Biopolitica. Il nuovo paradigma

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La manipolazione del vivente

L'obiezione morale di matrice umanista contro la manipolazione del vivente è ben espressa da un dialogo tratto da Jacquard (258) da una sua conversazione con un giornalista: «Domanda: Lei pretende che non sia possibile migliorare la specie umana; tuttavia, l'Uomo è riuscito a migliorare numerose specie animali o vegetali; non può mettere in dubbio, per esempio, il miglioramento delle razze equine. Risposta: Se fosse un cavallo, penserebbe davvero che si tratti di un miglioramento?».

La risposta ovviamente è: l'allevatore, il "secondo uomo", ha fatto esattamente la scelta di tenere conto del suo punto vista, e non di quello del cavallo, perché è in rapporto a questo punto di vista che si definisce il suo essere-nel-mondo, la sua umanità intrinseca.

Di converso, è anzi legittimo ritenere che tale "soggettività", e il processo di domesticazione della realtà e di se stesso che essa implica, costituisca proprio lo specifico umano, uno specifico forse tragico, ma che certo può venir giudicato, specie nella prospettiva indoeuropea, ineluttabile e/o da perseguire.

Abbiamo già visto d'altronde come la "naturalità" del mondo del secondo uomo, quella che pure oggi è in crisi, sia ampiamente sopravvalutata, per l'ovvia ragione che la troviamo come un dato ricevuto, spesso immutato da secoli. Non c'è niente di naturale ad esempio in un campo di grano, e il disboscamento dell'Italia centrale o l'eliminazione di alcune specie di predatori nella stessa zona non è frutto della rivoluzione industriale, ma era già ad uno stadio avanzato in epoca pre-romana.

La domesticazione degli animali ha seguito di poco la comparsa dell'agricoltura organizzata; quella del cane, specie come aiutante del cacciatore, sembra addirittura averla preceduta, perché sarebbe avvenuta almeno dodicimila anni fa. Quella dei cavalli, degli ovini e dei bovini pare più recente, e non andare oltre seimila anni fa; è stata d'altronde ampiamente preceduta da quella del maiale, primo animale da carne che ha poi finito, circostanza interessante, per costituire l'oggetto di complessi significati simbolici ed interdetti religiosi (259).

Come ammette Jacquard, questa domesticazione è stata sin dall'inizio accompagnata da un'azione mirante ad accrescere le caratteristiche che gli allevatori giudicavano utili o piacevoli; anzi, sembra che gli sforzi per conservare tratti eccezionali considerati piacevoli abbiano largamente preceduto quelli tendenti a migliorare i "rendimenti" in termini di lavoro, carne, latte o lana.

Un'azione sistematica per migliorare certe caratteristiche utili del bestiame tramite incroci diretti risale per i bovini almeno al diciottesimo secolo. È certamente vero che vi sono conseguenze indirette "sfavorevoli" della selezione mirata, in particolare in termini di "fragilità" degli animali e/o accresciuta incapacità di sopravvivere o riprodursi autonomamente, che rende necessario rinnovare indefinitamente tale processo (260). A partire dagli anni trenta, grazie ai progressi della genetica delle popolazioni, i metodi messi a punto in modo empirico nel corso dei secoli hanno potuto ricevere una solida base teorica. Dalle iniziali analisi di Fisher [alias] (261), è tutto un fiorire di modelli che permettono di guidare in modo più ragionato le scelte del selezionatore, e la cui diffusione non è estranea all'interesse per l'eugenetica umana venuto in luce proprio nello stesso periodo.

Come ammette Jacquard, i risultati raggiunti già in epoca pre-biotecnologica non possono essere messi in discussione: «Il rendimento in latte delle mucche, il ritmo di crescita dei maiali, la produzione di uova dei polli, tutte le caratteristiche degli animali da cui dipende la nostra alimentazione sono state migliorate in modo talvolta spettacolare: se in una nazione "tradizionale" [e la cui popolazione bovina è già e dappertutto frutto di una domesticazione e selezione secolare, N.d.A.] una vacca fornisce 400 litri di latte all'anno, negli Stati Uniti il rendimento medio raggiungeva nel 1955 i 4725 litri, e nel 1967 aveva superato i 5500». Risultati altrettanto indiscutibili sono del resto raggiunti nella selezione di caratteristiche quali le prestazioni dei cavalli da corsa, o la specializzazione ed addestrabilità dei cani.

