Biopolitica. Il nuovo paradigma
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Deriva,
adattamento, differenziazione
È
grazie ad un italiano già citato, e precisamente a Luigi
Luca Cavalli-Sforza [alias],
che negli ultimi dieci anni conosciamo per la prima volta con
discreta precisione la storia delle razze umane negli ultimi
centomila anni, grazie ad uno studio imponente la cui portata è ancora difficilmente apprezzabile, ed è
unicamente paragonabile a quella di Georges Dumézil per ciò
che concerne i cinque o diecimila anni di storia dell'identità
europea.
Da
cosa derivano d'altronde tali differenze? «Un secolo fa»,
scrive Dobzhansky [alias],
«Darwin si sentiva frustrato in tutti i tentativi di spiegare la differenza
delle razze umane». In particolare, riteneva difficile chiamare
in causa la selezione naturale, perché «ci scontriamo
immediatamente con l'obiezione che in tale modo possono conservarsi
unicamente le variazioni benefiche; e per quanto possiamo giudicare
(sempre soggetti ad errore) nessuna delle differenze esterne tra le
razze umane è di qualche diretto o particolare aiuto
all'uomo». Afferma in effetti Darwin testualmente in L'origine
dell'uomo: «Da parte mia, concludo che tra tutte le
cause che hanno determinato le differenze nell'aspetto esterno tra le
razze umane, e in certa misura le differenze tra l'uomo e gli animali
inferiori, la più efficiente è stata di gran lunga la
selezione sessuale» ().
Tale
punto di vista è naturalmente superato, in particolare nella
confusione tra la selezione intraspecifica e quella interspecifica
(in cui la selezione sessuale per definizione non può giocare
alcun ruolo), ma soprattutto nell'artificiale distinzione tra la
selezione naturale in senso stretto (intesa come capacità di
sopravvivenza individuale) e la selezione sessuale (ovvero la
capacità di attirare partner fecondi, e i migliori possibili
tra di essi), che la sociobiologia riduce ad un solo fattore, ovvero la capacità di un gene di
replicare efficacemente se stesso, la sopravvivenza individuale o il
sex appeal non essendo che presupposti tra altri in vista del
raggiungimento di tale "fine".
Ciò
che più interessa qui è però il fatto che i
dubbi di Darwin e la sua incertezza al riguardo non sono molto cambiati sino ad
un'epoca molto recente. Come osserva infatti Dobzhansky [alias],
«sino a meno di una generazione fa, i principali antropologi
ritenevano che le differenze razziali fossero per la maggior parte
adattativamente neutre e di conseguenza non si sforzavano granché
per scoprirne gli eventuali valori selettivi. I radicali mutamenti
negli ambienti umani provocati dagli sviluppi culturali rendevano
particolarmente difficoltoso l'approccio al problema ():
un carattere genetico può aver giocato un milione di anni or
sono un ruolo adattativo completamente diverso da quello di diecimila
anni fa, a sua volta magari differente da quello attuale. Infine, con
una curiosa inversione di ragionamento, la dottrina dell'uguaglianza
umana pareva escludere la possibilità di un adattamento
(adaptedness) genetico differenziato», in quanto
concetto pericolosamente suggestivo della possibile idoneità
degli uomini e delle razze a ruoli e modelli di vita diversi, secondo
quanto suggerito invece da un celebre passo di Aristotele [alias] .
Lo
stesso significato adattativo di una caratteristica così ovvia
come il colore della pelle è aperto alla discussione. La
nozione secondo cui un corredo genetico che provvede una
pigmentazione scura protegge dalle scottature solari e dai tumori
alla pelle – esattamente come il meccanismo fisiologico che
governa la produzione di melanina,
e perciò l'"abbronzatura", nei singoli individui –
è molto antica, ed è resa plausibile, oltre che dal
buon senso, dal fatto che le razze a pelle scura invariabilmente
abitano (o almeno abitavano) le zone tropicali ed equatoriali
del pianeta.
Meno
chiara era l'utilità di una minor dotazione di melanina
per chi fosse al contrario meno esposto alle radiazioni solari, ma
più recentemente è stato rilevato come il maggiore
assorbimento della luce solare, in ipotesi scarsa, consenta una
migliore sintesi della vitamina
D, la vitamina antirachitica.
È
vero d'altronde che la pelle scura provoca un assorbimento maggiore
del calore convogliato dalla luce solare proprio là dove tale
effetto sarebbe meno desiderabile; ed ancora, la regola della
distribuzione geografica della pigmentazione bruna non è senza
eccezioni: gli indiani del Sudamerica equatoriale non sono
particolarmente scuri, e alcuni dei nativi della Siberia
nordorientale sono bruni almeno quanto quelli del Nordafrica.
