Biopolitica. Il nuovo paradigma


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Deriva, adattamento, differenziazione


È grazie ad un italiano già citato, e precisamente a Luigi Luca Cavalli-Sforza [alias], che negli ultimi dieci anni conosciamo per la prima volta con discreta precisione la storia delle razze umane negli ultimi centomila anni, grazie ad uno studio imponente 165 la cui portata è ancora difficilmente apprezzabile, ed è unicamente paragonabile a quella di Georges Dumézil per ciò che concerne i cinque o diecimila anni di storia dell'identità europea.

Da cosa derivano d'altronde tali differenze? «Un secolo fa», scrive Dobzhansky [alias], «Darwin si sentiva frustrato in tutti i tentativi di spiegare la differenza delle razze umane». In particolare, riteneva difficile chiamare in causa la selezione naturale, perché «ci scontriamo immediatamente con l'obiezione che in tale modo possono conservarsi unicamente le variazioni benefiche; e per quanto possiamo giudicare (sempre soggetti ad errore) nessuna delle differenze esterne tra le razze umane è di qualche diretto o particolare aiuto all'uomo». Afferma in effetti Darwin testualmente in L'origine dell'uomo: «Da parte mia, concludo che tra tutte le cause che hanno determinato le differenze nell'aspetto esterno tra le razze umane, e in certa misura le differenze tra l'uomo e gli animali inferiori, la più efficiente è stata di gran lunga la selezione sessuale» (166).

Tale punto di vista è naturalmente superato, in particolare nella confusione tra la selezione intraspecifica e quella interspecifica (in cui la selezione sessuale per definizione non può giocare alcun ruolo), ma soprattutto nell'artificiale distinzione tra la selezione naturale in senso stretto (intesa come capacità di sopravvivenza individuale) e la selezione sessuale (ovvero la capacità di attirare partner fecondi, e i migliori possibili tra di essi), che la sociobiologia riduce ad un solo fattore, ovvero la capacità di un gene di replicare efficacemente se stesso, la sopravvivenza individuale o il sex appeal non essendo che presupposti tra altri in vista del raggiungimento di tale "fine".

Ciò che più interessa qui è però il fatto che i dubbi di Darwin e la sua incertezza al riguardo non sono molto cambiati sino ad un'epoca molto recente. Come osserva infatti Dobzhansky [alias], «sino a meno di una generazione fa, i principali antropologi ritenevano che le differenze razziali fossero per la maggior parte adattativamente neutre e di conseguenza non si sforzavano granché per scoprirne gli eventuali valori selettivi. I radicali mutamenti negli ambienti umani provocati dagli sviluppi culturali rendevano particolarmente difficoltoso l'approccio al problema (167): un carattere genetico può aver giocato un milione di anni or sono un ruolo adattativo completamente diverso da quello di diecimila anni fa, a sua volta magari differente da quello attuale. Infine, con una curiosa inversione di ragionamento, la dottrina dell'uguaglianza umana pareva escludere la possibilità di un adattamento (adaptedness) genetico differenziato», in quanto concetto pericolosamente suggestivo della possibile idoneità degli uomini e delle razze a ruoli e modelli di vita diversi, secondo quanto suggerito invece da un celebre passo di Aristotele [alias] 168.

Lo stesso significato adattativo di una caratteristica così ovvia come il colore della pelle è aperto alla discussione. La nozione secondo cui un corredo genetico che provvede una pigmentazione scura protegge dalle scottature solari e dai tumori alla pelle – esattamente come il meccanismo fisiologico che governa la produzione di melanina, e perciò l'"abbronzatura", nei singoli individui – è molto antica, ed è resa plausibile, oltre che dal buon senso, dal fatto che le razze a pelle scura invariabilmente abitano (o almeno abitavano) le zone tropicali ed equatoriali del pianeta.

Meno chiara era l'utilità di una minor dotazione di melanina per chi fosse al contrario meno esposto alle radiazioni solari, ma più recentemente è stato rilevato come il maggiore assorbimento della luce solare, in ipotesi scarsa, consenta una migliore sintesi della vitamina D, la vitamina antirachitica.

È vero d'altronde che la pelle scura provoca un assorbimento maggiore del calore convogliato dalla luce solare proprio là dove tale effetto sarebbe meno desiderabile; ed ancora, la regola della distribuzione geografica della pigmentazione bruna non è senza eccezioni: gli indiani del Sudamerica equatoriale non sono particolarmente scuri, e alcuni dei nativi della Siberia nordorientale sono bruni almeno quanto quelli del Nordafrica. Esistono però varie possibili spiegazioni delle "eccezioni" in questione, sia fondate sulla supposizione che i popoli con pelle abbastanza chiara nei paesi molto caldi (e forse quelli con carnagione piuttosto scura nei paesi molto freddi) siano immigrati relativamente recenti, sia sulla base di valutazioni più penetranti delle relative realtà ambientali, che vedono ad esempio gli abitanti dell'America meridionale dimorare all'ombra delle foreste più a lungo che all'aperto, o gli abitanti delle regioni polari godere di una razione di UV moltiplicata dal riverbero della neve e dalla lunghezza estrema delle giornate estive, tanto che i "bianchi" in tali condizioni fanno oggi tipicamente uso di prodotti anti-scottature.

Altri hanno ancora rilevato la possibile valenza mimetica del colore della pelle nella foresta tropicale: e in effetti, nelle diverse razze delle specie animali allo stato selvatico (ad esempio, la tigre siberiana rispetto alla tigre di Sumatra) questa è la chiave di lettura più ovvia e frequente delle differenze di pigmentazione riscontrate.