I risultati nella manipolazione delle specie vegetali, ad esempio nella coltivazione dei cereali, sono ancora più spettacolari (262).

Esistono per la verità ragionevoli teorie per cui gli esseri umani non sono realmente adattati ad una dieta basata sugli amidi – che presuppone semina, coltivazione, lavorazione e soprattutto cottura (un uomo nudo in un campo di grano muore di fame), così che l'assunzione di tali alimenti è entrata nelle abitudini della nostra specie, attestata da almeno trecentomila anni (263), solo da una manciata di millenni. Anzi, i portati della paleopatologia tendono a dimostrare che una serie di malattie (dalla carie al diabete, alle disfunzioni cardiovascolari, a certi tipi di cancro, alla tendenza all'obesità), che si tende facilmente ad attribuire alla "vita moderna", sono molto più antiche e risalgono in effetti al mutamento di dieta seguito all'avvento dell'agricoltura, mentre lasciano pressoché indenni le popolazioni che nello stesso periodo o anche successivamente continuano a vivere in società di caccia e raccolta (264). Anche qui, è del resto interessante notare come le aristocrazie della società del "secondo uomo" tendono regolarmente a perpetuare modi di vita arcaici, tramite una dieta in media molto più ricca di proteine e verdure fresche che di cereali (265).

Sia quel che sia, una società basata in via generale su un'economia di caccia e raccolta necessita di un territorio immenso per sostentare una popolazione minima, e costringe di fatto quest'ultima al nomadismo, così che è appunto il passaggio ad una dieta basata per la gran parte della popolazione sui carboidrati che ha consentito la prima grande esplosione demografica, ed il cambiamento di abitudini culturali insito nella nascita di agglomerati urbani e nella vita stanziale. Ed è sempre l'agricoltura che ha accompagnato lo sviluppo esplosivo della popolazione mondiale negli ultimi due secoli, dalla rotazione delle colture sino a giungere alla "rivoluzione verde" del secondo dopoguerra.

Un esempio notevole è quello del grano e dei risultati ottenuti dal Centro Internazionale di Miglioramento del Grano dell'Università di Chapingo, in Messico 266. In tale paese la coltivazione del grano non aveva da secoli compiuto alcun progresso, sino all'istituzione di tale centro alla fine degli anni quaranta. All'epoca il rendimento raggiungeva appena i 9 quintali per ettaro; la raccolta annuale di 3 milioni di quintali non copriva neppure metà del fabbisogno nazionale. Norman Burla, responsabile del centro, cercò, tra le circa cinquemila varietà coltivate nella regione, quelle che offrivano la migliore resistenza alla ruggine dei cereali; le incrociò con una varietà giapponese a culmo corto, effettuò decine di migliaia di tentativi di ibridazione e ottenne nuove varietà che avevano tutte le caratteristiche desiderate dai coltivatori: una pianta sufficientemente corta per non allettare, in grado di resistere alla siccità, capace di tollerare una forte concimazione azotata e di sfruttarne l'apporto per produrre chicchi più grossi e più numerosi. In condizioni ideali, fu possibile ottenere 75 quintali per ettaro. Dal 1965 la quasi totalità dei coltivatori messicani utilizza le sementi messe a punto dall'Istituto, e già in tale anno la locale "battaglia del grano" portò ad un raccolto superiore ai 22 milioni di quintali.

Gli sforzi di ricerca mirati di altri paesi hanno presto raggiunto analoghi successi, consentendo ad esempio di raggiungere rendimenti vicini ai 20 quintali per ettaro in condizioni semidesertiche. I risultati raggiunti non sono stati del resto solo quantitativi. Ad esempio, ricercatori indiani sono riusciti già negli anni sessanta, grazie a mutazioni indotte con raggi X, a ottenere nuove varietà di grano più ricche di proteine, e in particolare di proteine contenenti lisina, in modo da limitare i danni di un'alimentazione largamente basata sul cereale in questione, ad esempio sotto forma di pane.