Esistono però varie possibili spiegazioni delle "eccezioni"
in questione, sia fondate sulla supposizione che i popoli con pelle
abbastanza chiara nei paesi molto caldi (e forse quelli con
carnagione piuttosto scura nei paesi molto freddi) siano immigrati
relativamente recenti, sia sulla base di valutazioni più
penetranti delle relative realtà ambientali, che vedono ad
esempio gli abitanti dell'America meridionale dimorare all'ombra
delle foreste più a lungo che all'aperto, o gli abitanti delle
regioni polari godere di una razione di UV moltiplicata dal riverbero
della neve e dalla lunghezza estrema delle giornate estive, tanto che
i "bianchi" in tali condizioni fanno oggi tipicamente uso
di prodotti anti-scottature.
Altri
hanno ancora rilevato la possibile valenza mimetica del colore della
pelle nella foresta tropicale: e in effetti, nelle diverse razze
delle specie animali allo stato selvatico (ad esempio, la tigre
siberiana rispetto alla tigre di Sumatra) questa è la chiave
di lettura più ovvia e frequente delle differenze di
pigmentazione riscontrate.
In
ogni modo, le ipotesi sul significato adattativo della pigmentazione
nelle razze umane non si escludono l'un l'altra, e la loro stessa
molteplicità rende tale valenza adattativa fortemente
plausibile.
Similmente,
una notevole massa di attente indagini sono state dedicate alla
fisiologia di popolazioni umane adattate a certi ambienti
particolarmente rigorosi, come per esempio gli indiani degli
altopiani andini (freddo, scarsità di ossigeno) e gli
eschimesi ().
Altri hanno confrontato le reazioni allo sforzo di giovani maschi
bianchi e negri in condizioni di caldo-umido estremo (). Tutte le indagini hanno constatato differenze statisticamente
sicure nelle direzioni attese, a prescindere dall'adattamento
acquisito o meno nel corso della vita individuale. Più
empiricamente, è il negro primatista mondiale dei cento metri
piani Ben
Johnson a notare, in risposta ad una domanda durante
un'intervista televisiva sulla assoluta dominanza di atleti di
origine africana nella sua specialità olimpica, come la
velocità nella corsa abbia per almeno una trentina di
generazioni conservato in Africa una valenza ben superiore, in
termini di probabilità di sopravvivenza e successo individuale
(dalla caccia agli scontri tribali alla fuga dai predatori), a quanto
sia accaduto alle razze abitanti in altri luoghi.
Analoghe
considerazioni possono essere avanzate per un tratto quale il
cosiddetto "quoziente di intelligenza", che a tante
polemiche ha dato luogo, e che oggi sappiamo con certezza tanto
essere oggetto di una forte componente genetica, quanto presentare
curve di distribuzione nettamente differenziate su base razziale ().
La critica secondo cui i test non sarebbero culturalmente e
razzialmente neutri, in quanto predisposti da studiosi "occidentali"
e "bianchi", è infatti facilmente rovesciabile nella
constatazione che ciò in effetti i test misurano sono
esattamente... le caratteristiche selezionate nel medesimo ambito che
esprime i test, e che sicuramente potrebbero avere avuto un
significato adattativo diverso o nullo in un contesto diverso – in
cui tratto razzialmente e selettivamente saliente poteva essere
invece, poniamo, la resistenza statistica alla malaria, o l'empatia
estatica con gli altri membri del gruppo nel corso di riti
sciamanici, o appunto la velocità nella corsa.
L'esempio
riporta per altro immediatamente alla constatazione già
ricordata che gli ambienti umani sono per definizione, a partire
dalla rivoluzione neolitica e dall'avvento del "secondo uomo", ambienti culturalmente modificati e determinati, in cui il
valore adattativo in senso sociobiologico e le caratteristiche
plasmate attraverso pressioni selettive di tipo culturale si
mischiano inestricabilmente.
Ciò
ha rilevanza anche per la demistificazione della contrapposizione
"naturale"/"culturale", che sottintende
normalmente il sospetto che venga attribuito a caratteristiche
naturali, o comunque geneticamente programmate, ciò che in
realtà sarebbe dipendente dall'influenza della cultura in cui
ciascun essere umano è cresciuto (se non dall'"educazione",
o dall'"ambiente sociale").