In ogni modo, le ipotesi sul significato adattativo della pigmentazione nelle razze umane non si escludono l'un l'altra, e la loro stessa molteplicità rende tale valenza adattativa fortemente plausibile.

Similmente, una notevole massa di attente indagini sono state dedicate alla fisiologia di popolazioni umane adattate a certi ambienti particolarmente rigorosi, come per esempio gli indiani degli altopiani andini (freddo, scarsità di ossigeno) e gli eschimesi (169). Altri hanno confrontato le reazioni allo sforzo di giovani maschi bianchi e negri in condizioni di caldo-umido estremo (170). Tutte le indagini hanno constatato differenze statisticamente sicure nelle direzioni attese, a prescindere dall'adattamento acquisito o meno nel corso della vita individuale. Più empiricamente, è il negro primatista mondiale dei cento metri piani Ben Johnson a notare, in risposta ad una domanda durante un'intervista televisiva sulla assoluta dominanza di atleti di origine africana nella sua specialità olimpica, come la velocità nella corsa abbia per almeno una trentina di generazioni conservato in Africa una valenza ben superiore, in termini di probabilità di sopravvivenza e successo individuale (dalla caccia agli scontri tribali alla fuga dai predatori), a quanto sia accaduto alle razze abitanti in altri luoghi.

Analoghe considerazioni possono essere avanzate per un tratto quale il cosiddetto "quoziente di intelligenza", che a tante polemiche ha dato luogo, e che oggi sappiamo con certezza tanto essere oggetto di una forte componente genetica, quanto presentare curve di distribuzione nettamente differenziate su base razziale (171). La critica secondo cui i test non sarebbero culturalmente e razzialmente neutri, in quanto predisposti da studiosi "occidentali" e "bianchi", è infatti facilmente rovesciabile nella constatazione che ciò in effetti i test misurano sono esattamente... le caratteristiche selezionate nel medesimo ambito che esprime i test, e che sicuramente potrebbero avere avuto un significato adattativo diverso o nullo in un contesto diverso – in cui tratto razzialmente e selettivamente saliente poteva essere invece, poniamo, la resistenza statistica alla malaria, o l'empatia estatica con gli altri membri del gruppo nel corso di riti sciamanici, o appunto la velocità nella corsa.

L'esempio riporta per altro immediatamente alla constatazione già ricordata che gli ambienti umani sono per definizione, a partire dalla rivoluzione neolitica e dall'avvento del "secondo uomo", ambienti culturalmente modificati e determinati, in cui il valore adattativo in senso sociobiologico e le caratteristiche plasmate attraverso pressioni selettive di tipo culturale si mischiano inestricabilmente.

Ciò ha rilevanza anche per la demistificazione della contrapposizione "naturale"/"culturale", che sottintende normalmente il sospetto che venga attribuito a caratteristiche naturali, o comunque geneticamente programmate, ciò che in realtà sarebbe dipendente dall'influenza della cultura in cui ciascun essere umano è cresciuto (se non dall'"educazione", o dall'"ambiente sociale").

Infatti, mentre la creazione di culture costituisce propriamente la natura degli esseri umani, è ragionevole immaginare che gli stessi tratti identificanti di una macrocultura determinata siano figli non soltanto del "caso", ma di uno psichismo collettivo che è espressione (anche) di un'identità etnobiologica precisa; così che le caratteristiche della popolazione di riferimento – salvo il caso di individui allevati al di fuori della propria comunità di provenienza – sono doppiamente determinanti quanto al fenotipo individuale, e cioè sia per ciò che attiene al bagaglio genetico che l'individuo condivide con il resto del gruppo, sia per ciò che attiene appunto alle pressioni direttamente plasmatrici, nonché geneticamente selettive, di un ambiente "culturale" che a sua volta è espressione di tale popolazione e stirpe, e di nessun'altra.

Una conferma di tale circostanza l'abbiamo in particolare con riguardo ad una caratteristica umana sufficientemente "discreta" (ovvero con salti bruschi tra chi la possiede e chi no) come la lingua, che è certamente ed eminentemente caratteristica culturale.

Sappiamo infatti da Noam Chomsky [alias] e dalla linguistica moderna come la capacità di parlare sia programmata geneticamente nella specie umana, grazie alla disponibilità innata di una "grammatica universale" che deve essere attivata al massimo entro i tre o quattro anni di età attraverso l'apprendimento di una serie di "parametri" (o switch) che a loro volta definiscono la struttura di una lingua particolare tra tutte le altre. Sappiamo inoltre empiricamente che qualunque essere umano, estratto dalla sua comunità di provenienza, può essere allevato come madrelingua in qualunque idioma esistente. Come capita allora che sia una certa popolazione, e non altre, ad avere sviluppato una data lingua? O, in altri termini, perché le lingue non sono tutte uguali?

Pare inevitabile concludere che esiste un legame tra le caratteristiche che identificano la popolazione in questione rispetto a tutte le altre e quelle che sono le caratteristiche specifiche (pure per definizione oggetto non di ereditarietà genetica, bensì squisitamente culturale) della famiglia linguistica di cui la medesima popolazione sia stata la culla (172) – attraverso i consueti meccanismi, in questo caso solo pseudobiologici, di segregazione, deriva e selezione.

Ciò è altrettanto vero per quella che Darwin definiva "selezione sessuale", ovvero quella operante attraverso le preferenze dei potenziali partner riproduttivi. Mentre la sociobiologia ha dimostrato tali preferenze essere a loro volta dettate dalle "aspettative" dei geni del partner quando al successo riproduttivo della prole comune, le stesse preferenze sono fortemente determinate dalla conformità a ideali sociali, estetici, morali, culturalmente determinati, conformità che a sua volta garantisce tendenzialmente maggiori probabilità di successo riproduttivo alla propria prole all'interno della comunità in questione.