Altre piante hanno beneficiato di simili ricerche. Le diverse varietà di riso coltivate nella stazione di ricerca dell'Università agricola del Pendjab indiano avevano, sempre nel 1965, un rendimento medio di una tonnellata per ettaro; la creazione e diffusione di varietà semi-nane ha fatto passare tale rendimento a 1,8 tonnellate nel 1970 e 2,6 nel 1975. Tutti conoscono lo straordinario sviluppo della coltivazione del mais; prima ancora delle varietà OGM, le stazioni sperimentali dell'Iowa e del Wisconsin non solo avevano già rendimenti che in altre epoche sarebbero stati ritenuti miracolosi, e superiori a 50 quintali all'ettaro, ma un'uniformità tale da renderne possibile la raccolta meccanizzata.

La manipolazione di tali specie comporta inevitabilmente rischi e problemi sia dal punto di vista strettamente biologico ed umano, che da quello politico-economico e culturale, come vedremo in particolare con riguardo ai cosiddetti "organismi geneticamente modificati" (267); ma giova notare sin d'ora come rispetto ad essa siano difficilmente sostenibili risposte neo-primitiviste, o ingenuamente "di destra".

Dal punto di vista egualitario, sussiste un ovvio conflitto tra la "peccaminosità" intrinseca di tali, pure tradizionali, manipolazioni e la preoccupazione umanitaria legata alla "fame nel mondo". Da altri punti di vista, non è possibile ignorare il significato che l'adozione o meno di tali tecniche assume in chiave di autosufficienza alimentare, e perciò in ultima analisi di indipendenza politica, ed in termini di capacità delle società che ne fanno uso di sostenere una demografia radicalmente diversa a parità di territorio, esattamente come è successo all'epoca della rivoluzione neolitica e dell'avvento dell'agricoltura, e di nuovo con conseguenze ovvie in termini di sopravvivenza a medio-lungo termine della comunità di riferimento e della sua base biologica, rispetto alle altre con cui si trova in concorrenza riproduttiva.

Abbiamo visto come sia d'altronde ugualmente inadeguato l'approccio progressista ingenuo, da Ballo Excelsior [alias], che considera gli effetti della manipolazione del vivente ed il progresso delle tecniche al riguardo in chiave indiscriminatamente "ottimista" ed universalista, come stadi in un percorso di graduale miglioramento, inteso in termini essenzialisti ed assoluti, destinato a portarci dritti dritti nel paradiso terrestre dell'abbondanza, e della fine dei conflitti e dell'alienazione (268). Anzi, proprio l'acquisita consapevolezza dell'insostenibilità di tali visioni si trasforma oggi, specie da sinistra, in argomento di condanna e "dubbio" sistematico rispetto alla manipolazione del vivente, alla luce anche di una aumentata presa di coscienza della sua portata prometeica, nel momento in cui tale manipolazione viene a sfociare in una determinazione globale dell'uomo e del suo ambiente da parte dell'uomo stesso.

Scrive Jacquard: «Ad ogni tappa dei loro sforzi i selezionatori hanno migliorato per esempio le razze di fagioli; non si tratta di mettere in dubbio l'interesse di ciascuno dei progressi realizzati, ma il risultato finale è davvero un miglioramento? Le varietà ottenute hanno rendimenti meravigliosi nelle condizioni molto particolari in cui le coltiviamo; sono incapaci di sopravvivere nelle dure condizioni che il più delle volte offre l'ambiente naturale. [...] Non abbiamo migliorato né il grano né i cavalli: abbiamo migliorato la capacità del grano di utilizzare certi concimi, la capacità delle mucche di produrre latte, la capacità dei cavalli di correre rapidamente. [...] Il patrimonio genetico di queste qualità è migliore del patrimonio ancestrale? O, al contrario, gli è inferiore? A questa domanda non può essere fornita alcuna risposta. Il risultato dipende dalle condizioni in cui effettuiamo il confronto» (269).

Ciò è assolutamente vero, ed anche ovvio. Ciò che è invece del tutto immaginaria è l'esistenza di un patrimonio ancestrale, di un ambiente naturale, cui sia oggi possibile fare riferimento. Il granoturco, o mais, è stato selezionato ed incrociato per migliaia di anni, prima che dagli agronomi e dai genetisti, dagli indiani Maya; ancora prima della scoperta dell'America, le varietà coltivate erano già così lontane dall'avere le caratteristiche naturalmente necessarie alla riproduzione da non potersi affatto perpetuare senza un intervento umano. Oggi, se un cataclisma provocasse l'estinzione della specie umana, contemporaneamente scomparirebbe dalla faccia della terra anche il mais; ne rimarrebbe probabilmente una sola specie, la teosinta, inadatta alla coltivazione ed oggi considerata un'erbaccia, ma che a quanto è stato ipotizzato sarebbe la lontana antenata del mais, o almeno una discendente selvatica di un antenato del mais. Cos'ha di "naturale" il mais con cui da secoli viene preparata la polenta nelle valli alpine e nella bergamasca, e da millenni le pappe o le pannocchie abbrustolite delle popolazioni andine?

