Biopolitica. Il nuovo paradigma


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La "tentazione eugenetica"

La "frattura" della storia che stiamo vivendo, e le scelte di campo che questa impone all'uomo e alle società contemporanei, si manifesta prima come inquietudine, poi come possibile risposta con la nascita ed affermazione della tendenza storica sovrumanista (195), ma tende a diffondersi generalmente nella prima metà Novecento, ed in tale ambito è innegabile che essa si presenta variamente intrecciata con le espressioni direttamente politiche incarnate, in vari stadi, nelle rivoluzioni fasciste e nelle loro tendenziali aspirazioni a farsi carico dell'identità e dell'avvenire "millenario" delle comunità di riferimento (nazionale, culturale ed etnica) (196). In tal senso, non c'è dubbio che la teoria e la politica nazionalsocialista, pur sotto vari profili più che ambigue (197), rappresentano un punto di rottura, che conduce rapidamente ad una polarizzazione delle posizioni (198), ed in parte ad un'oscuramento e rimozione di tutta la questione nella seconda parte del ventesimo secolo.

Tali elementi sono d'altronde regolarmente ripresi, a livello propagandistico, come specifico anatema contro ogni possibile approfondimento e dibattito pubblico sulle relative questioni; e ciò attravero il richiamo rituale a provvedimenti o prese di posizione dell'epoca, tuttora evocati a distanza di oltre mezzo secolo come interlocutori immaginari in un dibattito tra il Bene umanista, egualitario e antifascista, e il Male in essi incarnato esemplarmente, così da paralizzare e squalificare e rendere "impresentabile" qualsiasi posizione eterodossa (199).

In effetti, l'azione governativa nazionalsocialista si occupa già di tutti o quasi gli aspetti e strumenti di intervento noti all'epoca con riguardo al futuro della popolazione di riferimento, dall'anamnesi familiare, all'orientamento dei matrimoni, alla sterilizzazione ed aborto selettivi, all'assistenza alla maternità, alla politica demografica, alle politiche in materia di adozione, concessione della cittadinanza o immigrazione, all'eutanasia, a tutte le altre misure più in generale connesse alla autogestione da parte della comunità della propria dimensione anche "biologica"; ivi compreso quanto finalizzato a promuovere o rafforzare alcune caratteristiche, a rarefarne altre, a rimuovere o controbilanciare paventati effetti disgenici (ad esempio, la possibile selezione negativa di caratteristiche quali il coraggio o lo spirito di servizio), a proteggere ed enfatizzare la relativa identità collettiva nelle direzioni giudicate desiderabili.

È durante l'era nazionalsocialista che Konrad Lorenz scrive ad esempio nel 1940 (come i vincitori non mancheranno più tardi di rimproverare al premio Nobel di fisiologia e medicina, nonché padre fondatore dell'etologia moderna): «Bisognerebbe, per la preservazione della razza, considerare un'eliminazione degli esseri per noi moralmente inferiori ancora più severa di quanto non lo sia oggi. [...] Dobbiamo – e ne abbiamo il diritto – affidarci ai migliori di noi e incaricarli di compiere una selezione che determinerà la prosperità o l'annientamento del nostro popolo» (200). Ed ancora: «Nei tempi preistorici la selezione in base alla durezza, all'eroismo, all'utilità sociale era fatta solo dai fattori esterni ostili. Bisogna che questo ruolo venga ripreso oggi da un'organizzazione umana, altrimenti l'umanità, in mancanza di fattori selettivi, sarà annientata dalla degenerescenza dovuta all'addomesticamento» (201). Nello stesso senso, Othmar von Verschurer, direttore dell'Istituto di Antropologia, Ereditarietà Umana e Eugenetica di Berlino, il cui prestigio scientifico non è messo in discussione neppure da Jacquard che lo cita (202), notava nel 1943: «Il capo dell'etnoimpero [Volksreich] tedesco è il primo uomo di Stato che abbia fatto dei dati della biologia ereditaria un principio direttivo della condotta dello Stato» (203).

Quello che è tra l'altro interessante dell'atteggiamento fascista in generale, e nazionalsocialista in particolare, su tali questioni, è l'antidogmatismo e l'empirismo dimostrato sulle questioni in oggetto, che vede dibattere, adottare, sospendere o ripristinare misure diverse; finanziare ambiziosi programmi di ricerca; e riprendere indifferentemente posizioni tradizionalmente considerate "di destra" (così come l'esclusione forzata delle devianze indesiderabili, o il rifiuto di mobilitare la manodopera femminile ancora in una fase molto avanzata della guerra, o la difesa della famiglia), o "di sinistra", come quando Hitler nelle Conversazioni a tavola dichiara di essere a favore del "libero amore", quando qualche teorico ipotizza l'abolizione a fini demografici ed eugenetici della monogamia nel dopoguerra, o quando viene dal partito pubblicamente difeso il diritto, e il dovere, delle donne tedesche di procreare figli alla nuova Germania (il cosiddetto Führerdienst) anche fuori dal matrimonio – a costo di suscitare in quest'ultimo caso l'unica pubblica manifestazione antifascista di tutto il periodo, segnatamente quella cattolica organizzata a Monaco dalla Rosa Bianca.

La questione propriamente razziale è più complessa, ma certamente centrale. Sin nel suo discorso al congresso del partito tenutosi a Roma nel 1921, Benito Mussolini dichiara: «Intendo dire che il fascismo si preoccupi del problema della razza. I fascisti devono preoccuparsi della salute della razza, con la quale si fa la storia» (204).

Il concetto fascista di "razza" è da un lato trattato come un concetto squisitamente empirico, dall'altro – particolarmente in ambito nazionalsocialista, ma non solo – viene assunto come mito politico-religioso utile a definire un'identità, ovvero in tale prospettiva a scegliere delle radici cui appartenere in funzione dell'avvenire che ci si vuole creare (205). Del resto, è normale che a livello politico il "popolo" significhi qualcosa di più e di diverso dalla "popolazione" che studia il biologo o il demografo, così come è cosa diversa in senso politico la nazione rispetto al mero concetto etnografico, o la classe rispetto al mero concetto sociologico.

In tale contesto, il mondo fascista si riallaccia innanzitutto ad una specificità ed identità europea, assunta sia attraverso il richiamo alle sue origini culturali ultime (la romanità dei primordi, la classicità, le tradizioni celtiche, germaniche e indoarie) che al suo substrato biologico (appunto europoide, o "ariano") (206). In tale ambito, il nazionalsocialismo individua innanzitutto a livello propriamente politico una comunità di riferimento nazionale, tedesca, e più ampiamente etnoculturale, germanica, che costituisce al tempo stesso il soggetto e l'oggetto primario dell'azione storica promossa. Nell'autodeterminazione e nel progetto che in tale soggetto si incarna, la politica che si afferma durante il nazionalsocialismo promuove poi la protezione e lo sviluppo all'interno della comunità popolare tedesco-germanica della componente "nordica" (Aufnordnung, "nordizzazione"), definibile come una serie di tratti genetici presenti in vari gradi all'interno della razza europoide, che definiscono una sottorazza in tale ambito (207), e che vengono giudicati desiderabili o "nobili" per ragioni di tipo sostanzialmente estetico, affettivo e culturale (208). Ciò lascia in sostanza impregiudicato il pieno riconoscimento delle altre componenti razziali presenti nella sfera tedesco-germanica (e più in generale della razza europea di cui questa è parte), del loro contributo storico all'identità comune, e della loro piena partecipazione alla comunità popolare – come del resto è reso ovvio dal fatto che la classe dirigente nazionalsocialista stessa rappresentava uno spaccato fedele della comunità stessa (con incluse componenti razziali alpine, faliche, dinariche, mediterranee), né alcuno dei suoi esponenti ha mai pensato che le cose stessero altrimenti (209).

Che questo fosse, al di là di pretese che gli stessi nazionalsocialisti consideravano puramente propagandistiche, il quadro di riferimento generale, è confermato anche dall'humus culturale da cui il movimento nasce. Così Jünger nell'Operaio (210) parla esattamente di una Wille zur Rassenbildung, "volontà di creazione di una razza" (211).

Della razza ariana polemicamente non sono considerati parte per definizione gli ebrei (212), malgrado il fatto che in realtà i membri delle comunità ebraiche dell'Europa occidentale siano quanto meno razzialmente misti. E ciò per ragioni essenzialmente politico-culturali, in relazione cioè al rifiuto che l'appartenenza alla comunità ebraica esprimerebbe rispetto a quella che il nazionalsocialista considera identità europea, al di là della proporzione delle componenti genetiche che possono incarnarsi nel singolo individuo; ovvero alla scelta che tale appartenenza comporta in termini di "comunità etnoculturale di riferimento" (213).

Abbastanza significativamente, il nazionalsocialismo considera viceversa "ariana" ed europoide, benché razzialmente mista quanto e più degli ebrei europei, almeno parte della popolazione dell'India settentrionale; e non ha difficoltà a riconoscere che la percentuale propriamente nordica della popolazione norvegese è nettamente più significativa di quella presente nelle frontiere del Reich, o a ipotizzare la germanizzazione di immigrati europei con caratteristiche desiderabili; ma non si sognerebbe certo di considerare né "nordico", né anche solo membro della comunità popolare germanica, un ebreo dolicocefalo, con gli occhi azzurri, i capelli biondi e il naso greco – ebreo cui del resto basta talora una goccia di "sangue", specie dal ramo materno, per sentirsi sufficientemente connesso alla stirpe ed identità abramitica (214).