Tutto ciò ha poco a che fare, già nelle specie animali, con l'adattamento o il "miglioramento" nel senso in cui li interpretava Darwin. Già Konrad Lorenz notava come la selezione sessuale possa favorire l'affermazione di caratteristiche fisiche o comportamentali che provocano un pregiudizio ben identificabile con riguardo alle chances di sopravvivenza del singolo (173). D'altronde, le caratteristiche visive, olfattive, uditive, comportamentali dei membri di un gruppo possono facilmente determinare un fenomeno di "rinforzo" capace di enucleare facilmente una razza distinta – se non alla fine persino una specie diversa. La preferenza geneticamente determinata per alcune caratteristiche nei partner sessuali tende infatti ovviamente a rafforzare la segregazione del gruppo in cui si manifesta, e a rafforzare parallelamente la frequenza ed intensità delle caratteristiche stesse nel gruppo medesimo, in cui a loro volta tali preferenze diventeranno un vantaggio riproduttivo, in un circolo vizioso o virtuoso che sia.

Tutto ciò per la specie umana si colora di aspetti particolari, perché, come abbiamo visto, tale specie già con il "secondo uomo" modella culturalmente il suo ambiente, con riguardo a tutti i fattori che ne possono plasmare l'identità biologica. Nel "terzo uomo", il problema è reso ancora più complesso dal fatto che, come già visto in relazione al "pericolo disgenico", le caratteristiche che l'ambiente (artificiale) seleziona, o cessa di selezionare, possono non corrispondere affatto a quelle astrattamente desiderabili, foss'anche da un punto di vista umano, e non solo "darwiniano". Gli stessi meccanismi relativi alla selezione sessuale vengono d'altronde distorti nel caso della nostra specie in modo del tutto peculiare. Gli elementi tradizionali dell'abbigliamento, della profumazione, della cosmesi, dell'utilizzo di ornamenti simbolici, si compongono infatti sempre di più con i risultati ottenibili mediante l'utilizzo di trattamenti farmacologici, mesoterapici e chirurgici di vario genere, non esclusi i trapianti, che alterano ovviamente la "lettura del fenotipo" da parte dei possibili partner, ivi compreso per le caratteristiche che tendono ad identificare i tratti razziali più vistosi, quali il taglio degli occhi che le donne giapponesi si facevano cambiare chirurgicamente alla fine della seconda guerra mondiale per conformarsi ai caratteri somatici (e presumibilmente ai canoni estetici) dei vincitori, fino ad arrivare oggi all'alterazione della propria pigmentazione naturale richiesta ed ottenuta tra gli altri da personaggi come Michael Jackson.

Già negli anni settanta Dobzhansky [alias] notava comunque come secondo le vedute moderne la "selezione naturale" e "selezione sessuale" non sono più distinte nel senso in cui le vedeva Darwin. Il coefficiente di selezione, ovvero la differenza tra le idoneità "darwiniane" di genotipi diversi, misura infatti unicamente i tassi di trasmissione di certe componenti di questi genotipi da generazione a generazione, restando relativamente trascurabile il fatto che la trasmissione genica differenziale sia dovuta, in taluni casi, ad un maggior successo nell'accoppiamento, mentre, in altri, sia provocata da una mortalità o fertilità differenziale, oppure da uno sviluppo più accelerato, o da qualsiasi altro fattore. Le varianti genetiche favorite dalle risultanze di tutti questi fattori aumenteranno la loro frequenza nelle popolazioni, mentre quelle svantaggiate subiranno una diminuzione. Un ridotto successo nell'accoppiamento può essere compensato da una maggiore vitalità o fertilità, o viceversa.

Benché quasi tutti coloro che arrivano alla pubertà abbiano, nelle società primitive ed ancor più nella società moderna, l'opportunità di accoppiarsi e procreare, alcuni individui non soltanto possono accedere ad un maggior numero di partner, ma a partner di qualità migliore, e sono in aggiunta spesso in grado di assicurare alla prole con esso concepita condizioni migliori, che a loro volta ne aumentano la probabilità di sopravvivenza e successo riproduttivo. Abbiamo anche visto come nella società moderna i tratti genetici di questi individui possono benissimo non corrispondere affatto a caratteristiche funzionali alla sopravvivenza in condizioni diverse, o anche solo plausibilmente auspicabili ed accettabili per la maggior parte dei nostri contemporanei; e comunque possono senz'altro non rispecchiare nel loro insieme uno spettro di varianze razziali sufficienti a mantenere la flessibilità o la ricchezza della specie. Ciò che però qui importa è in quale misura la divergenza razziale delle popolazioni sia provocata da una selezione "direzionale"; ovvero il decidere se un dato tratto genetico sia influenzato dalla selezione; e ancora (e questo è un problema di più difficile soluzione) perché in differenti popolazioni siano favorite differenti varianti del medesimo tratto.

Lo stato delle nostre conoscenze in questo campo è tuttora assolutamente rudimentale; non ultimo, in relazione a ciò che concerne specificamente le razze umane, per il clima di sospetto e la scarsità di fondi che oggi ovviamente circondano le ricerche nel settore.

Sappiamo d'altronde che la risposta per ciò che concerne le razze di animali domestici è molto più semplice: tali tratti sono consapevolmente selezionati dall'allevatore, sulla base del materiale genetico posto a sua disposizione dalle linee germinali, di origine selvatica, presenti nella specie.