Infatti,
mentre la creazione di culture costituisce propriamente la natura degli esseri umani, è ragionevole immaginare che gli stessi
tratti identificanti di una macrocultura determinata siano figli non
soltanto del "caso", ma di uno psichismo collettivo che è espressione (anche) di un'identità
etnobiologica precisa; così che le caratteristiche della
popolazione di riferimento – salvo il caso di individui allevati al
di fuori della propria comunità di provenienza – sono doppiamente determinanti quanto al fenotipo individuale, e
cioè sia per ciò che attiene al bagaglio genetico che
l'individuo condivide con il resto del gruppo, sia per ciò che
attiene appunto alle pressioni direttamente plasmatrici, nonché
geneticamente selettive, di un ambiente "culturale" che a
sua volta è espressione di tale popolazione e stirpe, e di
nessun'altra.
Una
conferma di tale circostanza l'abbiamo in particolare con riguardo ad
una caratteristica umana sufficientemente "discreta"
(ovvero con salti bruschi tra chi la possiede e chi no) come la
lingua, che è certamente ed eminentemente caratteristica culturale.
Sappiamo
infatti da Noam
Chomsky [alias]
e dalla linguistica moderna come la capacità di parlare sia
programmata geneticamente nella specie umana, grazie alla
disponibilità innata di una "grammatica universale"
che deve essere attivata al massimo entro i tre o quattro anni di età
attraverso l'apprendimento di una serie di "parametri" (o switch) che a loro volta definiscono la struttura di una lingua
particolare tra tutte le altre. Sappiamo inoltre empiricamente che
qualunque essere umano, estratto dalla sua comunità di
provenienza, può essere allevato come madrelingua in qualunque
idioma esistente. Come capita allora che sia una certa popolazione, e
non altre, ad avere sviluppato una data lingua? O, in altri termini,
perché le lingue non sono tutte uguali?
Pare
inevitabile concludere che esiste un legame tra le caratteristiche
che identificano la popolazione in questione rispetto a tutte le
altre e quelle che sono le caratteristiche specifiche (pure per definizione oggetto non di ereditarietà genetica,
bensì squisitamente culturale) della famiglia linguistica
di cui la medesima popolazione sia stata la culla ()
– attraverso i consueti meccanismi, in questo caso solo
pseudobiologici, di segregazione, deriva e selezione.
Ciò
è altrettanto vero per quella che Darwin definiva "selezione sessuale", ovvero quella operante
attraverso le preferenze dei potenziali partner riproduttivi. Mentre
la sociobiologia ha dimostrato tali preferenze essere a loro volta
dettate dalle "aspettative" dei geni del partner quando al
successo riproduttivo della prole comune, le stesse preferenze sono
fortemente determinate dalla conformità a ideali sociali,
estetici, morali, culturalmente determinati, conformità che a
sua volta garantisce tendenzialmente maggiori probabilità di
successo riproduttivo alla propria prole all'interno della comunità
in questione.
Tutto
ciò ha poco a che fare, già nelle specie animali, con
l'adattamento o il "miglioramento" nel senso in cui li
interpretava Darwin.
Già Konrad
Lorenz notava come la selezione sessuale possa favorire
l'affermazione di caratteristiche fisiche o comportamentali che
provocano un pregiudizio ben identificabile con riguardo alle
chances di sopravvivenza del singolo ().
D'altronde, le caratteristiche visive, olfattive, uditive,
comportamentali dei membri di un gruppo possono facilmente
determinare un fenomeno di "rinforzo" capace di enucleare
facilmente una razza distinta – se non alla fine persino una specie
diversa. La preferenza geneticamente determinata per alcune
caratteristiche nei partner sessuali tende infatti ovviamente a
rafforzare la segregazione del gruppo in cui si manifesta, e a
rafforzare parallelamente la frequenza ed intensità delle
caratteristiche stesse nel gruppo medesimo, in cui a loro volta tali
preferenze diventeranno un vantaggio riproduttivo, in un circolo
vizioso o virtuoso che sia.
Tutto
ciò per la specie umana si colora di aspetti particolari,
perché, come abbiamo visto, tale specie già con il
"secondo uomo" modella culturalmente il suo ambiente, con
riguardo a tutti i fattori che ne possono plasmare l'identità
biologica. Nel "terzo uomo", il problema è reso
ancora più complesso dal fatto che, come già visto in
relazione al "pericolo disgenico", le caratteristiche che
l'ambiente (artificiale) seleziona, o cessa di selezionare, possono
non corrispondere affatto a quelle astrattamente desiderabili,
foss'anche da un punto di vista umano, e non solo "darwiniano".