Nell'ambito del programma descritto, il ripristino o la creazione di un "orgoglio di stirpe" e di una "coscienza razziale" nella comunità tedesco-germanica, o nelle altre comunità di riferimento dei diversi movimenti fascisti europei, rappresenta come è ovvio un tassello fondamentale, ed in effetti tutti i movimenti in questione – che pure si mostrano sovente nei propri esponenti molto meno provinciali della media dell'epoca, e profondamente interessati alle culture altrui – incoraggiano apertamente l'etnocentrismo. Da qui la propaganda sulla propria rispettiva "superiorità", che in realtà in un contesto relativista ed antiuniversalista si risolve integralmente nella prospettiva della comunità di appartenenza; così che, a fronte di un'alta considerazione e ammirazione per il mondo arabo (altrettanto e più semita nella sua composizione etnica di quello ebraico!) o per quello giapponese ed orientale in generale, nessuno si sognerebbe di pensare ad esempio che tali mondi dovrebbero promuovere il meticciato con la razza (e la cultura) europea, o considerare quest'ultima come un modello "superiore" di caratteristiche da imitare e selezionare nei rispettivi ambiti.

Ciò d'altronde spiega anche come il Reich ritenga "esportabile" l'antisemitismo – che è ritenuto dai nazionalsocialisti un problema politico-razziale dell'intero "mondo ariano" – mentre consideri unicamente affari interni alla comunità tedesca (e poi germanica) su cui insiste gli orientamenti ed i progetti relativi alla "autodeterminazione" razziale di quest'ultima (appunto la "preferenza nordica" espressa dalla maggioranza dei dirigenti tedeschi dell'epoca).

Il tema della razza viene comunque declinato in modo diverso e variegato dai vari altri movimenti tedeschi, dai vari ambienti politici e scientifici del regime stesso, e dai vari movimenti e regimi fascisti degli altri paesi, così che le eccessive generalizzazioni e semplificazioni contemporanee appaiono sovente del tutto arbitrarie (215).

Ciò che giova però sottolineare ancora una volta è come la determinante influenza sovrumanista che a seconda dei casi è più o meno consciamente presente in tali ambito (216) fa sì che le preoccupazioni di tipo etno-razziale ed eugenetico vi vengano regolarmente declinate - a differenza di quanto accadeva ed accade tuttora nella sfera culturale americana ed in generale "democratica" - secondo la prospettiva, intrinsecamente relativista, di una soggettività popolare e di un progetto storico collettivo miranti a competere e ad affermarsi rispetto ad altre prospettive ed identità omologhe, piuttosto che a negarle.

Risulta infine interessante come normalmente il piano biopolitico sia quello dove allo Stato – certo ad esclusione del "problema ebraico", specie in relazione al suo precipitare nella temperie bellica (217) – viene affidata essenzialmente un compito educativo, più che legislativo, amministrativo o repressivo. L'anamnesi familiare, ad esempio, viene incoraggiata, ma esclusivamente nel caso delle SS i suoi risultati in qualche modo influenzano direttamente la libertà di scelta in campo matrimoniale. La campagna contro il fumo, all'epoca alquanto avveniristica, non si traduce in alcuna forma di proibizionismo. La "dottrina delle razze" (Rassenkunde) diventa materia di insegnamento scolastico, ma non si riflette in alcuna diversificazione dei diritti politici o civili dei cittadini del Reich sulla base della sottorazza di appartenenza, cosa che avrebbe ovviamente compromesso la desiderata coesione della comunità popolare; e in Germania una siffatta diversificazione neppure si verifica in materia demografica, a differenza della Roma augustea (dove l'emancipazione femminile era legata alla nascita del terzo figlio o della più modesta pressione esercitata al riguardo nell'Italia fascista, in particolare a livello fiscale con la cosiddetta "tassa sul celibato".

Più sottilmente, un'idea diffusa era anche che la modificazione dei valori dominanti e conseguentemente del successo relativo degli individui all'interno della comunità (ad esempio, nello spostamento dell'importanza sociale relativa della capacità di accumulare mezzi di scambio sotto forma di denaro rispetto a coraggio, prestanza, lealtà, bellezza, spirito di servizio o combattività) finisse per influenzarne la composizione anche biologica attraverso un vantaggio riproduttivo differenziale delle componenti genetiche favorite.

Se questo schizzo tiene certo poco conto di contraddizioni, equivoci e deviazionismi che è storicamente facile documentare, la campagna propagandistica di parte antifascista relativamente all'eugenetica e alla biopolitica nazionalsocialista resta d'altronde molto dubbia sotto vari profili.

Fatti salvi ulteriori possibili approfondimenti storiografici che esulano dallo scopo di questo saggio, a tale operazione possono essere opposte, con riguardo alle prese di posizione nazionalsocialiste (e latu senso fasciste), alcune ipotesi di lavoro che meriterebbero maggiore attenzione, e che vanno nel senso di una "storicizzazione" delle posizioni stesse, non per invocare dal punto di vista umanista improbabili giustificazioni o attenuanti delle stesse, la cui condanna in tale prospettiva è del tutto giustificata, ma semplicemente per comprenderne meglio la natura e la portata.

In particolare, le analisi pubblicate sull'argomento raramente tengono conto delle seguenti considerazioni:
- quello che di tali posizioni e proposte (del resto alquanto variegate) viene additato come ridicolo e superato anche al di fuori da una scelta di valore pregiudiziale in senso antifascista può essere legato semplicemente allo "stato della tecnica", ovvero rispecchiare le conoscenze, le mode e gli strumenti scientifici e culturali dell'epoca; in tal senso meriterebbe di essere meglio analizzato quanto in esse è propriamente legato a presupposti teorici nazionalsocialisti e fascisti e quanto semplicemente alla temperie storica ed alle teorie degli anni venti e trenta;
- alternativamente, altre posizioni concretamente assunte da Tizio o Caio possono talora non discendere affatto dall'ideologia di riferimento, ma anzi essere con essa in contrasto, e derivare da influenze di altra matrice, influenze di cui ovviamente nessun regime politico per quanto radicale e totalitario è immune;
- altre scelte o progetti o preferenze (ad esempio la "preferenza nordica" in Germania) ancora possono essere considerate relativamente arbitrari nell'ambito della nuova prospettiva aperta al riguardo, ciò che è essenziale consistendo invece proprio nell'opzione storica e politica per il fatto di avere scelte e progetti collettivi al riguardo anzichenò;
- infine, talune posizioni, che apparivano a cavallo tra i due secoli scorsi del tutto plausibili a personaggi di orientamenti politici e filosofici disparati, vengono oggi percepite come "squalificate" e "criminalizzate", più che per loro una "intollerabilità" o "assurdità" intrinseca, esattamente e soltanto per il legame che si è stabilito tra esse e il nazionalsocialismo.

In ogni modo, gli aspetti suddetti si inseriscono poi in un complessivo progetto di creazione di un uomo nuovo che investe integralmente anche gli aspetti "ambientali" del suo quadro di vita, per esempio dal punto di vista ecologico, urbanistico, psicologico, sanitario, sociale, educativo, etc., e di cui le tematiche eugenetiche non sono che una componente (218).

D'altronde, in campo biopolitico vari temi sono suscettibili di letture diverse, che i regimi fascisti non hanno mancato di sfruttare propagandisticamente e tatticamente, magari facendo leva sulle contraddizioni interne della tendenza umanista comunque culturalmente dominante. La previsione di reati connessi all'aborto e alla propaganda della contraccezione nel Codice Rocco (espressivamente ricompresi sotto un titolo che fa espresso riferimento alla "sanità della stirpe"), sono ovviamente coerenti con una politica volta al mantenimento ed allo sviluppo della demografia della comunità di riferimento, ma si trovano anche a soddisfare tradizionali posizioni cattoliche, in cui tali pratiche sono condannate proprio in quanto espressione... di un "blasfemo" controllo da parte dell'uomo sulla sua propria biologia.

Similmente, l'uso della sterilizzazione o dell'eutanasia per limitare il perpetuarsi e la propagazione di caratteristiche suppostamente disgeniche ben può essere difeso e promosso anche in rapporto a considerazioni di tipo "umanitario", edonista e fondamentalmente individualista (quali quelle oggi avanzate dal Partito Radicale), che rappresentano il contrario esatto dei nuovi valori anche su tale piano affermati.

La percezione stessa delle questioni sopra discusse è oggi del tutto oscurata da una rimozione, falsificazione e demonizzazione che rende difficoltoso ripercorrere la storia delle idee sotto tale profilo, che pure riserva a chi sia interessato a percorrerla qualche sorpresa. Ma i documenti di tale storia ovviamente esistono ancora.

Jeremy Rifkin, per "denunciare" le profonde radici delle concezioni in discussione, apre deliberatamente il capitolo intitolato "Una civiltà eugenetica" de Il secolo biotech con una citazione "scioccante": «Un giorno noi tutti realizzeremo che il primo dovere di ogni buon cittadino, uomo o donna, di giusta razza, è quello di lasciare la propria stirpe dopo di sé nel mondo; e che, nello stesso tempo, non è di alcun vantaggio consentire una simile perpetuazione di cittadini di razza sbagliata. Il grande problema della civiltà è di riuscire ad ottenere, nella popolazione, l'aumento degli elementi di valore rispetto a quelli di poco valore o che risultano addirittura nocivi. [...] Per raggiungere questo obbiettivo è indispensabile prendere piena coscienza dell'immensa influenza esercitata dalla ereditarietà... Spero ardentemente che agli uomini disonesti venga impedito del tutto di procreare; e che ciò avvenga non appena la cattiva natura di questa gente sia stata sufficientemente provata. I criminali dovrebbero essere sterilizzati e ai malati di mente dovrebbe essere vietato avere dei figli. [...] È importante che solo la brava gente si perpetui».

Queste frasi non sono messe in bocca da qualche film hollywoodiano ad un ufficiale delle SS da fumetto, ma sono tratte da dichiarazioni del 1913 del ventiseiesimo presidente degli Stati Uniti d'America, Theodore Roosevelt (219)!