Ora, anche se il primo formarsi di razze umane risale indubbiamente al periodo dell'ominazione, ed è perciò molto più antico della nascita delle "culture spengleriane", è lecita l'ipotesi che almeno a partire dalla rivoluzione neolitica le razze umane come le conosciamo (o le abbiamo conosciute sinora) siano anche il frutto di un gigantesco esperimento di autodomesticazione umana, a sua volta oggettivamente mirante appunto alla selezione direzionale di caratteristiche culturalmente determinate. La "riscoperta" da parte di Platone di miti e norme in tal senso, che lo stesso considera ancestrali e già oscurati nella sua epoca, è al riguardo eloquente quanto alla antichità in ambito indoeuropeo della relativa consapevolezza (174); ma prima ancora Esiodo, o il Mahabharata [alias] indiano, o i miti di fondazione, anteriori alla dispersione ed al muro della scrittura, che ha messo in luce Dumézil, ben riflettono il definitivo passaggio, avvenuto da migliaia di anni, dai meccanismi "naturali" allo stadio cosciente e storico – sino a giungere nella nostra epoca al passaggio appunto allo stadio della autocoscienza o coscienza superiore.

La selezione direzionale non può d'altronde spiegare da sola né l'origine delle differenziazioni razziali, né esaurire la descrizione dei relativi meccanismi, che vedono un ruolo altrettanto importante giocato dalla deriva genetica. Tale fenomeno è stato studiato, con riguardo alla specie umana, soprattutto con riferimento a popolazioni fortemente isolate, e rimaste sostanzialmente al di fuori della rivoluzione neolitica sino alle soglie della nostra epoca. Alcuni autori hanno studiato alcune popolazioni amazzoniche (175), altri gruppi di aborigeni australiani (176). Al riguardo, in uno dei villaggi esaminati è stato constatato come addirittura un quarto della intera popolazione attuale possa essere fatta risalire a soli due individui, presumibilmente maschi dominanti o capitribù del passato (177).

È vero che in tali popolazioni, mentre le donne sono uniformemente esposte alla probabilità di una gravidanza e di rado vengono meno al compito assicurare la riproduzione, gli uomini sono caratterizzati da una varianza sensibilmente più elevata nelle prestazioni riproduttive. Ma la cosa non è sufficiente a spiegare il fenomeno, del resto ben descritto anche nelle popolazioni animali e vegetali ove sussistano condizioni di sufficiente segregazione. In particolare, la stessa identica situazione è stata osservata in... gruppi religiosi autosegregati negli Stati Uniti (178); benché la gente che vi appartiene pratichi presumibilmente una rigorosa monogamia, inevitabilmente si hanno variazioni nel numero dei figli per famiglia, e della percentuale di questi che resta malgrado tutto celibe. Con il trascorrere del tempo le variazioni, sommandosi, conducono alla diversificazione delle frequenze geniche, ovvero alla diversificazione razziale incipiente.

In contrasto con la selezione, che è un processo direzionale e deterministico, siamo qui in presenza di processi genetici stocastici o casuali: non solo tutta la popolazione umana attuale discende da una popolazione che anche solo diecimila anni fa era di due ordini di grandezza inferiore, ma innumerevoli linee genetiche in essa presenti si sono nel frattempo estinte, e continuano ad estinguersi ad ogni generazione. "Deriva genetica casuale", "cammino casuale", "principio del fondatore" ed "evoluzione non-darwiniana" sono alcuni dei molti nomi attribuiti a questi processi.

Nota Dobzhansky [alias]: «Le differenze razziali indotte ad opera della selezione naturale hanno, da un punto di vista biologico, un significato molto diverso da quelle imputabili alla deriva genetica. La selezione naturale rende in ipotesi le popolazioni differenzialmente adattate ad ambienti diversi. In altre parole, le differenze razziali che insorsero per selezione sono – o ad un certo punto furono – armonizzate alla vita in un certo tipo di circostanze. La situazione non è necessariamente identica con le differenze dovute alla deriva. Almeno all'inizio, può darsi che due popolazioni siano adattativamente equivalenti – e ciononostante ampiamente differenziate. Senza dubbio, è possibile che la selezione agisca sulle differenze originariamente neutre, e le inserisca in corredi ereditari adattivamente integrati. Selezione e deriva possono intrecciarsi nel corso dell'evoluzione delle razze» (179).

D'altronde, per chi dubitasse che le relative questioni siano "ideologicamente" indifferenti, basta ripercorrere i tempi del relativo dibattito. L'importanza attribuita al fattore stocastico (e perciò, in un senso non del tutto metaforico, al "destino") ha seguito un ciclo interessante. Il prestigio attribuito alla selezione naturale come agente nella diversificazione delle razze, e più in generale nell'evoluzione, toccò in particolare il fondo nella prima metà del Novecento, quanto la genetica cominciava ad afferrare i suoi concetti fondamentali, tanto che persino Haldane o Wright, i fondatori della cosiddetta teoria sintetica dell'evoluzione, finiscono per riconoscre tra il 1926 e il 1932 l'importanza fondamentale della deriva genetica casuale, talvolta addirittura definita "principio di Sewall Wright".

Molti altri autori, d'altronde, in particolare dell'Europa continentale, riconobbero il ruolo della deriva genetica come ipotesi utile nella spiegazione delle differenze tra organismi cui non possa essere facilmente attribuito alcun particolare valore in termini di sopravvivenza (o, più modernamente, in termini di successo riproduttivo), categoria in cui rientrano certamente numerose differenze razziali riscontrabili nella specie umana.