La verità è che qualunque giudizio sulla validità di un corredo genetico non può che essere relativo; ma la relatività del giudizio in questione non lo rende meno "vero", a partire naturalmente dal contesto e dalle scelte di valore cui lo stesso fa riferimento.

Ugualmente, se la varietà e ricchezza della biosfera sono oggi minacciate, la loro conservazione futura non può che essere frutto di una scelta deliberata, politica, e del tutto artificiale, così come la conservazione nel patrimonio genetico delle specie vegetali ed animali, uomo compreso, di caratteristiche "ancestrali" e/o prive di un significato adattativo nelle concrete condizioni ambientali in essere, ma che è possibile scegliere di mantenere, per lungimiranza – in vista della sopravvivenza nel caso di un mutamento profondo di tali condizioni ambientali –, oppure per ragioni estetico-affettive e culturali. La raccolta, classificazione e protezione del selvatico e delle razze locali, per il relativo patrimonio genetico, è anzi una prospettiva moderna, o meglio post-moderna, che ben può porsi in contrasto con pratiche millenarie volte invece alla riduzione e specializzazione, specie delle varietà vegetali, a favore di quelle utili, e tra queste a quelle qualitativamente e quantitativamente preferibili per il contadino e i suoi padroni o clienti. In questo senso sembra problematico rappresentare l'agricoltura tradizionale, decantata in questo senso ad esempio da Giovanni Monastra (270), come "custode" di una varietà biologica che essa storicamente non ha mai fatto altro che ridimensionare e combattere.

Naturalmente, la prima manipolazione della biosfera avviene, prima ancora che tramite la selezione o lo sterminio (o... la conservazione deliberata ed artificiale) di specie e razze vegetali ed animali, indirettamente, attraverso l'alterazione dell'ambiente, alterazione che costituisce il marchio del "secondo uomo" rispetto al primo.

Tale alterazione oggi non fa altro che giungere a compimento: prima dell'industria, dell'inquinamento industriale, delle grandi monoculture, dell'effetto serra, il panorama del pianeta è stato radicalmente trasformato dal disboscamento, dal pascolo, dalla seminatura, dall'insediamento artificiale di specie al di fuori al di fuori del loro habitat originario. Se tutto ciò nell'Europa centrale e meridionale e nel bacino del Mediterraneo è in atto da migliaia di anni, la radicale trasformazione di zone periferiche come Islanda o Australia si è compiuta integralmente nella nostra era. E tutto ciò va certamente nel senso di una diminuzione della ricchezza biologica della Terra. Le specie e le razze si sono sempre estinte, e conservare specie destinate all'estinzione è altrettanto "manipolatorio" che accelerare quest'ultima; ma se è vero come sostengono alcuni autori che all'epoca dei dinosauri si estingueva circa una specie ogni mille anni, all'inizio dell'era industriale una ogni dieci, ed oggi saremmo al ritmo di tre specie estinte all'ora (271), è lecito porsi il problema, in particolare quando non sono affatto chiarite le condizioni e modalità della (possibile) apparizione di nuove specie, ed è addirittura rimesso in dubbio, e non solo da parte dei fondamentalisti biblici, il fatto che processi di speciazione siano oggi tuttora in corso (272).

La varietà e ricchezza della vita sulla Terra riguarda del resto tanto il grado di varianza all'interno delle popolazioni, quanto il grado di varianza delle popolazioni l'una rispetto all'altra; e per quanto riguarda le popolazioni umane, parrebbe naturale che la sua difesa debba riguardare innanzitutto la difesa appunto della differenza della popolazione interessata, e la lotta all'entropia etnoculturale da cui tale differenza è inevitabilmente minacciata. Entropia che abbiamo visto agire attraverso una crescente eliminazione dei fattori di segregazione (immigrazione, monoglottismo, sradicamento, panmissia, etc.) e di selezione orientata (uniformizzazione dell'ambiente e dei modelli culturali a livello planetario).