Del resto, dalla fine dell'ottocento alla Depressione, quasi la metà dei genetisti degli USA, paese teoricamente più lontano, per la propria stessa identità storica, dalle nuove idee erano coinvolti in un modo o nell'altro, secondo quanto riporta Kenneth Ludmerer (220), nel movimento eugenetico. Secondo Rifkin, ciò è del resto facilmente spiegabile con la convergenza da un lato delle preoccupazioni dell'élite Wasp, white-anglosaxon-protestant, di trovare giustificazioni "ideologiche" al proprio potere nonché ricette per perpetuarlo; dall'altro, con il tentativo di accademici e politici di trovare spiegazioni al fallimento dei propri progetti di riforma sociale.

Molti, ricorda Rifkin, erano già all'epoca allarmati per quello che consideravano essere un «declino della qualità dell'ereditarietà del popolo americano», e gli scienziati assunsero ruoli leader nella causa genetica nella speranza di «poter aiutare a invertire la tendenza». Michael F. Guaire giunse sino a riconoscere che «il destino della nostra civiltà dipende da questo problema» (221) (impregiudicata la questione del fatto a quale "civiltà" lo stesso potesse fare riferimento, e di che punto di vista che se ne possa avere).

Il famoso genetista Edwin G. Conklin, ricorda sempre Rifkin, osservò che «sebbene la nostra riserva umana includa alcune delle persone più intelligenti, morali e progressiste al mondo, questa include anche un numero sproporzionatamente grande delle peggiori categorie di persone» (222). Il Prof. Herbert S. Jennings della John Hopkins University ebbe a sua volta modo di far presente al pubblico americano la sua opinione secondo cui «le preoccupazioni del mondo e i rimedi a queste preoccupazioni risiedono fondamentalmente nelle diverse costituzioni degli esseri umani. Le leggi, le abitudini, l'educazione, l'ambiente circostante sono creazioni degli uomini e riflettono la loro natura fondamentale. Tentare di correggere queste cose è come curare solamente i sintomi specifici. Per andare alle radici dei disturbi, deve essere prodotta una stirpe migliore di uomini, una stirpe che non dovrà contenere le razze inferiori. Quando una stirpe migliore sarà stata creata, leggi, usanze, educazione e condizioni materiali si prenderanno cura di se stesse» (223).

Nel 1910, Charles B. Davenport, del Dipartimento di Genetica del Cold Spring Harbor Laboratory, New York, spinse la moglie di un famoso industriale a fornire i fondi per istituire il primo ufficio americano di registrazioni eugenetiche. Secondo Davenport, l'entusiasmo della finanziatrice per il progetto era dovuto al fatto di essere «cresciuta tra cavalli di razza, i quali la aiutarono ad apprezzare l'importanza dello studio dell'ereditarietà e di una riproduzione umana ben controllata» (224).

A partire dallo stesso anno, società eugenetiche sorsero nelle città di tutti gli Stati Uniti. Fra le più influenti, ricorda sempre Rifkin, c'erano la Società Galliano di New York e le Società di Educazione Eugenetica di Chicago, St. Louis, Madison (Wisconsin), Battle Creek (Michigan) e San Francisco. Nel 1913 venne fondata l'Eugenic Association e nel 1922 l'American Eugenic Committee (più tardi noto come American Eugenics Society [alias).

In effetti, come sottolineano sia Jacquard che Rifkin, tale movimento arrivò talora arimettere in discussione alcuni postulati fondamentali della società americana, come quando William McDougall, studioso inglese poi divenuto direttore del Dipartimento di Psicologia dell'Università di Harvard, preoccupato che la democrazia politica tradizionale rappresentasse un fattore di affermazione delle «razze inferiori» rispetto a quelle "superiori", auspicò apertamente un sistema di caste per gli Stati Uniti, basato su differenze biologiche misurabili, in cui i diritti politici sarebbero dipesi dalla casta di appartenenza, nonché la promulgazione di «leggi che limitino la riproduzione delle caste inferiori e i matrimoni tra caste diverse» (225)

Comunque, negli Stati Uniti la "preoccupazione eugenetica" viene ovviamente declinata secondo canoni moralistici, classisti, riduzionisti ed universalisti: se Bene e Male sono assoluti garantiti dal Dio della Bibbia o da qualche suo avatar secolarizzato come il Progresso, se esiste un unico modello umano rispetto a cui la pluralità di culture e razze non è che un accidente (o magari una "punizione" divina, come nel mito della torre di Babele), esistono allora effettivamente caratteri, individui ed etnie "superiori" ed "inferiori" in senso assoluto, così che il "paradiso in terra" coincide con l'eliminazione dei secondi, e il buon cittadino, pronto a farsi docile strumento della storia e a lavorare per la felicità futura, deve prestarsi al genocidio non solo delle etnie diverse ("primitive" o "pagane"), ma anche semplicemente dei "peccatori" all'interno della sua comunità, o delle "classi inferiori" nell'ambito di questa (226). Lo stadio delle conoscenze dell'epoca e il positivismo tradizionalmente imperante nella cultura americana fanno il resto.

Così, con presunzione tipica, Charles R. Van Hise, all'epoca preside dell'Università del Wisconsin, scrive nel 1914: «Sappiamo abbastanza dell'eugenetica... Se le nostre conoscenze venissero applicate, le classi imperfette [sic] sparirebbero nel giro di una generazione» (227).

Tali posizioni erano del resto abbondantemente trasversali rispetto alle tradizionali suddivisioni ideologiche e professionali nella società americana dell'inizio del secolo scorso.

Se Irving Fischer, il famoso economista di Yale, scrive nello stesso anno che «l'eugenetica è sicuramente la più grande preoccupazione della razza umana» (228), nel 1928 sono più di tre quarti i college e le università statunitensi in cui sono attivi corsi specialistici sull'eugenetica. Fra gli insegnanti ad Harvard c'era il criminologo Ernest A. Hooton, che predicava che «il crimine è il risultato dell'impatto dell'ambiente sugli esseri umani di grado inferiore», e che «la soluzione del crimine è l'estirpazione dell'incapace fisico, morale e mentale e (se questo sembra troppo severo) la sua completa segregazione in un ambiente socialmente asettico» (229). Come nota Rifkin, il mondo dei media e della cultura popolare era ampiamente sulla medesima lunghezza d'onda: «Potrebbe essere interessante per gli odierni abbonati di prestigiosi giornali della sinistra liberal come The Nation o The New Republic che i fondatori di entrambe le pubblicazioni erano crociati delle riforme eugenetiche. Edwin Laurence Godkin, fondatore di The Nation, credeva che solamente gli appartenenti ai gruppi biologicamente superiori avrebbero dovuto partecipare agli affari del paese, ed Herbert David Croly di The New Republic era convinto che i negri siano "una razza in possesso di qualità intellettuali e morali inferiori a quelle dei bianchi". Immaginate, se vi riesce, un futuro presidente degli Stati Uniti che sulla rivista Good Housekeeping scrive che: "ci sono considerazioni razziali troppo gravi per essere ignorate per qualsiasi ragione sentimentale". Secondo il presidente Coolidge, le leggi biologiche ci dicono che ci sono razze differenti che non si mischieranno o non si integreranno mai. Coolidge conclude che "i popoli nordici si sono diffusi con successo, mentre, con altre razze, il risultato mostra un deterioramento in entrambi i sensi"» (230).

Altri americani famosi non si esprimevano diversamente. Alexander Graham Bell, che contende a Meucci l'invenzione del telefono ed il cui nome è all'origine della Bell Company, parlando all'American Breeders Association nel 1908, afferma: «abbiamo imparato ad applicare le leggi dell'ereditarietà allo scopo di modificare e migliorare le razze dei nostri animali domestici. Può con la conoscenza e l'esperienza che sono state così ottenute restare l'uomo incapace di migliorare la specie al quale esso stesso appartiene?». Bell credeva così che «gli studiosi di genetica sono in possesso delle conoscenze per [...] migliorare la razza» e che fosse necessaria «l'educazione dell'opinione pubblica per acquisire l'approvazione delle politiche eugenetiche» (231).

Nemmeno l'allora nascente movimento dei Boy Scouts rimase insensibile a tali idee. David Star Jordan, che fu vicepresidente del movimento nei primi anni di vita, esprimeva in ogni occasione il suo convincimento che il programma scoutistico avrebbe potuto aiutare a coltivare il "nuovo uomo eugenetico" 232.

Aggiunge ancora Rifkin: «Molte femministe dei nostri giorni saranno dispiaciute nell'apprendere che Margaret Sanger [alias], leader nella lotta per i programmi per il controllo delle nascite, era una profonda credente nella superiorità ed inferiorità biologica di gruppi diversi. La Sanger, usando parole tra le più forti che siano mai state usate dal movimento eugenetico, rimarcò che "è un fatto curioso, ma da non trascurarsi, che proprio a coloro che in tutta carità dovrebbero essere cancellati dalla razza umana sia stato permesso di riprodursi e perpetuare il proprio gruppo, grazie alla politica di indiscriminata carità di 'cuori caldi' non controllati da 'menti fredde'". La Sanger aveva le sue idee su come sbarazzare la società dai problemi della contaminazione biologica e per promuovere una razza migliore. Così scrisse: "Tra le persone intelligenti esiste una sola risposta alla richiesta di una maggiore qualità di nascite e questa risposta bisogna richiederla al governo, prima di caricarci sulla schiena il fardello dei matti e dei deficienti. [...] La soluzione è la sterilizzazione" (Birth Control. Facts and Responsibilities, Williams & Williams Co., Baltimora 1925)».

In effetti, se i fascismi puntano soprattutto sulla differenziazione del successo riproduttivo attraverso l'educazione a valori nuovi e lo stabilirsi di nuove gerarchie sociali, e i razzisti e darwinisti sociali inglesi e francesi sulla rigida separazione sociale delle classi e delle etnie, «gli eugenisti americani», ricorda sempre Rifkin, «guardavano alla sterilizzazione di massa come principale strumento per i loro sforzi volti all'eliminazione biologica dei gruppi inferiori dalla popolazione americana».