La reazione si manifestò poderosamente negli anni cinquanta e sessanta. Benché non potesse essere negato il ruolo teorico della deriva genetica, se ne dichiarò trascurabile la portata nelle popolazioni naturali, e quindi nell'evoluzione delle razze e delle specie, posto che a selezione ed adattamento viene attribuita, per la loro essenza deterministica, una valenza in un certo senso più "tranquillizzante" e "progressista" (dopo tutto le razze non sarebbero che conseguenze, seppure indirette e geneticamente fissate, dell'"ambiente") rispetto ad una identità emergente in quanto tale dall'intreccio tra il caso e la scelta – e perciò appunto dal destino.

Il relativo dibattito concerne in particolare le caratteristiche razziali, ma, come è ovvio, ha portata più generale con riguardo alla storia naturale. Ad ogni modo, già dalla fine degli anni sessanta l'importanza della deriva genetica non ha più potuto essere negata, non da ultimo a seguito della constatazione di come la maggior parte delle micromutazioni non abbiano alcun effetto sull'adattamento degli organismi, e perciò la loro diffusione ed affermazione debba necessariamente avere a che fare con la deriva casuale del pool genetico della popolazione (180); così che oggi il ruolo della deriva è unanimente riconosciuto, in particolare dai biologi molecolari e da chi si occupa della genetica delle popolazioni. Del resto, in questo senso in Darwin stesso si trovano sorprendentemente accenni che oggi sarebbero considerati "non-darwiniani", come quando lo stesso scrive nell'Origine della specie: «Le variazioni non utili né dannose non sarebbero influenzate dalla selezione naturale e verrebbero lasciate quale elemento fluttuante, come forse si osserva nelle specie definite polimorfe» (181).

In effetti, se come è vero in tutte le popolazioni di esseri viventi sessuati la presenza di caratteristiche selettivamente neutre è soggetta a fluttuazioni, tali caratteristiche sono inevitabilmente soggette ad una possibile deriva genetica, ovvero al fatto che alcune delle variazioni andranno perdute in certe popolazioni, si fisseranno definitivamente in altre, e resteranno fluttuanti in altre ancora, dato un numero di generazioni sufficientemente lungo. Tale numero, più esattamente definito come il numero medio di generazioni comprese tra l'origine e la fissazione di un gene mutante adattivamente neutro, come illustrato da Kimura (182), è prossimo a 4N(e), essendo N(e) la popolazione efficace in senso genetico.

Ciò è importante perché anche tenuto conto dell'incidenza combinata dei fattori selettivi "naturali" i numeri in questione richiedono, per giungere al grado di differenziazione riscontrabile tra le razze umane (183), che le popolazioni dei "fondatori" si siano ripetutamente ridotte a relativamente poche unità nel corso della storia e/o che la popolazione effettivamente partecipante al pool genetico delle generazioni successive si sia mantenuta a lungo su valori molto bassi. In altri termini, le razze presenti devono per forza derivare da gruppi modesti e ben delimitati, e/o da gruppi il cui differenziale riproduttivo dei vari membri era altamente differenziato. Il che significa ovviamente segregazione genetica (endogamia) (184) e selezione orientata, quali abbiamo già visto implicite nella diversificazione culturale dei gruppi razziali. Cosa significa tutto ciò?

Oggi la specie umana, come altre specie animali e vegetali sessuate, è divisa in razze principali (sottospecie), razze secondarie e popolazioni locali. La suddivisione in questione è strettamente legata inoltre, in modo complesso, ad altre differenziazioni tipicamente umane (ovvero culturali), quali quelle linguistiche, politiche, religiose, etc., che con essa interagiscono nella definizione delle comunità concrete e diversificate di cui l'umanità si compone. Tale situazione può essere "approvata" o "disapprovata", ma costituisce incontrovertibilmente l'eredità di cui siamo portatori.

Chi ritenga desiderabile il suo mantenimento e sviluppo – o anche semplicemente non accetti di ignorare stolidamente il prezzo da pagare per ribaltare e rinnegare tale eredità, ad esempio in termini di ricchezza della specie e di chances di sua sopravvivenza a lungo termine – non può evitare di confrontarsi con le condizioni sulla cui base tale tipo di suddivisione abbia potuto affermarsi e mantenersi in passato.

È facile ad esempio constatare che se la separazione geografica ha sempre giocato un ruolo relativo in termini di segregazione (e di riflesso di differenziazione) delle popolazioni umane il suo ruolo è oggi progressivamente vanificato.

In aggiunta alla mobilità spaziale, l'entropia culturale, con rimozione delle relative barriere, ad esempio linguistiche, non è solo oggetto di progetto ideologico preciso – che del resto promuove apertamente il melting pot anche genetico (pur nella contraddizione con la contemporanea affermazione di una supposta "irrilevanza" delle differenze etno-razziali) – ma costituisce un effetto diretto della globalizzazione delle comunicazioni, e di nuovo dell'eliminazione delle distanze.

La crescente uniformizzazione dell'ambiente umano su scala planetaria (dalla dieta, alla climatizzazione, alle abitudini di vita, all'alterazione, in chiave uniforme e come abbiamo visto potenzialmente disgenica, delle pressioni selettive) parimenti tende a rimuovere gli effetti della selezione "direzionale", e converge con la mescolanza generalizzata direttamente promossa dall'"immigrazionismo" contemporaneo (185). D'altra parte, come nota Gregory Stock [alias], «noi siamo il risultato di una complessa interrelazione tra i nostri geni e il nostro ambiente, e i due sono interdipendenti. Le nostre tendenze genetiche possono conformare il nostro ambiente pilotando le nostre scelte, e le influenze ambientali possono attivare o meno certe espressioni dei nostri geni. Ciò significa che tanto più una società elimina con successo variazioni estreme nell'ambiente (ad esempio, fornendo a tutti accesso ad una alimentazione ed educazione di base) tanto maggiormente i geni diventeranno più, non meno, importanti nella nostra conformazione» (186).