La manipolazione del vivente verificatasi dalla rivoluzione neolitica non si è fermata comunque all'alterazione dell'ambiente, alla domesticazione ed alla selezione orientata. Clonazione, innesti, ibridazione, monocultura, fecondazione artificiale, fanno ugualmente parte di un repertorio di strumenti tradizionale, anche se a lungo principalmente vertente sul mondo vegetale. Nel diciannovesimo secolo l'oidio, la pebrina e la filossera hanno messo in ginocchio in pochi anni l'allevamento dei bachi e la coltivazione della vite nel continente europeo a seguito appunto dell'utilizzo esclusivo, da secoli, di ceppi poi rivelatisi vulnerabili (273). Come sanno anche i bambini, il mulo che accompagnava e talora accompagna ancora oggi l'alpino è un ibrido sterile prodotto deliberatamente ad ogni generazione tramite l'incrocio "contronatura" di due specie diverse, per gli scopi del medesimo alpino.

Ciononostante, la frattura epocale cui siamo oggi confrontati non può essere sottovalutata, e le sue conseguenze sono politiche ed esistenziali ad ogni livello. Siamo di fronte non solo a scelte di civiltà, ma a scelte che decideranno dell'egemonia futura sul pianeta e della nostra capacità di cambiare, o secondo i casi conservare, i modi di vita che abbiamo conosciuto sino ad ora.

Nota Kempf, a proposito che quella che definisce da parte sua la rivoluzione biolitica: «L'umanità ha compiuto l'impresa di affermare la sua signoria sulla natura aperta con la rivoluzione neolitica; essa si impegna ora in un'impresa di affermazione della sua signoria sugli organismi biologici al livello individuale e di trasferimento di proprietà biologiche alla materia inerte (274). L'effetto delle potenti tecniche che cominciamo ad impiegare per manipolare il vivente e per animare l'artificiale rende cruciale per la nostra generazione riattualizzare le questioni di ciò che sono e l'uomo e la vita. Non cambiamo di mondo, cambiamo di essere» (275).

E ancora: «La mia ipotesi è che le ricerche contemporanee manifestino, al di là delle loro preoccupazioni immediate e dei loro metodi, una coerenza globale. Il loro avvento non ha luogo come un'insorgenza disordinata, ma come il prodotto di una volontà comune di agire dall'interno sul vivente, trasformando l'organismo biologico, animando costruzioni minerali o logiche, o avvicinando i due tipi di tecnica. Tale volontà pare abbastanza antica perché se ne possano cogliere le traccie in diverse mitologie. Ma mai aveva preso una espressione così manifesta come oggi. Offrendogli i mezzi della sua realizzazione, le nuove tecniche forgiano un cambiamento del rapporto dell'umano con il mondo così profondo da apparentarsi ad una rottura, una rottura di cui si trovano pochi esempi equivalenti nella storia umana» (276).

L'esempio paradigmatico è quello che abbiamo già discusso: «Qualche migliaio di anni fa, le società umane hanno cominciato a passare da un modo di sussistenza basato su caccia e raccolta a un'economia fondata sull'agricoltura e l'allevamento – in breve, dal saccheggio allo sfruttamento. La costituzione di riserve alimentari ha permesso di affrancarsi dalle costrizioni ecologiche immediate. Questa mutazione, che ha definitivamente trasformato l'organizzazione delle società umane, fu battezzata rivoluzione neolitica dall'archeologo australiano Gordon Childe negli anni trenta. Se l'archeologia ha precisato la descrizione del fenomeno – un processo disteso su vari secoli e millenni, ed affermatosi in circa sette focolai geografici principali – ne ha conservato l'idea generale. L'entrata nell'era neolitica ha marcato un cambiamento radicale del rapporto tra l'uomo e la natura. Prima, bisognava sottomettersi ad una potenza incommensurabile che dispensava arbitrariamente gli alimenti della sopravvivenza; presto, divenne possibile mettere sotto controllo queste forze minacciose o misteriose per asservirle alla soddisfazione dei bisogni umani. [...] Oggi, fortificata dai nuovi poteri usciti dalla conoscenza scientifica, la civiltà neolitica ha compiuto la sua impresa: non esiste più una natura "selvaggia". Come ha constatato la rivista Science, "non vi sono più posti sulla terra che non siano nell'ombra dell'umanità". L'umanità influenza oggi totalmente la biosfera, per trasformazione diretta o tramite modifica dei suoi equilibri biochimici. Non che essa ne padroneggi i processi, ma non ne esiste più alcuna parte che sia immune dalla sua influenza. [...] Ebbene, come i nostri antenati sono entrati in un'era nuova quando hanno cominciato la conquista della natura selvaggia, nello stesso modo, trasformando il vivente e tentando di proiettarne le caratteristiche nella materia inerte, noi entriamo in una nuova era, dominata dalle tecniche che sposano il vivente (βίος, bios) al minerale (λύθος, lithos) e che è appropriato chiamare biolitica» (277).