Nel 1914, Harry H. Laughlin [alias] in un rapporto per l'American Breeders Association – nel quale, davvero sorprendentemente per un americano, esprime l'idea propriamente fascisteggiante che «la società deve considerare il germoplasma come appartenente alla società e non solamente all'individuo che ne è il portatore» – concludeva che almeno il 10% della popolazione era costituita da «varietà socialmente inadeguate» che avrebbero dovuto essere segregate dalla popolazione della federazìone e sterilizzate (233).

Tali posizioni si tradussero del resto in misure concrete. All'inizio del Novecento decine di migliaia di cittadini americani furono sterilizzati contro la loro volontà grazie a una serie di leggi emanate dai singoli Stati. Nel 1907 l'Indiana emanò la prima, che prevedeva la sterilizzazione obbligatoria, nelle istituzioni statali, di criminali recidivi, idioti, imbecilli e altri, e che fu preso successivamente come modello sotto il nome di "idea dell'Indiana" (234).

Nel periodo tra il 1907 e la prima guerra mondiale altri quindici Stati emanarono leggi in tal senso. L'avvio della "mania della sterilizzazione" venne in particolare segnalato da un curioso disegno di legge, presentato in Missouri, che richiedeva la sterilizzazione forzata di tutti i soggetti «accusati di omicidio, rapimento, furti sulle strade, furti di galline, per i dinamitardi o per i ladri di automobili» (!) (235).

È facile per personaggi come Rifkin, ai fini della condanna moralistica di qualsiasi intervento umano sulla propria identità biologica, ironizzare sull'idea, abbastanza bizzarra anche all'epoca, che esistesse una cosa come... il gene per il furto delle automobili. Resta il fatto che nell'ambito del sistema di valori egualitario, non sono neppure oggi in discussione gli scopi originari di una tale legislazione – l'affermazione, in chiave moralistica anziché culturale, universale anziché particolare, di un'ideale "civilizzazione americana" cui è attribuito il ruolo di redimere il mondo (236).

La costituzionalità di queste leggi non venne presa in esame fino al 1927, anno in cui la Corte Suprema decise, in un caso proveniente dalla Virginia, che la sterilizzazione era positivamente ricompresa nei poteri di polizia dei singoli Stati. Uno dei più grandi nomi della storia giuridica americana, Oliver Wendell Holmes Jr. [alias] scrisse: «Abbiamo visto più di una volta come il bene pubblico possa richiedere ai migliori cittadini la loro vita. Sarebbe strano se esso non potesse ormai chiedere a coloro che hanno indebolito lo Stato un sacrificio minore, allo scopo di prevenire noi stessi il fatto di essere sommersi dall'incompetenza. Sarebbe molto meglio, per il mondo intero. se invece di aspettare i risultati della loro imbecillità, la società potesse prevenire quelli che manifestamente sono incapaci dal continuare i loro piaceri... Tre generazioni di imbecilli sono sufficienti» (237). Ora del 1931, trenta Stati avevano promulgato leggi sulla sterilizzazione forzata.

Nel 1925, pubblici funzionari tedeschi avevano nel frattempo contattato le amministrazioni di vari Stati americani per acquisire appunto informazioni sulle loro leggi in materia di sterilizzazione. Pare anzi che uno dei sostenitori dell'eugenetica nella Germania dell'epoca ebbe a rimarcare: «Quello che viene promosso dagli igienisti razziali non è per niente nuovo o qualcosa di mai sentito. In una nazione colta e prim'ordine come gli Stati Uniti d'America, alla quale noi ci sforziamo di somigliare, questo concetto è stato introdotto molto tempo fa. È tutto molto semplice e chiaro» (238). Se è vero, la cosa dovrebbe far riflettere gli esponenti del terrorismo ideologico militante con riguardo alle vere origini di certe influenze presenti nel pensiero europeo dell'epoca!

Che questo ordine di idee, pure nelle intenzioni ispirato ai più autentici valori americani, finisse per cortocircuitare il sistema ideologico relativo (239), è d'altronde dimostrato con riguardo alla storia successiva, ed in particolare al dibattito incentrato sulla legge federale in materia di immigrazione [alias, alias]che promulgata nel 1924 resterà in vigore sino al 1965; e ciò foss'anche negli aspetti di tale dibattito che è legittimo considerare caricaturali, e che certamente sono tali più di qualsiasi analoga letteratura di fonte fascista.

Anche in Europa, la "trasversalità" delle problematiche aperte dalle scoperte della genetica e dalla coscienza nascente del "terzo uomo" è del resto totale. Nota Eric Delcroix, trattando della letterale illegalità contemporanea di quest'ordine di idee: «in Austria, il più intransigente dei partigiani dell'eugenetica fu senza dubbio Karl Kautsky [alias] (1854-1938), parallelamente marxista ortodosso. Prima di lui, il tedesco Woltmann (1871-1907) (240) aveva tentato di riconciliare marxismo, darwinismo e razzismo ariano. In Germania, ancora vari anni dopo la prima guerra mondiale, un buon numero di eugenisti erano ebrei e dunque poco sospettabili di "nazismo", come Kallmann (che voleva sterilizzare il 10% della popolazione tedesca), il genetista Goldschmidt, o il medico Löwenstein (vedi Paul Weindling in L'hygiène de la race, Editions de la Découverte, Parigi 1998, pag. 32 [version originale: Health, Race and German Politics between National Unification and Nazism])» (241).

È d'altronde non a caso nel contesto americano che il sociologo liberal Edward A. Ross [alias] pubblica, dopo uno studio durato sedici mesi, un rapporto (242) in cui rileva tra l'altro che i popoli mediterranei sarebbero «dediti al sesso e alla violenza ed irrazionali per natura; gli slavi, un popolo passivo imbevuto di ignoranza e superstizione, tendente all'alcolismo ed alla violenza sulle donne; gli ebrei, riuniti in clan, infidi e segreti negli affari». Un altro eugenista, Madison Grant, cui gli USA tuttora intitolano scuole, aggiunse all'analisi gli indiani, che «per anni sono stati a contatto con le migliori civiltà ma non ne hanno tratto alcun giovamento, né intellettualmente, né moralmente, né fisicamente» e i negri, «che sono volontari seguaci dei nordici e che chiedono solamente di obbedire e di assecondare gli ideali e i desideri della razza padrona» (!) 243.

D'altronde, fu il ministro del lavoro dell'amministrazione Coolidge, James J. Davis, a "fare il punto" sulla discussione in questi termini: «l'America è sempre stata orgogliosa di avere alle sue origini la razza definita nordica. [...] Dovremmo bandire dalle nostre coste tutte le razze non naturalizzabili e [comunque] tutti gli individui, di tutte le razze, che fisicamente, moralmente e spiritualmente sono indesiderabili, e che costituiscono una minaccia per la nostra civiltà» (244).

Lo House Committee on Immigration and Naturalization nominò da parte sua Laughlin [alias] come esperto di questioni eugenetiche, e ne ottenne queste conclusioni: «Facendo tutte le concessioni alle condizioni ambientali [...] il recente fenomeno dell'immigrazione, considerato nella sua interezza, presenta un'alta percentuale di qualità innate socialmente inadeguate rispetto alla immigrazione passata» (ovvero quella, in sostanza, degli antenati di Laughlin stesso e dei suoi connazionali di terza o quarta generazione ed oltre) (245). Ciò condusse ad una legislazione sull'immigrazione per quote etniche che rimase come abbiamo detto in vigore sino al 1965.

Se quest'ordine di idee non poteva durare, a pena di rimettere in discussione i miti fondanti e la stessa ragione d'essere degli Stati Uniti, nati come sfida e rifiuto delle sovranità e identità collettive e dell'autodeterminazione popolare che queste implicano, resta il fatto che gli Stati Uniti, anche dopo il tramonto del tentativo Wasp di difendere il proprio ruolo particolare nel paese, continuano a permettersi, come "centro dell'impero", un controllo sui flussi (im-)migratori e sulla loro composizione etnica che va ben al di là di quello che il Sistema consente agli altri paesi "occidentali" (Israele ovviamente escluso).

Secondo Rifkin, la crisi del 1929 da un lato, e l'affermazione del fascismo in Europa furono i fattori che contribuirono a "polarizzare" le posizioni gettando il "movimento eugenetico" americano in una profonda crisi di identità (246).

D'altra parte, Mark Adams, nel suo studio comparato sull'eugenismo in diverse parti del mondo, prende giustamente di mira quello che definisce i "quattro miti" dell'eugenetica «Il primo consiste nel ritenerla un movimento omogeneo, in sé coerente e riconducibile esclusivamente al modello tedesco o angloamericano; il secondo sta nel pensare che essa si sviluppò solo dove crebbe la genetica mendeliana, mentre in realtà paesi come la Francia, la Russia o il Brasile, dove fu dominante il lamarckismo, ebbero i loro, ed anche forti, movimenti eugenetici; il terzo mito è che l'eugenetica si affermò come una pseudoscienza, mentre in realtà almeno fino a tutti gli anni venti essa fece un tutt'uno con la genetica; il quarto mito consiste nel pensare all'eugenetica come ad una scienza reazionaria, mentre essa fu invece un fenomeno storico molto più articolato, legato anche a politiche considerate "progressiste" o "riformiste"». (247).

Del resto, la valenza prettamente ideologica e biopolitica delle scelte di campo rispetto all'eugenismo viene sottolineata dall'erosione crescente, con il progresso tecnico, dei costi soggettivi delle pratiche eugenetiche, in costante diminuzione, in particolare nel momento in cui all'esposizione dei neonati ed allo stretto controllo parentale o comunitario sugli accoppiamenti subentra la sterilizzazione chimica o chirurgica dei ritardi gravi e la riproduzione orientata; e a queste l'anamnesi prematrimoniale in chiave mendeliana; e a questa ancora la diagnosi prenatale e lo screening genetico; ed a queste infine la fecondazione artificiale e la manipolazione diretta e "terapeutica" in senso proprio delle linee germinali; interventi questi ultimi rispetto a cui la naturale empatia nei confronti dei soggetti coinvolti milita interamente in senso favorevole, al punto da renderne imbarazzante il rifiuto preconcetto in relazione agli stessi valori umanitari ed invidualisti della visione del mondo egualitaria (248).