Gli stessi meccanismi relativi alla selezione sessuale vengono
d'altronde distorti nel caso della nostra specie in modo del
tutto peculiare. Gli elementi tradizionali dell'abbigliamento, della
profumazione, della cosmesi, dell'utilizzo di ornamenti simbolici, si
compongono infatti sempre di più con i risultati ottenibili
mediante l'utilizzo di trattamenti farmacologici, mesoterapici e
chirurgici di vario genere, non esclusi i trapianti, che alterano
ovviamente la "lettura del fenotipo" da parte dei possibili
partner, ivi compreso per le caratteristiche che tendono ad
identificare i tratti razziali più vistosi, quali il
taglio degli occhi che le donne giapponesi si facevano cambiare
chirurgicamente alla fine della seconda guerra mondiale per
conformarsi ai caratteri somatici (e presumibilmente ai canoni
estetici) dei vincitori, fino ad arrivare oggi all'alterazione della
propria pigmentazione naturale richiesta ed ottenuta tra gli altri da
personaggi come Michael
Jackson.
Già
negli anni settanta Dobzhansky [alias]
notava comunque come secondo le vedute moderne la "selezione
naturale" e "selezione sessuale" non sono più
distinte nel senso in cui le vedeva Darwin.
Il coefficiente di selezione, ovvero la differenza tra le idoneità
"darwiniane" di genotipi diversi, misura infatti unicamente
i tassi di trasmissione di certe componenti di questi genotipi da
generazione a generazione, restando relativamente trascurabile il
fatto che la trasmissione genica differenziale sia dovuta, in taluni
casi, ad un maggior successo nell'accoppiamento, mentre, in altri,
sia provocata da una mortalità o fertilità
differenziale, oppure da uno sviluppo più accelerato, o da
qualsiasi altro fattore. Le varianti genetiche favorite dalle
risultanze di tutti questi fattori aumenteranno la loro frequenza
nelle popolazioni, mentre quelle svantaggiate subiranno una
diminuzione. Un ridotto successo nell'accoppiamento può essere
compensato da una maggiore vitalità o fertilità, o
viceversa.
Benché
quasi tutti coloro che arrivano alla pubertà abbiano, nelle
società primitive ed ancor più nella società
moderna, l'opportunità di accoppiarsi e procreare, alcuni
individui non soltanto possono accedere ad un maggior numero di
partner, ma a partner di qualità migliore, e sono in aggiunta
spesso in grado di assicurare alla prole con esso concepita
condizioni migliori, che a loro volta ne aumentano la probabilità
di sopravvivenza e successo riproduttivo. Abbiamo anche visto come
nella società moderna i tratti genetici di questi individui
possono benissimo non corrispondere affatto a caratteristiche
funzionali alla sopravvivenza in condizioni diverse, o anche solo
plausibilmente auspicabili ed accettabili per la maggior parte dei
nostri contemporanei; e comunque possono senz'altro non rispecchiare
nel loro insieme uno spettro di varianze razziali sufficienti a
mantenere la flessibilità o la ricchezza della specie. Ciò
che però qui importa è in quale misura la divergenza
razziale delle popolazioni sia provocata da una selezione
"direzionale"; ovvero il decidere se un dato tratto
genetico sia influenzato dalla selezione; e ancora (e questo è
un problema di più difficile soluzione) perché in
differenti popolazioni siano favorite differenti varianti del
medesimo tratto.
Lo
stato delle nostre conoscenze in questo campo è tuttora
assolutamente rudimentale; non ultimo, in relazione a ciò che
concerne specificamente le razze umane, per il clima di sospetto e la
scarsità di fondi che oggi ovviamente circondano le ricerche
nel settore.
Sappiamo
d'altronde che la risposta per ciò che concerne le razze di
animali domestici è molto più semplice: tali tratti
sono consapevolmente selezionati dall'allevatore, sulla base
del materiale genetico posto a sua disposizione dalle linee
germinali, di origine selvatica, presenti nella specie.
Ora,
anche se il primo formarsi di razze umane risale indubbiamente al
periodo dell'ominazione, ed è perciò molto più
antico della nascita delle "culture spengleriane", è
lecita l'ipotesi che almeno a partire dalla rivoluzione neolitica le
razze umane come le conosciamo (o le abbiamo conosciute sinora) siano anche il frutto di un gigantesco esperimento di
autodomesticazione umana, a sua volta oggettivamente mirante appunto
alla selezione direzionale di caratteristiche culturalmente
determinate. La "riscoperta" da parte di Platone di miti e norme in tal senso, che lo stesso considera ancestrali e
già oscurati nella sua epoca, è al riguardo eloquente
quanto alla antichità in ambito indoeuropeo della relativa
consapevolezza ();
ma prima ancora Esiodo,
o il Mahabharata [alias]
indiano, o i miti di fondazione, anteriori alla dispersione ed al
muro della scrittura, che ha messo in luce Dumézil,
ben riflettono il definitivo passaggio, avvenuto da migliaia di anni,
dai meccanismi "naturali" allo stadio cosciente e storico – sino a giungere nella nostra epoca al passaggio
appunto allo stadio della autocoscienza o coscienza superiore.