In queste circostanze, non solo è chiaro che la ricchezza della specie in termini di varianza tra le popolazioni sarebbe "naturalmente" destinata, sia pure asintoticamente, a scomparire; ma risulta altresì evidente che nuove razze non potrebbero mai più nascere (a parte l'ipotesi della dispersione della specie su pianeti diversi), se non in scenari davvero post-atomici, ed ancora in tempi geologici 187.

La questione non è più se è vero che "gli uomini sono diversi e resteranno sempre tali", oppure se è vero che "gli uomini sono uguali, o almeno lo devono diventare". Il punto è che oggi la sopravvivenza e lo sviluppo della diversità sono oggetto di una responsabilità unicamente umana, e possono essere solo "artificiali", frutto di una scelta autocosciente, di tipo fondamentalmente politico, affettivo ed estetico. Opporsi davvero alla globalizzazione significa non solo uscire radicalmente dalla sfera mentale ugualitaria ed umanista, ma anche dall'illusione di poter ritardare per più di poche generazioni da posizioni puramente reazionarie i processi in corso.

Cavalli-Sforza [alias], la cui opera è assolutamente preziosa dal punto di vista scientifico, ma la cui scelta di valori personale, malgrado le accuse di cui è stato talora oggetto, è assolutamente conforme all'ideologia dominante, conclude Geni, popoli e lingue (188) come segue: «L'avvenire genetico dell'uomo è molto poco interessante [corsivo nostro], perché è probabile che non ci saranno grandi cambiamenti, e certo meno di quanti ne siano avvenuti sinora (189). [...] La forza che cambia in modo più importante la nostra biologia è la selezione naturale, che agisce tramite le differenze di mortalità e fertilità tra gli individui. La medicina ha quasi abolito la mortalità prima dell'età riproduttiva, e la fertilità dovrà abbassarsi a valori molto modesti per dominare l'esplosione demografica che ci minaccia. Se tutte le famiglie avessero due figli e nessuna mortalità prima della riproduzione, la selezione naturale scomparirebbe completamente. La deriva genetica – un'altra causa dell'evoluzione – è quasi completamente congelata, all'attuale livello di densità della popolazione. Le mutazioni possono essere considerate, in questo momento, pericolose, in quanto causa di mutamenti del DNA potenzialmente nocivi, ed è perciò probabile che verranno limitate ed evitate per quanto possibile. A questo punto la trasformazione biologica dell'uomo si arresta. Ciò sarà vero, naturalmente, se l'uomo non avrà la follia di cambiarsi volontariamente [corsivo nostro]. Per fortuna le possibilità dell'ingegneria genetica nell'uomo sono ancora pressoché nulle (190). Altrimenti, potrà esservi sempre qualche pazzo che voglia creare razze migliori. In un futuro ancora più lontano ci vorranno controlli speciali, come quelli attuali per le esplosioni atomiche, per essere sicuri di risparmiare ai nostri discendenti gli incubi del Mondo Nuovo di Huxley [alias] (191)? Per fortuna [ed ecco che viene di nuovo ripreso il tema della fede in questa versione laica della Provvidenza, e nel fatto che possa essere evitato ciò che in tutta evidenza è per l'autore moralmente "insopportabile"] sarebbe molto difficile tenere a lungo nascosto un vivaio di esseri umani destinati a preparare un'umanità diversa per il mondo nuovo».

E ancora: «Vi è comunque un grande cambiamento genetico che sta per avere luogo nella specie umana, a causa delle migrazioni che portano ad una mescolanza continua e complessa. Alla fine di questo processo, e se – come sembra probabile – esso continuerà, si avrà un'umanità meno varia in un senso molto preciso: diminuiranno le differenze tra i gruppi. Vi saranno meno ragioni per il razzismo, il che sarà un vantaggio. In questo processo, comunque, ci sarà un cambiamento del tipo medio della popolazione. Almeno oggi, i vari gruppi etnici mostrano tassi di riproduzione molto diversi. Gli europei sono demograficamente stazionari, o quasi, mentre le popolazioni di molti dei paesi non industrializzati sta aumentando ad una velocità che non si è mai vista sulla Terra. Il tipo europoide, dunque, diminuirà di frequenza relativa» (192)

A tali conclusioni è facile opporre che è proprio nel Mondo Nuovo di un progetto di umanità "normalizzata" su scala planetaria che siamo oggi immersi sino alle narici; e che il controllo umano e politico del destino biologico della specie e delle sue popolazioni, sino alla manipolazione diretta del corredo genetico e delle linee germinali, potrebbe certamente agire in funzione di un'accelerazione del processo, ma parimenti potrebbe essere (e in un certo contesto ideale certamente sarebbe) indirizzato a scopi esattamente opposti.

D'altronde, a tale normalizzazione, e in particolare all'estinzione (salvo un modesto riassorbimento) di alcune componenti etniche dell'umanità contemporanea, in particolare la... nostra, non è possibile opporre unicamente la "difesa" dei fattori tradizionali che le hanno prodotte.

Il genio è fuori dalla bottiglia. La tecnologia dei trasporti esiste, così come l'uniformizzazione degli ambienti; le barriere naturali hanno perso di significato, non solo grazie al predominio globale dell'ideologia universalista, ma all'estensione globale delle comunicazioni audiovisive, con le conseguenze che abbiamo visto in termini di tendenza al monoglottismo planetario; parimenti, difficilmente sono destinati a scomparire i portati della medicina moderna o la disponibilità di metodi anticoncezionali sicuri e affidabili.