Pur se declinato nell'ambito di limiti mentali americani ed economicisti, è interessante quello che scrive al riguardo di questa rivoluzione il più volte citato Jeremy Rifkin: «I grandi cambiamenti nella storia avvengono quando forze culturali, economiche e tecnologiche si uniscono per creare una nuova "matrice operativa". Ci sono sette elementi che compongono la matrice operativa del secolo delle biotecnologie».

Questi i sette elementi individuabili secondo l'autore: «Innanzitutto, la possibilità di isolare, identificare e ricombinare i geni fa del pool genetico una nuova materia prima. Le tecniche del DNA ricombinante e altre biotecnologie consentono agli scienziati di individuare, manipolare e sfruttare le risorse genetiche per fini specifici. In secondo luogo, la concessione di brevetti sui geni, sulle linee cellulari, sui tessuti, sugli organi e sugli organismi manipolati geneticamente, nonché sui processi usati per alterarli, crea i presupposti per lo sviluppo e lo sfruttamento economico delle relative risorse. In terzo luogo, la globalizzazione rende possibile una ricostruzione complessiva della biosfera mediante una seconda genesi concepita in laboratorio, la creazione di una natura bioindustriale prodotta artificialmente e costruita per rimpiazzare gli schemi propri dell'evoluzione. Un'industria mondiale delle scienze della vita sta per acquisire un potere senza precedenti sulle vaste risorse biologiche del pianeta. In quarto luogo, la mappatura dei circa centomila geni che fanno parte del genoma umano, le nuove scoperte nel campo dello screening genetico, i bio-chip, la terapia genica a livello di cellule somatiche e di manipolazione genetica degli ovuli, degli spermatozooi e delle cellule embrionali umane, stanno aprendo la strada all'alterazione della specie umana e alla nascita di una civiltà eugenetica pilotata dal commercio. In quinto luogo, una serie di nuovi studi scientifici sulle basi genetiche del comportamento umano e la sociobiologia, che privilegia la natura rispetto all'educazione, forniscono un contesto culturale per l'estesa accettazione delle nuove idee e tecnologie. In sesto luogo, il computer fornisce il mezzo di comunicazione e di organizzazione per gestire le informazioni genetiche che costituiscono la materia delle biotecnologie. In tutto il mondo, i ricercatori usano comunemente i computer per decifrare, scaricare, catalogare e organizzare le informazioni genetiche, e ciò permette loro di creare un nuovo magazzino di capitale genetico da usare nell'era bioindustriale. Le tecnologie del calcolo e quelle genetiche si stanno fondendo in una potente nuova realtà tecnologica (278). In settimo luogo, un nuovo atteggiamento culturale nei confronti dell'evoluzione sta cominciando a rimpiazzare l'impostazione neo-darwiniana con una visione della natura che sia compatibile con gli assunti delle nuove tecnologie e della nuova economia globale» (279).

Parte di ciò che Rifkin descrive, e denuncia, è un "incubo" solo per chi sia legato ai pregiudizi ideologici egualitari e umanisti dell'autore, e per altri potrebbe anzi contenere gli elementi di un sogno di scala fino ad oggi impensabile. Per il resto, ovvero per la parte più genericamente pessimista, lo scenario ipotizzato è certo perfettamente possibile, ma non è che una delle alternative che si aprono al "secolo biotech"; e ciò che unicamente può evitarlo non saranno certo atteggiamenti di luddismo primario, proibizionismi improbabili, o "denuncie" di questo tipo, ma solo una volontà tragica, di natura politica e culturale, che raccogliendo la sfida della postmodernità trasformi la crisi che si annuncia nell'opportunità di una rifondazione ed una rinascita dei destini storici dell'uomo. Come insegna Hölderlin, «dove il pericolo è più grande, là nasce ciò che salva» (280).