La
selezione direzionale non può d'altronde spiegare da sola né
l'origine delle differenziazioni razziali, né esaurire la
descrizione dei relativi meccanismi, che vedono un ruolo altrettanto
importante giocato dalla deriva genetica. Tale fenomeno è
stato studiato, con riguardo alla specie umana, soprattutto con
riferimento a popolazioni fortemente isolate, e rimaste
sostanzialmente al di fuori della rivoluzione neolitica sino alle
soglie della nostra epoca. Alcuni autori hanno studiato alcune
popolazioni amazzoniche (),
altri gruppi di aborigeni australiani ().
Al riguardo, in uno dei villaggi esaminati è stato constatato
come addirittura un quarto della intera popolazione attuale possa essere fatta risalire a soli due individui, presumibilmente
maschi dominanti o capitribù del passato ().
È
vero che in tali popolazioni, mentre le donne sono uniformemente
esposte alla probabilità di una gravidanza e di rado vengono
meno al compito assicurare la riproduzione, gli uomini sono
caratterizzati da una varianza sensibilmente più elevata nelle
prestazioni riproduttive. Ma la cosa non è sufficiente a
spiegare il fenomeno, del resto ben descritto anche nelle popolazioni
animali e vegetali ove sussistano condizioni di sufficiente
segregazione. In particolare, la stessa identica situazione è
stata osservata in... gruppi religiosi autosegregati negli Stati
Uniti ();
benché la gente che vi appartiene pratichi presumibilmente una
rigorosa monogamia, inevitabilmente si hanno variazioni nel numero
dei figli per famiglia, e della percentuale di questi che resta
malgrado tutto celibe. Con il trascorrere del tempo le variazioni,
sommandosi, conducono alla diversificazione delle frequenze geniche,
ovvero alla diversificazione razziale incipiente.
In
contrasto con la selezione, che è un processo direzionale e
deterministico, siamo qui in presenza di processi genetici stocastici
o casuali: non solo tutta la popolazione umana attuale discende da
una popolazione che anche solo diecimila anni fa era di due ordini di
grandezza inferiore, ma innumerevoli linee genetiche in essa presenti
si sono nel frattempo estinte, e continuano ad estinguersi ad ogni
generazione. "Deriva genetica casuale", "cammino
casuale", "principio del fondatore" ed "evoluzione
non-darwiniana" sono alcuni dei molti nomi attribuiti a questi
processi.
Nota Dobzhansky [alias]:
«Le differenze razziali indotte ad opera della selezione
naturale hanno, da un punto di vista biologico, un significato molto
diverso da quelle imputabili alla deriva genetica. La selezione
naturale rende in ipotesi le popolazioni differenzialmente adattate
ad ambienti diversi. In altre parole, le differenze razziali che
insorsero per selezione sono – o ad un certo punto furono –
armonizzate alla vita in un certo tipo di circostanze. La situazione
non è necessariamente identica con le differenze dovute alla
deriva. Almeno all'inizio, può darsi che due popolazioni siano
adattativamente equivalenti – e ciononostante ampiamente
differenziate. Senza dubbio, è possibile che la selezione
agisca sulle differenze originariamente neutre, e le inserisca in
corredi ereditari adattivamente integrati. Selezione e deriva possono
intrecciarsi nel corso dell'evoluzione delle razze» ().
D'altronde,
per chi dubitasse che le relative questioni siano "ideologicamente"
indifferenti, basta ripercorrere i tempi del relativo dibattito.
L'importanza attribuita al fattore stocastico (e perciò, in un
senso non del tutto metaforico, al "destino") ha seguito un
ciclo interessante. Il prestigio attribuito alla selezione naturale
come agente nella diversificazione delle razze, e più in
generale nell'evoluzione, toccò in particolare il fondo nella
prima metà del Novecento, quanto la genetica cominciava ad
afferrare i suoi concetti fondamentali, tanto che persino Haldane o Wright,
i fondatori della cosiddetta teoria sintetica dell'evoluzione,
finiscono per riconoscre tra il 1926 e il 1932 l'importanza
fondamentale della deriva genetica casuale, talvolta addirittura
definita "principio di Sewall Wright".
Molti
altri autori, d'altronde, in particolare dell'Europa continentale,
riconobbero il ruolo della deriva genetica come ipotesi utile nella
spiegazione delle differenze tra organismi cui non possa essere
facilmente attribuito alcun particolare valore in termini di
sopravvivenza (o, più modernamente, in termini di successo
riproduttivo), categoria in cui rientrano certamente numerose
differenze razziali riscontrabili nella specie umana.