Va del resto sottolineato che questo è non solo un frutto diretto del compimento dell'avventura del "secondo uomo", ma un portato dello specifico europeo nel quadro di quest'ultima. Scrive Spengler: «La cultura faustiana dell'Europa forse non è l'ultima [tra le "culture superiori" del secondo uomo] ma è certamente la più potente. [...] E' anche la più tragica di tutte. [...] Una volontà di potenza, che irride tutti i limiti di tempo e di spazio, che ha per meta lo sconfinato, l'infinito, assoggetta interi continenti, e da ultimo abbraccia tutto il globo con le forme del suo traffico e delle sue comunicazioni e lo trasforma con la violenza della sua energia pratica e i prodigi dei suoi processi tecnici» (193).

Perciò, le razze e le popolazioni e le culture umane, se continueranno ad esistere, non potranno come dicevamo che essere pienamente artificiali, in un senso ulteriore rispetto a quello già insito nella "natura culturale" che abbiamo visto propria in generale dell'uomo: potranno cioè esistere solo in quanto, come sottolinea Cavalli-Sforza, direttamente e deliberatamente progettate e create, sulla base di criteri, non "razionali", ma direttamente dipendenti dalla visione del mondo, e dalle scelte affettive ed estetiche, dei loro artefici.

Tale possibilità è ben presente anche a dichiarati fautori della fine della storia filosoficamente ben più attrezzati di Cavalli-Sforza. E' così un autore di lucidità indiscutibile come Jürgen Habermas a mettere in guardia contro quello che egli considera lo "scenario spettrale" di un "comunitarismo genetico", in cui diverse culture potrebbero portare avanti una «auto-ottimizzazione genetica del genere umano in direzioni diverse, finendo così per mettere in discussione l'unità della natura umana come fondamento rispetto al quale tutti gli uomini avevano potuto finora intendersi, e mutuamente riconoscersi, quali membri di una stessa comunità morale» (anche se in realtà ciò che Habermas presenta qui come stato "naturale" e tradizionale è ciò cui è semmai proprio il mondo contemporaneo a tendere, per la prima volta nella storia) (194).