La seconda guerra mondiale, e la fondazione consapevolmente "antifascista" del Mondo Nuovo che da essa è uscito, finirà comunque per rappresentare lo spartiacque definitivo, specie in relazione alla demonizzazione esemplare proprio degli aspetti "biopolitici" delle dottrine e prassi fasciste. D'altronde, se oggi è lo spauracchio dell'eugenetica e del razzismo che risulta utile per confermare la definitiva condanna morale del fascismo in generale, e del nazionalsocialismo in particolare, ancora nel dopoguerra è invece... l'accusa di fascismo che serve a scomunicare consapevolezze biopolitiche che ancora alla fine degli anni quaranta e negli anni cinquanta risultavano diffuse e quasi ovvie.

Naturalmente, l'onda lunga della demonizzazione tarda ad arrivare soprattutto là dove sospetti di "filofascismo" sarebbero apparsi ridicoli. Così Charles De Gaulle una volta al potere poteva ancora permettersi di dichiarare: «Va benissimo che vi siano francesi gialli, neri e bruni. Mostrano che la Francia è aperta a tutte le razze ed ha una vocazione universale. Ma a condizione che restino un'infima minoranza. Diversamente la Francia non sarebbe più la Francia. Noi siamo comunque prima di tutto un popolo europeo di razza bianca» (249). Ed ancora, in una direttiva al ministero francese della giustizia: «Sul piano etnico, conviene limiare l'afflusso degli orientali e dei mediterranei che da mezzo secolo hanno profondamente modificato la composizione della popolazione francese. Senza giungere sino ad utilizzare come gli Stati Uniti un sistema rigido di quote. è opportuno che la priorità sia accordata alle naturalizzazioni nordiche (belgi, lussemburghesi, svizzeri, olandesi, danesi, inglesi, tedeschi, etc.)» (250). Di conseguenza, l'Alto Comitato per la Popolazione gollista proponeva un'immigrazione strettamente limitata, e regolata secondo questa "ricetta" ottimale: «50% di nordici, 30% di latini del nord, 20% di slavi» 251.

Al di là delle preoccupazioni etno-demografiche, anche il movimento eugenista in senso stretto continua comunque il suo cammino. È del 1971 la pubblicazione di un numero di Nouvelle Ecole, la rivista diretta da Alain de Benoist, integralmente dedicato all'eugenetica (252), che contiene l'ultimo e più ampio studio in materia anteriore all'"era biotecnologica", e che crea un profondo scandalo nella Francia post-sessantottina e tra la borghesia benpensante e di destra.

La rivista ripercorre con Jean-Jacques Mourreau le radici e i rami del pensiero eugenetico europeo, dalle tradizioni antiche di cui abbiamo già discusso a Rabelais, Montaigne, Moro, Campanella, Buffon, sino agli albori dell'eugenetica scientifica e filosofica con Frank, Mai, Lucas, de Gobineau [alias] Morel, Galton, Ploetz [alias], Molinari, Vacher de Lapouge, [alias], Schwalbe, Lenz, Richet, Mjoen [alias], e proseguire poi sino a giganti come Alexis Carrel e Jean Rostand [alias] e alle legislazioni eugenetiche dei paesi scandinavi e mitteleuropei, per giungere a descrivere le posizioni eugeniste espresse... in Unione Sovietica, dove Riazanov, il presidente dei sindacati di Pietrogrado nonché direttore dell'Istituto Marx-Engels, cita nel 1929 con approvazione nell'opera Comunismo e matrimonio un intellettuale di partito come Evgenij Preobrazenskij laddove lo stesso sostiene «il diritto imprescrittibile della società di intervenire nella vita sessuale al fine di perfezionare la razza [corsivo nostro] tramite selezione sessuale artificiale» (253).

La conclusione dell'articolo principale, di Jean-Yves Christen (254), centrato invece sullo "stato dell'arte" dell'epoca, annuncia già del resto la rivoluzione di questo secolo. «Possiamo dare per scontato che l'uomo deterrà ben presto una "potenza biologica" che non ha mai avuto e che questo stadio (dobbiamo rammaricarcene?) sarà raggiunto prima che egli abbia risolto i suoi problemi etici correlati, e quelli che concernono il suo comportamento al riguardo. È una ragione in più per prospettare in termini cinetici il futuro deliberato. Le possibilità eugenetiche attuali saranno presto rese caduche, o superate. Il certificato prenuziale migliorato, l'aborto terapeutico, il family planning organizzato, la sterilizzazione delle tare più notorie, le inseminazioni artificiali programmate, appariranno molto in fretta come nulla più di misure di bricolage, o d'urgenza, dal momento in cui le prospettive eugenetiche lasceranno intravedere la prospettiva della programmazione dei tipi desiderabili. Ci si può allora chiedere se le concezioni etiche si "adegueranno", o se si produrrà un inquietante scollamento, a livello di maggioranza o di alcuni. [...]».

L'ideologia contemporanea non è in grado di gestire le novità che tutto ciò comporta. «Ma, anche nella peggiore delle ipotesi», continua Christen, «meglio correre il rischio che la specie umana si riveli incapace di superare i limiti del passato, piuttosto che cadere nella decadenza genetica. La vita non è fatta di assoluti, ma di occasioni prese qui e là. Di rischi consapevolmente accettati e calcolati, il più grande rischio essendo sempre quello di non far nulla. La termodinamica, la biologia molecolare, la genetica, l'etologia, risolvono tante equazioni quante ne restano di sconosciute. Bisogna scegliere».

Trent'anni dopo, gli oppositori della "tentazione eugenetica" non si fanno più illusioni, se non forse in esorcismi di sapore ormai rituale. Il bioetico George Annas dell'Università di Boston, uno dei primi a proporre la messa al bando dell'ingegneria genetica da parte dell'ONU, è giunto ad affermare, durante... una visita al museo dell'Olocausto a Washington: «La genetica moderna è eugenetica» (255). Gilbert Meilaender, un altro membro del Concilio Presidenziale sulla Bioetica americano, ha scritto sin nel 2001: «La nostra presente condizione è questa: siamo entrati nuovamente in un'era eugenetica. La scienza che tenta di migliorare le caratteristiche ereditarie della specie e che è diventata tanto improvvisamente fuori moda dopo la seconda guerra mondiale e i medici nazisti ora si riaffaccia prepotentemente alla rispettabilità» (256).

In tale contesto, dire come fa Ramez Naam, che «la connessione qui con la Germania del periodo della seconda guerra mondiale è piuttosto esplicita» (257), pare in effetti un eufemismo. Senonché, il richiamo incapacitante a passate esperienze "totalitarie" appare abbastanza problematico per gli "antieugenetici". Nota infatti l'autore nella stessa pagina: «è interessante che nel dibattito in questione, sono oggi proprio quelli che vorrebbero vedere le tecniche in questione proibite a propugnare un ferreo controllo di Stato sulla "sacralità" del pool genetico della popolazione. [...] Sono coloro che si oppongono ad ogni scelta al riguardo che hanno in sostanza deciso che esiste una certa "corretta" eredità genetica per l'umanità (quella che abbiamo oggi) e che al "popolo ignorante" non dovrebbe essere data alcuna voce in capitolo».