La
reazione si manifestò poderosamente negli anni cinquanta e
sessanta. Benché non potesse essere negato il ruolo teorico
della deriva genetica, se ne dichiarò trascurabile la portata
nelle popolazioni naturali, e quindi nell'evoluzione delle razze e
delle specie, posto che a selezione ed adattamento viene attribuita,
per la loro essenza deterministica, una valenza in un certo senso più
"tranquillizzante" e "progressista" (dopo tutto
le razze non sarebbero che conseguenze, seppure indirette e
geneticamente fissate, dell'"ambiente") rispetto ad una
identità emergente in quanto tale dall'intreccio tra il caso e la scelta – e perciò appunto dal destino.
Il
relativo dibattito concerne in particolare le caratteristiche
razziali, ma, come è ovvio, ha portata più generale con
riguardo alla storia naturale. Ad ogni modo, già dalla fine
degli anni sessanta l'importanza della deriva genetica non ha più
potuto essere negata, non da ultimo a seguito della constatazione di
come la maggior parte delle micromutazioni non abbiano alcun effetto
sull'adattamento degli organismi, e perciò la loro diffusione
ed affermazione debba necessariamente avere a che fare con la deriva
casuale del pool genetico della popolazione ();
così che oggi il ruolo della deriva è unanimente
riconosciuto, in particolare dai biologi molecolari e da chi si
occupa della genetica delle popolazioni. Del resto, in questo senso
in Darwin stesso si trovano sorprendentemente accenni che oggi sarebbero
considerati "non-darwiniani", come quando lo stesso scrive
nell'Origine della specie: «Le variazioni non
utili né dannose non sarebbero influenzate dalla selezione
naturale e verrebbero lasciate quale elemento fluttuante, come forse
si osserva nelle specie definite polimorfe» ().
In
effetti, se come è vero in tutte le popolazioni di esseri
viventi sessuati la presenza di caratteristiche selettivamente neutre
è soggetta a fluttuazioni, tali caratteristiche sono
inevitabilmente soggette ad una possibile deriva genetica, ovvero al
fatto che alcune delle variazioni andranno perdute in certe
popolazioni, si fisseranno definitivamente in altre, e resteranno
fluttuanti in altre ancora, dato un numero di generazioni
sufficientemente lungo. Tale numero, più esattamente definito
come il numero medio di generazioni comprese tra l'origine e la
fissazione di un gene mutante adattivamente neutro, come illustrato
da Kimura (),
è prossimo a 4N(e), essendo N(e) la popolazione efficace in
senso genetico.
Ciò
è importante perché anche tenuto conto dell'incidenza
combinata dei fattori selettivi "naturali" i numeri in
questione richiedono, per giungere al grado di differenziazione
riscontrabile tra le razze umane (),
che le popolazioni dei "fondatori" si siano ripetutamente
ridotte a relativamente poche unità nel corso della storia e/o
che la popolazione effettivamente partecipante al pool genetico delle
generazioni successive si sia mantenuta a lungo su valori molto
bassi. In altri termini, le razze presenti devono per forza derivare
da gruppi modesti e ben delimitati, e/o da gruppi il cui
differenziale riproduttivo dei vari membri era altamente
differenziato. Il che significa ovviamente segregazione genetica (endogamia) ()
e selezione orientata, quali abbiamo già visto
implicite nella diversificazione culturale dei gruppi razziali. Cosa
significa tutto ciò?
Oggi
la specie umana, come altre specie animali e vegetali sessuate, è
divisa in razze principali (sottospecie), razze secondarie e
popolazioni locali. La suddivisione in questione è
strettamente legata inoltre, in modo complesso, ad altre
differenziazioni tipicamente umane (ovvero culturali), quali quelle
linguistiche, politiche, religiose, etc., che con essa interagiscono
nella definizione delle comunità concrete e diversificate di
cui l'umanità si compone. Tale situazione può essere
"approvata" o "disapprovata", ma costituisce
incontrovertibilmente l'eredità di cui siamo portatori.
Chi
ritenga desiderabile il suo mantenimento e sviluppo – o
anche semplicemente non accetti di ignorare stolidamente il prezzo da
pagare per ribaltare e rinnegare tale eredità, ad esempio in
termini di ricchezza della specie e di chances di sua sopravvivenza a
lungo termine – non può evitare di confrontarsi con le
condizioni sulla cui base tale tipo di suddivisione abbia potuto
affermarsi e mantenersi in passato.
È
facile ad esempio constatare che se la separazione geografica ha
sempre giocato un ruolo relativo in termini di segregazione (e di
riflesso di differenziazione) delle popolazioni umane il suo ruolo
è oggi progressivamente vanificato.
