell'esperienza dei mercanti sudisti di schiavi negli Stati Uniti, attraverso l'importazione massicia come manodopera delle "razze inferiori", e l'apporto "chiarificatore" del proprio seme, con il vantaggio di rendere commercialmente più quotati sul mercato interno i prodotti del proprio allevamento. Tale mondo e la relativa mentalità sono rievocati tra l'altro nei romanzi di Kyle Onstott come Mandingo, ult. ed. Fawcett 1986 (ult. ed. italiana Mondadori, Milano 1983; vedi anche l'omonimo film di Richard Fleischer, USA 1975).
(151) Julius Evola, Indirizzi per una educazione razziale, ult. ed. Edizioni di Ar, Padova 1979, pag. 52. Come noto, Evola, pur rivestendo un ruolo relativamente secondario nell'elaborazione dottrinale del fascismo italiano, si vide riconoscere da Mussolini stesso un ruolo notevole proprio con riguardo alla formulazione della dottrina della razza del regime italiano, esattamente in chiave di "velleità di diversificazione" dalla Germania nazionalsocialista (d'altronde, come nota Giorgio Locchi, Evola in realtà aderiva proprio ad una delle tante concezioni razziali tedesche, ovvero a quella, sia pur minoritaria, del razzismo "völkisch-spiritualista"). Al riguardo, vedi Pino Rauti, Rutilio Sermonti, Storia del fascismo, vol. V, CEN, Roma 1977, pag. 320. Curiosamente, Giovanni Monastra tenta invece di accreditare, a fini ovvi di "riabilitazione", una sorta di "persecuzione" fascista delle tesi evoliane in materia razziale (che comunque non può fare a meno di criticare negli aspetti palesemente meno politically correct), in un articolo dal titolo Julius Evola, des théories de la race à la recherche une anthropologie aristocratique sorprendentemente pubblicato in Nouvelle Ecole n. 47.
(152) Citato dall'introduzione a Julius Evola, Indirizzi per una educazione razziale, op. cit., Ludwig Ferdinand Clauss ebbe anche influenza su varie componenti del movimento völkisch e della Konservative Revolution, comprese quelle propriamente nazionalsocialiste, e tra i suoi studi di psicoantropologia, meritano di essere citati: Rasse und Seele, Monaco 1926 e Von Seele und Antlitz der Rassen und Völker, Monaco 1928. La distanza dal "razzismo" stile Ku Klux Klan [alias] è misurabile dal suo particolare interesse per l'insieme etno-culturale arabo, che ha portato ad alcune opere specialistiche molto significative che a differenza di quelle citate sono ancora reperibili sul mercato.
(153) E ovviamente dei cloni: ma l'autore scrive qui della specie umana e nel 1973 l'idea di una clonazione di routine dei mammiferi non era certo una prospettiva imminente.
(154) Theodosius Dobzhansky [alias], Diversità genetica e uguglianza umana, op. cit.
(155) Sulle valenze e significati contemporanei, specie politici, del termine di "razza", vedi invece Gianantonio Valli, "Semantica del razzismo", in l'Uomo libero n. 37. Tutta la semantica in questione viene d'altronde significativamente a cadere quando l'interlocutore è confrontato con questioni più innocentemente attinenti a razze animali, in particolare domestiche.
(156) In realtà esistono vari tipi di segregazione non-culturale, e perciò genericamente applicabili a tutte le specie animali, ivi compresa quella umana, tra cui l'isolamento geografico (creato dalla distanza o da altre barriere naturali difficili da oltrepassare), l'isolamento ecologico (ovvero la preferenza geneticamente determinata per habitat differenti) e l'isolamento etologico, rappresentato dalla mancanza di attrazione sessuale tra maschi e femmine, pur potenzialmente interfecondi, di due popolazioni diverse. Un altro fattore è l'inferiore fecondità statistica degli accoppiamenti interrazziali, che sembra probabile anche per le grandi razze umane.
(157) Una questione dibattuta, specie in relazione alla conferma moderna basata sull'analisi del DNA che vari appartenenti estinti alla famgilia Homo noti alla paleontologia appartenevano a specie diverse, e non a a razze della specie Homo sapiens, è la questione se le razze si sono "evolute" prima o dopo l'ominazione, nonché se questa ha un'origine unica e puntuale oppure ha avuto luogo su base multiregionale a seguito di scambi genetici e spinte selettive convergenti tra le varie razze. Attribuisce una notevole importanza ideologica alla questione, ed in particolare alla presa di posizione per la seconda teoria, cfr. Rachel Caspari, "Origines et diversité. L'évolution multirégionale de l'espèce humaine", in Krisis n. 27, Novembre 2005, che pure contiene concessioni inaccettabili alla vulgata "antirazzista" sull'incapacità peculiare dell'umanità di dividersi in sottospecie. Un altro modo di porre la questione è se l'Homo sapiens ha acquisito le sue caratteristiche attuali nel momento, in tal caso relativamente recente, in cui si sarebbe costituito in quanto specie o se l'ominazione si è verificata a seguito di un processo evolutivo "intraspecifico" (simile a quello che ha visto ad esempio aumentare significativamente le dimensioni dei cavalli contemporanei rispetto ai loro progenitori cospecifici). Vedi anche Milford H. Wolpoff, Rachel Caspari, Race and Human Evolution. A Fatal Attraction, Simon and Schuster, New York 1997.
(158) Luigi Luca Cavalli-Sforza [alias], "Some Data on the Genetic Structure of Human Populations", in Proceedings. X International Congress Genetics, I, 1959; "Human Diversity", in Proceedings XII International Congress Genetics, III, 1969; The Genetics of Human Populations (con Walter F. Bodmer), Freeman, San Francisco 1971; merita anche di essere citato, sempre di Bodmer, Genetics, Evolution and Man, San Francisco, Freeman, 1976, mentre lo stesso Dobzhansky è autore del quasi omonimo ma più risalente Evolution, genetics, and man, Wiley, 1966.
(159) Christopher G.A. Harrison, "Human Evolution and Ecology", in Proceedings III International Congress Human Genetics, 1967.
(160) James Neel et al., "The Phylogentic Relationship of Some Indian Tribes of Central and South America", in The American Journal of Human Genetics, 21, 1969,
pag. 384.
(161) Gli alleli di geni varianti sono le varianti note di un dato gene: ad esempio quelle che codificano i gruppi sanguigni primari.
(162) A. Langaney, "La quadrature des races", in Génétique et Anthropologie, settembre 1977.
(163) L'autore fa qui riferimento a Richard Lewontin [alias], The Genetic Basis of Evolutionary Change, Columbia University Press, 1974, ricerca i cui dati sono del resto rese dubbi dalla dichiarata ipoteca ideologica "progressista" che getta la sua ombra su tutta l'opera dello studioso ebreo-americano, e che lo hanno condotto persino al tentativo di recupero di tematiche lamarckiane inerenti a pretese influenze genetiche dei caratteri acquisiti!
(164) Una brillante ripresa ironica della dichiarazione rousseauiana secondo cui sarebbe stato meglio riconoscere lo status di esseri umani alle scimmie superiori piuttosto che rischiare di negarglielo a torto, è contenuta nel pamphlet del filosofo nominalista Clément Rosset, Lettre sur les Chimpanzés, Gallimard, Parigi 1965 e 1999. Merita di essere anche ricordato come l'autore sia stato indotto nella seconda edizione ad introdurre una prefazione in cui lo stesso difende la sua rispettabilità rispetto ad accuse di razzismo...