Stefano Vaj

(195) Cfr. Giorgio Locchi, Nietzsche, Wagner e il mito sovrumanista, Akropolis, Roma 1982 [versione Web].
(196) Giorgio Locchi, "Espressione politica e repressione del principio sovrumanista", in l'Uomo libero n. 53.
(197) Se il fascismo italiano soffre per tutta la sua storia del pervasivo condizionamento di forze esterne molto meno presenti nel caso tedesco, la fantasmagoria nibelungica del Terzo Reich, e la speciale demonizzazione di cui questo è oggi oggetto da parte antifascista, tendono paradossalmente a nascondere le ipoteche conservatrici, quando non piccolo-borghesi, variamente presenti nella mentalità nazionalsocialista e nella stessa formazione di Hitler. Anche in campo biopolitico, come sotto il profilo sociale, il movimento nazionalsocialista finisce così, malgrado il suo conclamato radicalismo, per parlare spesso un linguaggio più "di destra" rispetto alle elaborazioni italiane contemporanee, come nel caso del ruralismo romantico di Darré (cfr. Walter Darré, Nuova nobiltà di sangue e suolo, Edizioni di Ar, Padova 1978) o di Rosenberg. D'altronde, molti personaggi come Jünger, inizialmente delusi da ciò che veniva percepito come una deriva guglielmina e borghese del partito, durante il regime e dopo la fine della guerra finiranno paradossalmente ancora più a destra.
(198) Non è un caso del resto che proprio la questione razziale diventi rapidamente in Italia una "cartina di tornasole", cui i fascisti "rivoluzionari" tendono ad affidare, come nota De Felice (cfr. ad esempio Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, ult. ed. Einaudi, Torino 2005), le proprie speranze di rilancio e palingenesi nella crisi di stanchezza del regime alla fine degli anni trenta.
(199) È così un caso abbastanza singolare che un film recente ed eccezionalmente stupido come I fiumi di porpora di Mathieu Kassovitz (Francia 2001) – che racconta in chiave "gialla" una confusa storia di accademici che in un'università dell'Alta Savoia cercano prima di selezionare esemplari eccezionali incrociando i figli dei docenti, poi rapiscono i figli dei contadini per ovviare all'"impoverimento del sangue" (?) verificatosi – dia invece atto, malgrado reiterati riferimenti al "fascismo", della risalenza e radicamento di una "via francese all'eugenetica" in gran parte estranea e preesistente a qualsiasi possibile influenza nazionalsocialista. In campo biopolitico, comunque, non rinunciano al "richiamo incapacitante" ai luoghi comuni sul passato nazionalsocialista neppure autori per altri versi notevolmente anticonformisti, come il direttore di Effedieffe Maurizio Blondet, che "ironizza", polemizzando con La Repubblica sulla già citata legge italiana sulla procreazione assistita: «se è proprio oscurantista vietare la clonazione umana (con 20 anni di galera), allora perché non riabilitare il pioniere della sperimentazione mostruosa sull'uomo, l'ingiustamente perseguitato dottor Mengele?» (Avvenire, 20/06/2002, "Provetta e principio di precauzione"). Un film infine che descrive una società "eugenetica" (ma non biotecnologica) senza alcun riferimento "fascista", e che paradossalmente incarna valori sovrumanisti (superamento di sé, senso del tragico, spirito di conquista) nel protagonista "geneticamente imperfetto" è Gattaca, La porta dell'universo, di Andrew Niccol (USA 1997).
(200) Citazione riportata da Thuillier, in "Les scientifiques et le racisme", La Recherche, maggio 1974, e da Jacquard, Elogio della differenza, op. cit., pag. 90 [edizione parziale Web].
(201) La frase, pubblicata a quanto pare in un articolo apparso nel 1940 nella rivista Zeitschrift fur angewandte Psychologie und Charakterkunde, è stata riportata uno psichiatra di Harvard, Leon Heisenberg nel numero di Science dell'aprile 1972, ed è stato all'inizio della campagna per l'annullamento del Nobel di medicina attribuito l'11 ottobre 1973 a von Frisch, a Timbergen e a Lorenz stesso. Non si dubita che oggi tali frasi per un inedito annullamento del Nobel sarebbero state più che sufficienti...
(202) Jacquard, Elogio della differenza, op. cit., pag. 146 [edizione parziale Web].
(203) Altamente significativa al riguardo è l'iniziativa poco nota dei Lebensborn ("fontane di vita"). Cfr. sull'argomento Georg Lilienthal, Der 'Lebensborn e.V.'. Ein Instrument nationalsozialistischer Rassenpolitik, Fischer (Tb.), Frankfurt 2003; Will Berthold, Lebensborn, Macdonald & Co, New York 1988; Marc Hillel e Henry Clarissa, Lebensborn. In nome della razza, Sperling & Kupfer, Milano 1976. I Lebensborn erano dei centri SS dedicati all'assistenza sia alle "ragazze-madri" tedesche che all'infanzia abbandonata, non necessariamente tedesca, con caratteristiche etniche considerate desiderabili. Naturalmente, nel contesto del secondo conflitto mondiale tali ruoli hanno conosciuto una notevole espansione, e nell'immediato dopoguerra hanno dato vita alle campagne scandalistiche sui "rapimenti in massa dei bambini polacchi biondi" e sulle "stazioni di monta delle SS".
(204) Citato nella Nota n. 18 di Informazione Diplomatica, 05/08/1938 [versione Web in inglese]. La nota continua: «Discriminare non significa perseguitare... Nessuno vorrà contestare allo Stato fascista questo diritto, meno di tutti gli ebrei, i quali, come risulta in modo solenne anche dal recente manifesto dei rabbini d'Italia, sono stati, sempre e dovunque, gli apostoli del più integrale, instransigente, e, sotto un certo punto di vista, ammirevole razzismo».
(205) Tale posizione è del tutto esplicita. Alfred Rosenberg [alias] intitola così il suo famoso libro Il mito del XX secolo [versione Web originale], e non diversamente fa in Italia Julius Evola quando scrive Il mito del sangue (ult. ed. Edizioni di Ar, Padova 1977). Mitica in un altro senso, e probabilmente in malafede dato che l'autore era tra gli italiani uno di quelli meglio conoscevano le fonti tedesche, è invece la rappresentazione polemica, a fini in sostanza di differenziazione della "spiritualista" posizione italiana, del razzismo tedesco en bloc come "razzismo biologico", ovvero in sostanza neopositivista. Vero è che Evola stessa è seguace di concezioni fortemente influenzate da Clauss e tutt'altro che estranee agli ambienti tedeschi, in particolare a quelli di matrice völkisch, mentre simmetricamente il primo editoriale della rivista di Preziosi [alias], La difesa della razza, recita testualmente, ed anche ovviamente: «Il concetto di razza è concetto puramente biologico». In senso proprio, e fuori di metafora, risulta infatti difficile immaginare a cosa potrebbe corrispondere una razza "spirituale" di canarini, o di lucertole. Altra considerazione è ovviamente quella che le eventuali determinanti razziali di caratteristiche psicologiche possano essere più interessanti, soprattutto nella specie umana, della misurazione dei crani.
(206) Cfr. Adriano Romualdi, Il fascismo come fenomeno europeo, Edizioni dell'Italiano, Novara 1977, seconda edizione Il Settimo Sigillo, Roma 1984.
(207) Poco importa in tale prospettiva se la sottorazza in questione sia mai corrisposta in qualche periodo ad una popolazione individuata, o se costituisca un mero concetto "tassonomico" individuato attraverso un'estrapolazione di caratteristiche scelte arbitrariamente, un Idealtypus, come quello del modello ideale di una razza canina cui l'allevatore mira ad avvicinarsi, ma che non è mai esistito in quanto tale. Per una delle varie classificazioni delle sottorazze europee proposte dagli antropologi nazionalsocialisti, cfr. Hans F.K. Günther, Tipologia razziale dell'Europa, Edizioni Ghénos, Ferrara 2003 [edizione parziale Web], edizione originale: Rassenkunde Europas, J. F. Lehemanns Verlag, Monaco 1926].
(208) Il gusto per le caratteristiche razziali "nordiche", pur dominante tra la maggiorparte dei dirigenti nazionalsocialisti a cominciare dallo stesso Hitler (cfr. lo stesso Mein Kampf, ultima ed. italiana: a cura di Giorgio Galli, Edizioni Kaos, Milano 2002 [versione originale Web]), non è d'altronde peculiare a tale ambiente. La stessa preferenza è stata, in differenti gradi secondo aree e periodi, diffusa in tutte le popolazioni di origine europea, forse in relazione al carattere recessivo di molte di tali caratteristiche (che implicano che le presenti sia al riguardo omozigoti) rispetto ai geni alleli che possono essere diffusi anche all'interno di popolazioni non europee, e in un "europeo" provenire in realtà dal meticciamento con queste. Tale preferenza nordica ha conosciuto del resto una particolare diffusione proprio negli Stati Uniti, non escluse, almeno a livello di caratteristiche fisiche superficiali, quali la pigmentazione chiara dell'iride e dei capelli, le componenti... ebraiche della società americana. Non è Leni Riefenstahl (che del resto aveva una folta chioma corvina), ma un'Hollywood integralmente dominata dagli ebrei a intitolare un film Gli uomini preferiscono le bionde (USA 1953). Ancora negli anni novanta, le tre protagoniste ebree (Diane Keaton, Bette Midler e Goldie Hawn) de Il club delle prime mogli (USA 1999), commedia brillante diretta da un regista ebreo, sono tutte e tre bionde – o tinte di biondo, il che come indicazione di preferenza estetica è ancora più significativa (è vero d'altronde che una delle protagonista ricorre alla chirurgia per rendere le labbra più tumide, il che difficilmente può essere considerata caratteristica prettamente "nordica"...).
(209) Mentre alcuni dirigenti nazionalsocialisti (Heydrich – benché girassero voci su ascendenti ebrei -, lo stesso Göring) avevano tratti spiccatamente nordici, molta ironia è stata incomprensibilmente versata sul fatto che la cosa fosse tutt'altro che generalizzata. Ci si chiede in effetti cosa impedirebbe ad esempio ad un capo di Stato di bassa statura di guardare con favore all'innalzamento dell'altezza media della popolazione del suo paese...
(210) Ernst Jünger, L'Operaio. Dominio e Forma, op. cit.