In
aggiunta alla mobilità spaziale, l'entropia culturale, con
rimozione delle relative barriere, ad esempio linguistiche, non è
solo oggetto di progetto ideologico preciso – che del resto
promuove apertamente il melting pot anche genetico (pur nella
contraddizione con la contemporanea affermazione di una supposta
"irrilevanza" delle differenze etno-razziali) – ma
costituisce un effetto diretto della globalizzazione delle
comunicazioni, e di nuovo dell'eliminazione delle distanze.
La
crescente uniformizzazione dell'ambiente umano su scala planetaria
(dalla dieta, alla climatizzazione, alle abitudini di vita,
all'alterazione, in chiave uniforme e come abbiamo visto
potenzialmente disgenica, delle pressioni selettive) parimenti tende
a rimuovere gli effetti della selezione "direzionale", e
converge con la mescolanza generalizzata direttamente promossa
dall'"immigrazionismo" contemporaneo ().
D'altra parte, come nota Gregory
Stock [alias],
«noi siamo il
risultato di una complessa interrelazione tra i nostri geni e il
nostro ambiente, e i due sono interdipendenti. Le nostre tendenze
genetiche possono conformare il nostro ambiente pilotando le nostre
scelte, e le influenze ambientali possono attivare o meno certe
espressioni dei nostri geni. Ciò significa che tanto più
una società elimina con successo variazioni estreme
nell'ambiente (ad esempio, fornendo a tutti accesso ad una
alimentazione ed educazione di base) tanto maggiormente i geni
diventeranno più, non meno, importanti nella
nostra conformazione»
().
In
queste circostanze, non solo è chiaro che la ricchezza della
specie in termini di varianza tra le popolazioni sarebbe
"naturalmente" destinata, sia pure asintoticamente, a
scomparire; ma risulta altresì evidente che nuove
razze non potrebbero mai più nascere (a parte l'ipotesi
della dispersione della specie su pianeti diversi), se non in scenari
davvero post-atomici, ed ancora in tempi geologici .
La
questione non è più se è vero che "gli
uomini sono diversi e resteranno sempre tali", oppure se è
vero che "gli uomini sono uguali, o almeno lo devono diventare".
Il punto è che oggi la sopravvivenza e lo sviluppo della
diversità sono oggetto di una responsabilità unicamente
umana, e possono essere solo "artificiali", frutto di una
scelta autocosciente, di tipo fondamentalmente politico, affettivo ed
estetico. Opporsi davvero alla globalizzazione
significa non solo uscire radicalmente dalla sfera mentale
ugualitaria ed umanista, ma anche dall'illusione di poter ritardare
per più di poche generazioni da posizioni puramente
reazionarie i processi in corso.
Cavalli-Sforza [alias],
la cui opera è assolutamente preziosa dal punto di vista
scientifico, ma la cui scelta di valori personale, malgrado le accuse
di cui è stato talora oggetto, è assolutamente conforme
all'ideologia dominante, conclude Geni,
popoli e lingue ()
come segue: «L'avvenire genetico dell'uomo è molto
poco interessante [corsivo nostro], perché è
probabile che non ci saranno grandi cambiamenti, e certo meno di
quanti ne siano avvenuti sinora ().
[...] La forza che cambia in modo più importante la nostra
biologia è la selezione naturale, che agisce tramite le
differenze di mortalità e fertilità tra gli individui.
La medicina ha quasi abolito la mortalità prima dell'età
riproduttiva, e la fertilità dovrà abbassarsi a valori
molto modesti per dominare l'esplosione demografica che ci minaccia.
Se tutte le famiglie avessero due figli e nessuna mortalità
prima della riproduzione, la selezione naturale scomparirebbe
completamente. La deriva genetica – un'altra causa dell'evoluzione
– è quasi completamente congelata, all'attuale livello di
densità della popolazione. Le mutazioni possono essere
considerate, in questo momento, pericolose, in quanto causa di
mutamenti del DNA potenzialmente nocivi, ed è perciò
probabile che verranno limitate ed evitate per quanto possibile. A
questo punto la trasformazione biologica dell'uomo si arresta. Ciò
sarà vero, naturalmente, se l'uomo non avrà la
follia di cambiarsi volontariamente [corsivo nostro]. Per fortuna
le possibilità dell'ingegneria genetica nell'uomo sono ancora
pressoché nulle ().
Altrimenti, potrà esservi sempre qualche pazzo che voglia
creare razze migliori. In un futuro ancora più lontano ci
vorranno controlli speciali, come quelli attuali per le esplosioni
atomiche, per essere sicuri di risparmiare ai nostri discendenti gli
incubi del Mondo
Nuovo di Huxley [alias] ()? Per fortuna [ed ecco che viene di nuovo ripreso il tema
della fede in questa versione laica della Provvidenza, e nel fatto
che possa essere evitato ciò che in tutta evidenza è
per l'autore moralmente "insopportabile"] sarebbe molto
difficile tenere a lungo nascosto un vivaio di esseri umani destinati a preparare un'umanità diversa per il mondo
nuovo».