Stefano Vaj

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(165) Lugi Luca Cavalli-Sforza [alias], Storia e geografia dei geni umani, Adelphi, Milano 1997. Le conclusioni di tale poderosa ricerca sono riassunte anche nel più accessibile Geni, popoli e lingue, op. cit., in cui i dati ricavati dalle "cartografie" delle distribuzione geografica contemporanea di varie centinaia di geni vengono messi in rapporto con una enorme massa di dati demografici, archeologici e linguistici, sino a constatare come genealogie del tutto diverse, come quella genetica, quella paleoantropologica e quella linguistica si rivelino in accordo e si corroborino a vicenda.
(166) Per una recente edizione italiana Charles Darwin, L'origine dell'uomo, Studio Tesi, Milano 1991. In versione originale: The descent of man, Penguin, Londra 2004 [edizione Web].
(167) In realtà, come vedremo, è proprio sulla natura "culturale" dell'uomo che avrebbe dovuto appuntarsi l'attenzione. Il che del resto lascia ampio campo libero allo studio dei meccanismi "naturali" di formazione delle razze attraverso l'osservazione delle altre specie ed il confronto appunto delle razze animali e vegetali con quelle umane.
(168) Il passo in questione è a lungo analizzato in Stefano Vaj, Indagine sui Diritti dell'Uomo. Genealogia di una morale, LEdE, Roma 1985, pag. 59 e segg. [versione Web].
(169) Beiker, Weiner, Biology of Human Adaptability, Oxford University Press, Oxford 1966.
(170) Riggs, Sargent, "Physiological Regulation in Moist Heat by Young American Negro and White Males", in Human Biology, 1964, 32, pagg. 339-335.
(171) Vedi quanto ricordato alla nota 8, nonché il libro di Jacquard più volte citato. Mentre sulla componente ereditaria del QI valgono gli studi sui gemelli identici allevati separatamente, per ciò che concerne la razza lo studio Race et intelligence, op. cit., di Jean-Paul Hébert esamina i risultati medi di individui allevati in condizioni tendenzialmente identiche (ad esempio gli ospiti di un orfanatrofio) ma appartenenti ad etnie diverse. Tali test, come noto, evidenziano non solo risultati mediamente inferiori da parte delle popolazioni negroidi, ma altresì una curva di distribuzione significativamente diversa tra razze europoidi ed orientali.
(172) Interessanti sono in tal senso gli studi che identificano la riemergenza di moduli espressivi e grammaticali propri alle lingue africane nell'inglese parlato dai negri americani, benché non vi sia alcuna ipotizzabile continuità culurale tra le prime e il secondo, dato che le lingue africane sono andate del tutto perdute tra gli schiavi importati negli Stati Uniti.
(173) Un esempio "sociobiologico" che fa Lorenz è quello delle piume della coda dell'uccello argo, che rendono più difficile sfuggire ai predatori, ma la cui lunghezza è un fattore decisivo nella preferenza delle femmine della specie, presumibilmente perché garantisce una discendenza maschile altrettanto irresistibile per le femmine della sua generazione, così che l'ipotetica femmina "amante delle piume corte" tenderebbe a veder ridursi ad ogni generazione il numero dei suoi nipotini. Cfr. Konrad Lorenz, L'anello di re Salomone, ult. ed. italiana Adelphi, Milano 1989, e Stefano Vaj, "L'etologia", in l'Uomo libero n. 5. art. cit.
(174) Cfr. Hans F.K. Günther, Platone custode della vita, op. cit.
(175) Salzano et al., "Further Studies on the Xavante Indians", in American Journal of Human Genetics, 1967, 19, pagg. 463-489; Chagnon et al., "The Influence of Cultural Factors on the Demography and Pattern of Gene Flow from the Makritare to the Yanomama Indians", ibidem, 1970, 32, pagg. 339-350.
(176) Joseph B. Birdsell, Human Evolution, Rand McNally, Chicago 1972.
(177) Per menzionare un esempio equivalente in Europa, secondo uno studio portato a termine nel 2006 da alcuni scienziati irlandesi, un personaggio storico chiamato Niall of the Nine Hostages, che è tramandato aver lasciato dodici figli dietro di sé, potrebbe ritrovarsi circa... tre milioni di discendenti contemporanei, essendo stato individuato come origine di materiale genetico, localizzato sul cromosoma Y, condiviso in media da un maschio su dodici nell'Eire. Vedi Lester Haines, "Irishman has three million kids" in The Register, 19/01/2006.
(178) B. Glass, "Genetic Changes in Human Populations, Especially Those Due to Gene Flow and Genetic Drift", in Advances in Genetics, 1954, 6, pagg. 95-139; Steinberg et al. "Genetic Studies in an Inbred Human Isolate", in Proceedings III International Congress on Human Genetics, 1967, pagg. 267-269.
(179) Theodosius Dobzhansky [alias], Diversità genetica e uguglianza umana, op. cit.
(180) Cfr. Motoo Kimura e James F. Crow, "Natural Selection and Gene Substitution", in Genetic Research, 1969, 13, pagg. 27-41.
(181) Per una recente edizione italiana Charles Darwin, L'origine della specie, Zanichelli, Milano 1994. In versione originale: The origin of specie, Signet Classics, Londra 2003 [edizione Web].
(182) Motoo Kimura e James F. Crow, "Natural Selection and Gene Substitution", art. cit.
(183) Grado in fin dei conti relativo. Come è stato osservato, esistono specie animali, anche selvatiche, in cui il processo di differenziazione razziale è molto più spinto che nell'uomo, tanto da confinare con la speciazione (tali razze restano geneticamente compatibili, ma non sono più naturalmente interfeconde per ostacoli di tipo etologico o meccanico all'accoppiamento tra membri di razze diverse, o alla capacità della femmina di portare a termine l'eventuale gravidanza). Cfr. le ipotesi da barzelletta sull'eventuale accoppiamento di un Chihuahua e di un San Bernardo.
(184) Naturalmente, selezione sessuale e segregazione sono due facce di una stessa medaglia, quando si prenda la prima non in termini assoluti, ma in termini di probabilità che l'individuo X generi prole con l'individuo Y. In tale senso, un elemento come abbiamo già visto certamente "culturale" di cui Cavalli-Sforza [alias] sottolinea il grandissimo ruolo è la lingua, i cui confini, malgrado conquiste, colonizzazioni, migrazioni, etc. ancora oggi corrispondono spesso in misura significativa anche a "gradienti genetici". A quanto pare, chi difende la propria identità linguistica difende anche la propria identità etnica, e il linguaggio svolge un ruolo normalmente decisivo nel corteggiamento umano...
(185) Per una discussione circa il significato e la portata dell'immigrazione di massa in termini di etnocidio, rimandiamo a Stefano Vaj, "Per l'autodifesa etnica totale", in l'Uomo libero n. 51.
(186) Gregory Stock [alias], Redesigning Humans, op. cit., pag. 57.  Trad. italiana: Riprogettare gli esseri umani. L'impatto dell'ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie,  Orme Editori 2005.
(187) È facile infatti capire che in una specie che vive in condizioni ambientali simili e in uno stato di tendenziale panmissia, nessuna diversificazione ha ragione o possibilità di manifestarsi, e soprattutto mantenersi.
(188) Luigi Luca Cavalli-Sforza [alias], Geni, popoli e lingue, op. cit., pag. 300.
(189) Sentiamo echeggiare qui il punto di vista ben illustrato da Bertold Brecht nell'inventare l'immaginaria "maledizione cinese" «che tu possa vivere in tempi interessanti». Se l'avvenire dell'uomo non è più la felicità nel paradiso celeste o nella società senza classi, che comunque sia quanto meno il più noioso possibile...
(190) Il libro riproduce un corso di conferenze tenuto alla Sorbona nel 1981, e ripetuto ed aggiornato nel 1990. All'inizio degli anni ottanta, e peggio ancora dieci anni dopo, Cavalli-Sforza [alias] appare, per essere un professore di genetica, singolarmente poco informato sugli sviluppi che già si annunciavano chiaramente... E in ogni modo non si vede su che basi lo stesso potesse sperare che la "fortuna" cui ripetutamente accenna fosse destinata a durare più di qualche anno.
(191) Per un'edizione italiana facilmente reperibile del celebre racconto cui accenna Cavalli-Sforza [alias], vedi Aldous Huxley [alias], Mondo nuovo e ritorno al mondo nuovo, Mondadori, Milano 2000, in edizione originale The Brave New World, Harper 1998 [edizione Web].
(192) Grazioso ed anodino eufemismo, che dà atto di come l'autore stesso ritenga che i suoi lettori non siano ancora pronti a sentir parlare con indifferenza della propria estinzione.
(193) Oswald Spengler, Ascesa e declino della civiltà delle macchine, op. cit., pag. 100 (ult. ed. italiana con il titolo L'uomo e la macchina, versione originale: Der Mensch und die Technik. Beitrag zu einer Philosophie des Leben).
(194) Jürgen Habermas, Il futuro della natura umana: i rischi di una genetica liberale, Einaudi, Torino 2002, pag. 44.