(211) Nota d'altronde Alain de Benoist, in L'operaio tra gli Dei e i Titani, op. cit., pag. 43 [versione Web], a sua "scusante": «Sin dal 1926-1927 Jünger sottolina che il "sangue" è un concetto non biologico ma metafisico. Nell'agosto 1926 scrive "La parola razza comincia a diventare altrettanto, penso, nell'uso attuale, quanto la parola tradizione"». In realtà sfugge per quale ragione l'attribuire un valore addirittura "metafisico" al fatto razziale (di cosa ciò significhi abbiamo già trattato) sarebbe più politically correct rispetto al (tutto sommato "innocente") mero riconoscimento del dato biologico soggiacente. Ciò si inserisce d'altronde nella stucchevole litania che anche il saggio in questione ripropone, per Jünger come per Heidegger, riguardo le varie e note critiche, "grane" e piccole sconfitte da essi subite durante il regime, sulla falsariga di quanto altrove ripetuto per Spengler, Klages, von Salomon o Schmitt, la cui elencazione poteva avere certo senso in un processo di denazificazione alla fine degli anni quaranta, ma risulta oggi piuttosto insignificante rispetto alla comprensione delle loro idee. Se tali esercizi hanno lo stesso pregio di una discussione sul fatto se Leon Trotsky sia stato o no un "comunista" sulla base del suo ben più grave dissidio con Stalin, vero è che la resistenza alle loro idee sotto il regime, talora per motivi che un ecologista o un bioetico contemporaneo potrebbero facilmente sottoscrivere, dimostra come ai regimi fascisti fosse soggiacente una realtà culturale complessa e tutt'altro che isolata dalle idee che finiranno poi per imporsi nel campo loro avverso.
(212) Come nota Georges A. Heuse, già direttore del Dipartimento di Psicologia dell'UNESCO e segretario generale dell'Institut International de Biologie Humaine di Bruxelles, «è noto che letteralmente non esiste una "razza" ebraica. Gli ebrei formano una "iero-etnia" i cui membri provengono essenzialmente dalla sottorazza anatolica, variante armenoide, (principalmente rappresentata negli Ashkenazi), e dalla sottorazza sudorientale (principalmente rappresentata tra i Sefarditi). A seguito dell'endogamia tendenziale da essi praticata, sia pure in misura diversa nelle singole comunità, è d'altronde plausibile che una o due sottorazze siano antropologicamente in via formazione in seno nell'etnia ebraica, ciò che spiega il fatto che gli ebrei sono frequentemente distinguibili dagli altri "bianchi" attraverso i loro soli tratti morfologici, e senza sapere nulla della loro religione o provenienza famigliare» (in Nouvelle Ecole n. 29, estate 1976, pag. 92) . Sulla questione della composizione razziale del popolo ebraico, cfr. da autorevole fonte israelita Emmanuel Bar-On, "Les contributions de la génétique à l'étude des origines et de l'histoire du peuple juif", in Krisis n. 27, novembre 2005. (213) Sulle concezioni razziali nel Terzo Reich vedi anche Gianantonio Valli, "La razza nel nazionalsocialismo", in l'Uomo libero n. 50. L'esistenza di una componente ebraica viene tenuta in considerazione in gradi diversi sino alla presenza di un quarto di "sangue" ebreo, ma questo viene in sostanza fatto coincidere non con tratti morfologici o caratteristiche genetiche particolari, ma con l'esistenza di uno o più nonni che fossero stati membri della comunità e della religione ebraica. Oltre all'istituto dell'"arianizzazione" ad honorem (introdotto anche in Italia con la Legge n. 24 del 13/07/1939), è noto d'altronde che alcuni halb-Jude ("mezzo ebreo", come veniva sprezzantemente chiamato Milch, responsabile della Luftwaffe, dai suoi avversari politici) svolsero ruoli pubblici significativi nella storia del Terzo Reich. La "razza" risulta infatti in tale contesto un elemento politico e mitico essenzialmente funzionale alla designazione di ideali ed appartenenze.
(214) Tale consapevolezza è particolarmente evidente nella "sinistra" nazionalsocialista. Esemplare il caso di Fritz Lang. A pochi mesi dalla ascesa di Hitler alla cancelleria, dopo un ricevimento in cui Josef Goebbels [alias] annuncia tra la costernazione della maggioranza ebraica presente i programmi del neocostituito ministero della cultura e propaganda per il cinema, lodando tra l'altro i film di Lang (prediletto tra i registi contemporanei dal cancelliere stesso) il regista racconta di essere stato convocato dal ministro, che gli propone di prendere la guida del rinnovamento del cinema tedesco. Alla domanda se il fatto di avere prossime parentele ebraiche, precisamente da parte di madre, pur essendo stato allevato come cattolico, non lo esponesse a discriminazioni, Goebbels avrebbe risposto: «Chi è ebreo lo decidiamo noi». L'aneddoto è probabilmente apocrifo, ma sta di fatto che pochi mesi dopo l'autore di Dr Mabuse, Der Spieler, di Metropolis, e dei Nibelunghi, emigrando indisturbato dalla Germania verso Hollywood, e da lì reinterpretando in senso implausibilmente antifascista la sua opera precedente, sceglie di essere ebreo, con una scelta di campo simile a quella di un Thomas Mann, già autore, con le Betrachtungen eines Unpolitischen (Considerazioni di un impolitico, Adelphi, Milano 1997), di ciò che taluni considerano il manifesto stesso della Rivoluzione Conservatrice, che si "converte" dopo aver sposato un'israelita. Viceversa, la moglie di Lang e sceneggiatrice dei suoi film, Thea von Harbou, già da molti fervente membro del partito quando Lang emigra, ha nel frattempo lasciato il regista per un giornalista indiano abitante in Germania (dalle caratteristiche certo meno nordiche di Lang!), e continuerà una brillante carriera nel cinema per tutta la durata del regime, a fianco del suo nuovo compagno. Quando nel dopoguerra gli occupanti la interrogano sulla sua militanza politica, la stessa tenta di difendersi sostenendo di aver aderito al nazionalsocialismo per manifestare il suo appoggio «a Gandhi ed alla causa dell'indipendenza indiana». Lang sosterrà invece di essere stato costretto ad emigrare per le allusioni antinaziste che sarebbero contenute in Der Testament des Dr Mabuse (Germania 1933), sceneggiato dalla moglie nazionalsocialista (!) e proiettato poco tempo dopo anche in Germania – con l'unica aggiunta di un paio di scene utili a indicare come l'azione del film (in effetti integralmente scritto e girato prima dell'avvento al potere della NSDAP) si situasse storicamente durante la Repubblica di Weimar, e non durante il regime. Nel 1966, dopo alcune grane nel periodo maccartista per il suo avvicinamento negli anni quaranta al partito comunista americano, Lang torna in Germania, e gira il suo ultimo film, Die 1000 Augen des Dr. Mabuse, la terza pellicola contenente il famoso personaggio, che sarà proibito in... Israele, con il pretesto della presenza in un ruolo di protagonista dell'attore Gert Fröbe, già "denazificato" come membro della NSDAP (già reso noto al grande pubblico internazionale dalla sua interpretazione di Goldfinger in 007 Missione Goldfinger, Inghilterra 1964).
(215) Un argomento ricorrente tendente a dimostrare la non-centralità dell'aspetto razziale nella riflessione politica latu senso fascista, oppure l'esistenza di una "differenza" irriducibile tra fascismo italiano e nazionalsocialismo sull'argomento, si fonda sull'enfasi molto più limitata e tardiva del primo sui propri programmi razziali, del resto non estranei all'influenza politico-culturale del secondo. Ciò è d'altronde legato a contingenze storiche, che vedevano la "comunità di riferimento" italiana più facilmente definibile in chiave tradizionalmente nazionale (lingua, confini naturali, frontiere statuali, etc.) di quanto non lo fosse quella tedesca (nazionalismo grande- e piccolo-tedesco, policentrismo, estrema mobilità storica delle frontiere, specie in direzione est-ovest, etc.), per non parlare della differente rilevanza locale della questione ebraica, ove il regime mussoliniano gioca per un certo periodo la carta ("nietzscheana") dell'assimilazione. Occasionali prese di posizione di Mussolini che paiono andare in direzione opposta risalgono comunque sino al 1921 («Non siamo sorpresi di apprendere che in quella che Gigione Luzzati chiama "patria adorata" ci sono ebrei che sono stufi di starci, della qualcosa non ci rammarichiamo affatto. Se i sionisti italiani – sedicenti italiani! – se ne andassero altrove... vorremmo darci il piacere di facilitare questo esodo», da un articolo sul Popolo d'Italia, oggi in Opera Omnia, vol. XIII, pagg. 169-170). Ma le preoccupazione biopolitiche, eugenetiche e razzili del fascismo italiano si esprimono costantemente ogniqualvolta hanno l'occasione di farlo, a cominciare dalle leggi contro il meticciato nelle colonie (che non conoscevano ovviamente equivalenti tedeschi, non avendo il Terzo Reich alcuna colonia extraeuropea) e nella politica sanitaria e demografica, come documentato ad esempio in Rauti, Sermonti, Storia del Fascismo, vol. V, pagg. 269 e segg. Vedi anche Roberto Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, La Nuova Italia, Firenze 1999. Viceversa, la particolare "consapevolezza razziale" nazionalsocialista diventa anche un limite a livello strategico per il regime stesso, come ad esempio laddove il pregiudizio "europeo" a favore dell'Impero britannico tende ad oscurare, rispetto a quanto avveniva in Italia, la percezione del nemico ultimo del fascismo europeo.
(216) Cfr. Giorgio Locchi, "Espressione politica e repressione del principio sovrumanista", in l'Uomo libero n. 53, art. cit.
(217) D'altronde, con riguardo alla politica razziale del Reich, il costante richiamo al sistema concentrazionario, pur suggestivo per l'immaginario antifascista del dopoguerra, non è troppo pertinente, dato che per la Germania dell'epoca, così come per altre analoghe esperienze (la guerra anglo-boera, il concentramento dei giapponesi americani durante la guerra del Pacifico, i gulag staliniani, etc.), l'internamento rappresenta essenzialmente una misura di rimozione, confinamento e contrasto preventivo rispetto a comunità e gruppi sociali percepiti come potenzialmente ostili, o almeno asociali, e la decisione su chi internare non dipendeva certo da indagini sulle caratteristiche antropologiche dei singoli internati!