E
ancora: «Vi è comunque un grande cambiamento
genetico che sta per avere luogo nella specie umana, a causa delle
migrazioni che portano ad una mescolanza continua e complessa. Alla fine di questo processo, e se – come sembra probabile –
esso continuerà, si avrà un'umanità meno varia
in un senso molto preciso: diminuiranno le differenze tra i gruppi. Vi saranno meno ragioni per il razzismo, il che sarà un
vantaggio. In questo processo, comunque, ci sarà un
cambiamento del tipo medio della popolazione. Almeno oggi, i vari
gruppi etnici mostrano tassi di riproduzione molto diversi. Gli
europei sono demograficamente stazionari, o quasi, mentre le
popolazioni di molti dei paesi non industrializzati sta aumentando ad
una velocità che non si è mai vista sulla Terra.
Il tipo europoide, dunque, diminuirà di frequenza relativa»
()
A
tali conclusioni è facile opporre che è proprio nel Mondo Nuovo di un progetto di umanità "normalizzata" su scala
planetaria che siamo oggi immersi sino alle narici; e
che il controllo umano e politico del destino biologico
della specie e delle sue popolazioni, sino alla manipolazione diretta
del corredo genetico e delle linee germinali, potrebbe certamente
agire in funzione di un'accelerazione del processo, ma
parimenti potrebbe essere (e in un certo contesto ideale certamente
sarebbe) indirizzato a scopi esattamente opposti.
D'altronde,
a tale normalizzazione, e in particolare all'estinzione (salvo
un modesto riassorbimento) di alcune componenti etniche dell'umanità
contemporanea, in particolare la... nostra, non è possibile
opporre unicamente la "difesa" dei fattori tradizionali che
le hanno prodotte.
Il
genio è fuori dalla bottiglia. La tecnologia dei trasporti esiste, così come l'uniformizzazione degli ambienti; le
barriere naturali hanno perso di significato, non solo grazie al
predominio globale dell'ideologia universalista, ma all'estensione
globale delle comunicazioni audiovisive, con le conseguenze che
abbiamo visto in termini di tendenza al monoglottismo planetario;
parimenti, difficilmente sono destinati a scomparire i portati della
medicina moderna o la disponibilità di metodi anticoncezionali
sicuri e affidabili.
Va
del resto sottolineato che questo è non solo un frutto diretto
del compimento dell'avventura del "secondo uomo", ma un
portato dello specifico europeo nel quadro di quest'ultima. Scrive Spengler:
«La cultura
faustiana dell'Europa forse non è l'ultima [tra le "culture superiori" del
secondo uomo] ma è certamente la più potente. [...] E' anche la più tragica di tutte.
[...] Una volontà di potenza, che irride tutti i limiti di
tempo e di spazio, che ha per meta lo sconfinato, l'infinito,
assoggetta interi continenti, e da ultimo abbraccia tutto il globo
con le forme del suo traffico e delle sue comunicazioni e lo trasforma con la
violenza della sua energia pratica e i prodigi dei suoi processi
tecnici» ().
Perciò,
le razze e le popolazioni e le culture umane, se continueranno ad
esistere, non potranno come dicevamo che essere pienamente
artificiali, in un senso ulteriore rispetto a quello già
insito nella "natura culturale" che abbiamo visto propria
in generale dell'uomo: potranno cioè esistere solo in quanto,
come sottolinea Cavalli-Sforza, direttamente e deliberatamente progettate e create, sulla base di criteri, non
"razionali", ma direttamente dipendenti dalla visione del
mondo, e dalle scelte affettive ed estetiche, dei loro artefici.
Tale
possibilità è ben presente anche a dichiarati fautori
della fine della storia filosoficamente ben più
attrezzati di Cavalli-Sforza.
E' così un autore di lucidità indiscutibile come Jürgen
Habermas a mettere in
guardia contro quello che egli considera lo "scenario spettrale"
di un "comunitarismo genetico", in cui diverse culture
potrebbero portare avanti una «auto-ottimizzazione genetica del
genere umano in direzioni diverse, finendo così per mettere in
discussione l'unità della natura umana come fondamento
rispetto al quale tutti gli uomini avevano potuto finora intendersi,
e mutuamente riconoscersi, quali membri di una stessa comunità
morale» (anche se in realtà ciò che Habermas
presenta qui come stato "naturale" e tradizionale è ciò cui è semmai proprio il mondo contemporaneo a
tendere, per la prima volta nella storia) ().
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