(218) Come noto, mentre il "totalitarismo" sovietico si occupa di poco d'altro che non sia il raggiungimento degli obbiettivi dei piani quinquennali, i regimi fascisti sono i primi in assoluto ad adottare provvedimenti in materia ecologica, per esempio nel campo dell'inquinamento o della protezione delle specie selvatiche, che pure si coniugano con una forte spinta alla modernizzazione e all'industrializzazione dei relativi paesi. Altri argomenti ritenuti di prioritaria importanza politica sono la profilassi di massa, la cura del corpo e l'educazione alimentare (il "dovere alla salute"), la modificazione dell'ambiente naturale (ad esempio con le bonifiche), il paesaggio urbano, l'equilibrio tra le campagne e le città, il miglioramento delle colture agricole, etc. Questo nel medesimo periodo in cui gli Stati Uniti (come per la verità alcuni paesi europei) si erano appena gingillati per tredici anni con il progetto moralista incarnato dal Proibizionismo, "nobile esperimento" che sarà abolito non prima di aver creato la più grande criminalità organizzata della storia moderna ed aumentato il tasso di alcolismo tra la popolazione. Qualunque cosa se ne possa pensare, durante il Terzo Reich alcolismo e tossicodipendenza crollano in pochi mesi nella loro diffusione e soprattutto nella loro visibilità sociale, proprio perché il regime si preoccupa poco del controllo delle sostanze eventualmente consumate (ovvero del "peccato"), si occupa più efficacemente della mobilitazione del cittadino e della sua responsabilità verso la comunità per eventuali atteggiamenti antisociali concreti, qualunque ne sia la causa o il pretesto immediato, se del caso disponendone l'internamento, ad apprendere che è il lavoro (l'azione trasformatrice sul mondo) che rende liberi: "Arbeit macht frei".
(219) Vedi The Works of Theodore Roosevelt, Charles Schribner's Sons, New York 1923-1926, vol. 21, pag. 163.
(220) Kenneth M. Ludmerer, Genetics and American Society. A Historical Appraisal, John Hopkins University Press, Baltimora 1972, pag. 43.
(221) Michael F. Guyer, Being Well Born. An Introduction to Heredity and Eugenics, Bobbs-Merril Co., Indianapolis 1926, prefazione.
(222) Edwin G. Conklin, "The Future of America. A Biological Forecast", in Harper's Magazine, Aprile 1928, pagg. 529-539.
(223) Citazione riportata in Horatio H. Newman, Evolution, Genetics and Eugenics, University of Chicago Press, Chicago 1921, pag. 441.
(224) Charles B. Davenport Papers, Department of Genetics, Cold Spring Harbor Laboratory, New York 1913.
(225) William McDougall, Is America Safe for Democracy?, Charles Schribner's Sons, New York 1921; vedi anche Ethics and Some Modern World Problems, G.P.
Putnam's Sons, New York 1924.
(226) Nel mondo egualitario, come noto, tale tipo di tesi non ha più corso legale a livello ufficiale – salvo entro certi limiti nell'estrema destra americana ed israeliana – perché proprio l'esperienza fascista indica il rischio "blasfemo" e "faustiano", insito in qualsiasi tipo di intervento, di finire per voler decidere collettivamente, sulla base di un'appartenenza e di un progetto, cosa si vuole essere e cosa fare di se stessi, cessando così di essere strumento di una volontà impersonale ed universale volta alla fine della storia, e diventando al contrario il motore di una (possibile) rigenerazione della storia stessa. D'altronde, va rimarcato quanto delle idee qui descritte resti latente nell'inconscio collettivo americano (ed europeo) specie con riguardo al "patriottismo democratico" oggi nuovamente di moda, ed all'intolleranza del "diverso" che questo esprime a livello politico, sociale, culturale e religioso.
(227) Riportato in Teaching School Bulletin, febbraio 1914.
(228) Irving Fischer, "What I Think About Eugenics", in A Brief Bibliography of Eugenics, Eugenics Society of the USA, 1915, pag. 5.
(229) Ernest A. Hooton, The American Criminal. An Anthropological Study, Harvard University Press. Cambridge 1939, pagg. 307-309.
(230) Jeremy Rifkin, Il secolo biotech, op. cit., pag. 201.
(231) Alexander Graham Bell, "A Few Thoughts Concerning Eugenics", in National Geographic, febbraio 1908.
(232) Cfr. Caleb W. Saleeby, The Progress of Eugenics, Funk & Wagnalls, New York 1914, pag. 89.
(233) Harry H. Laughlin [alias] , "Scope of the Committee's Work", Eugenics Record Office, Cold Spring Harbor Laboratory, New York 1914.
(234) Cfr. Harry H. Laughlin [alias], Eugenical Sterilization in the United States, Psycopathic Laboratory of the Municipal Court of Chicago, Chicago 1922.
(235) Cfr. Jacob H. Landman, Human Sterilization. The History of Sterilization Movement, MacMillan Co, New York 1932, pag. 259.
(236) D'altronde, non importa affatto alla maggiorparte degli intellettuali americani contemporanei quanto se ne possa sapere di più oggi sul modo di operare dell'ereditarietà e su quanto possa essere eventualmente possibile una legislazione meno ingenua e demagogica, o tecnicamente più efficace, essendo come abbiamo visto ormai ritenute intollerabili le tentazioni cui le "buone intenzioni" suddette espongono l'uomo.
(237) Riportato in Mark Haller, Eugenics: Hereditarian Attitudes in American Thought, Rutgers University Press, New Brunswick 1963, pag. 139.
(238) L'affermazione riportata è tratta da Jonathan Beckwith, "Social and Political Use of Genetics in the US, Past and Present", in Annals of the New York Academy of Science, 1976, pag. 47. Vedi anche Stefan Kuhl, The Nazi Connection: Eugenics, American Racism, and German National Socialism, Oxfort University Press, Oxford 2002.
(239) Per un'eloquente illustrazione degli elementi fondanti del sistema ideologico americano, vedi ad esempio Alain de Benoist e Giorgio Locchi, Il male americano, Akropolis, Napoli 1979, e con riguardo alla sua evoluzione nella cultura della globalizzazione, Guillaume Faye, Il sistema per uccidere i popoli [versione Web], op. cit.
(240) Su Ludwig Woltmann, vedi anche Alain de Benoist, "Ludwig Woltmann et le darwinisme allemand ou le socialisme prolet-aryen", in Nouvelle Ecole n. 38.
(241) Eric Delcroix, Le Theâtre de Satan. Décadence du droit, partialité des juges, L'Aencre, Parigi 2002, pag. 335 [versione Web], edizione italiana parziale: "I diritti dell'uomo in azione. La deriva della legge e dei giudici verso lo psicoreato", in l'Uomo libero n. 50.
(242) Edward A. Ross, The Old World in the New: the Significance of Past and Present Immigration to the American People, The Century Co., New York 1944, pagg. 113-150.
(243) Madison Grant, The Conquest of a Continent or, The Espansion of Races in America, Charles Schribner's Sons, New York 1933, ult. ed. Liberty Bell Publications 2004.
(244) James J. Davis, "Our Labor Shortage and Immigration", in Industrial Management, 1923, pag. 323.
(245) Harry H. Laughlin [alias], "Analysis of America's Melting Pot", udienze avanti lo House Committee on Immigration and Naturalization, LXVII Congresso, III Sessione, US Government Printing Office, 1922, pag. 755.
(246) Non mancò naturalmente chi continuò d'altra parte a non percepire la spaccatura, o finì addirittura per "saltare il fosso", al punto da sostenere ancora nel luglio 1934 che «la Germania sta attuando una politica che va d'accordo con la migliore linea di pensiero degli eugenisti di tutti i paesi civilizzati» (Paul Popenoe, "The German Sterilization Law", nel numero dello stesso mese del Journal of Heredity, pag. 257-260).
(247) Mark B. Adams, The Wellborn Science. Eugenics in Germany, France, Brazil and Russia, Oxford University Presso, Oxford 1990, pag. 5, citato anche da Cristian Fuschetto, Fabbricare l'uomo. L'eugenetica tra biologia e ideologia, op. cit., pag. 18.
(248) Cfr. le penose contorsioni al riguardo di Cristian Fuschetto, Fabbricare l'uomo. L'eugenetica tra biologia e ideologia, op. cit., che giunge a riesumare la distinzione tra una possibile eugenetica "negativa" (buona) e l'eugenetica "positiva" e cattiva (luciferina, prometeica, "nazista", etc.), dopo cinquant'anni di dimostrazioni di come il concetto di salute e malattia siano concetti eminentemente culturali. Habermas stesso allude ad una forma appena più moderna di tale vecchio discorso, fondata su una verifica della certezza morale di un ipotetico consenso delle cellule germinali (!), in Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, op. cit., pag. 45-48.
(249) Citato in Alain Peyrefitte, C'était De Gaulle, vol I, Editions de Fallois / Fayard, Parigi 1994, pag. 52. Per le posizioni di De Gaulle in materia di immigrazione, cfr. anche Guillaume Faye nel capitolo su "De Gaulle et l'immigration" in La colonisation de l'Europe.
(250) Riportato da Philippe Alméras, Retour sur le siècle, Les Cahiers de Jalle, Boston 1991, pag. 101.
(251) Circostanza ricordata in Le Theâtre de Satan. Décadence du droit, partialité des juges, L'Aencre, Parigi 2002, pag. 335 [versione Web] op. cit., pag. 302.
(252) Nouvelle Ecole n. 14 del gennaio-febbraio 1971.
(253) Citato in Jean-Jacques Mourreau, "L'éugenisme. Survol historique", Nouvelle Ecole n. 14 del gennaio-febbraio 1971, cui rimandiamo per una presentazione più completa della storia dell'eugenismo prima del 1945, in particolare nelle sue espressioni europee non-fasciste qui tralasciate. L'imbarazzante brano ricordato è stato commentato nel dopoguerra anche da parte comunista; un marxista francese scrive in particolare, quasi per scusarlo: «Nel testo di Riazanov, l'allusione alla preservazione della razza può far sorridere, ma forse bisogna ricordare il livello sanitario medio dell'Unione Sovietica dell'epoca, lo stato di carestia in cui essa vi è trovata per molti anni» (Emile Copfermann, "Sexualité et répression", in Partisans, Ottobre-Novembre 1966, pag. 70).
(254) Yves Christen, "L'eugenisme. Prospective actuelles", Nouvelle Ecole n. 14 del gennaio-febbraio 1971. Merita di essere citato il fatto che all'epoca Jean-Jacques Mourreau aveva venticinque anni, e Christen, che aveva appena concluso un Master in genetica, biochimica e biologia animale, ventitré!
(255) Citato da John Cavanaugh-O'Keefe "The Root of Racism and Abortion: An Exploration of Eugenics"
(256) Gilbert Meilaender, "Designing Our Descendants", in First Things, gennaio 2001.
(257) Ramez Naam, More than Human. Embracing the Promise of Biological Enhancement, Broadway 2005 [sito collegato], pag. 166.