Stefano Vaj

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(258) Albert Jacquard, Elogio della differenza, op. cit., pag. 98 [edizione parziale Web].
(259) Sembra suggestivo immaginare che l'interdizione rituale riguardante il maiale, simbolo dell'allevamento a scopi alimentari, possa apparentarsi con la più generale condanna o diffidenza d'ordine morale nei confronti dei portati della rivoluzione neolitica.
(260) Ad esempio, nel caso dei cammelli, dove tale selezione umana è molto più antica, la stessa capacità di accoppiarsi e partorire senza un "aiuto" umano è a quanto pare oggi del tutto eccezionale. Cfr. John Reader, Africa, Mondadori, Milano 1997.
(261) Cfr. Ronald A. Fisher [alias], The Genetical Theory of Natural Selection, Clarendon Press, Oxford 1930 (ult. ed. Oxford University Press, Oxford 2000).
(262) In realtà, spettacolari quanto risalenti. Il "tipico frutto africano", la banana, innanzitutto è frutto di un'importazione umana (in particolare dal sud-est asiatico) nell'ambiente ecologico e climatico parzialmente differente del Continente Nero, e in secondo luogo in tutte le sue varietà commestibili è... priva di semi e partenocarpica (ovvero, i frutti sono prodotti da fiori femminili non impollinati), cosa che impedisce completamente la sua riproduzione se non per talea, processo che non può ovviamente avvenire in natura. Cfr. John Reader, L'Africa, op. cit., pag. 250. Niente banani, perciò, senza un contadino che li abbia piantati.
(263) Gli scavi di Atapuerca suggeriscono per altro la presenza (in Europa!) di individui morfologicamente molto simili all'Homo sapiens, e probabilmente appartenenti alla nostra specie, sin da settecento o ottocento milioni di anni fa. Cfr. Maurizio Blondet, L'uccellosauro ed altri animali,Edizioni Effedieffe, Milano 2002.
(264) Per le ovvie conclusioni dietologiche, nutrizionistiche e persino mediche che pare lecito trarne, cfr. Loren Cordain, The Paleo Diet: Lose Weight and Get Healthy by Eating the Food You Were Designed to Eat, Willey, New York 2001; Michael Eades, The Protein Power, Bantham, New York 1997; Robert C. Atkins [alias], The Age-Defying Diet, St. Martin Press, Baltimora 2003. Vedi anche Jerry Brainum, "La dieta paleolitica", in Olympian News.
(265) Ciò è tanto più significativo stante la possibilità dei loro membri di scegliere cosa mangiare, e i fenomeni di assuefazione e tolleranza (legati al metabolismo dell'insulina) che il consumo di amidi e zuccheri tende a provocare negli esseri umani, e che tendono perciò a mantenerlo ed incrementarlo ove non si controllino deliberatamente. Cfr. Robert C. Atkins [alias], Dr. Atkins' New Diet Revolution, ult. ed. Evans 2003 (versione italiana: La dieta Atkins. Gli insospettabili vantaggi di un'alimentazione proteica, Mondadori, Milano 2004).
(266) Vedi Genevois, "Les nouveaux blés et la révolution verte", in Journal d'agriculture et botanique appliquée, 1, 2, 3, 1975, tomo XXII, pagg. 47-55.
(267) Affronta ad esempio l'argomento da questo punto di vista Enzo Caprioli, in "Cibo geneticamente modificato o scontro tra civiltà?", l'Uomo libero n. 55.
(268) Scrive Spengler già negli anni trenta: «Ancor oggi, che assistiamo alla fase conclusiva di questo triviale ottimismo, tali sciocchezze ci fanno pensare all'orribile noia, al taedium vitae, che la semplice lettura di simili idilli diffonde nell'anima; in realtà, se si avverasse anche soltanto in parte questa previsione, l'umanità verrebbe spinta a massacri e suicidi in massa» (Ascesa e declino della civiltà delle macchine, op. cit., pag. 37, ult. ed. italiana con il titolo L'uomo e la macchina, versione originale: Der Mensch und die Technik. Beitrag zu einer Philosophie des Leben).
(269) Albert Jacquard, Elogio della differenza, op. cit., pag. 118 [edizione parziale Web].
(270) Giovanni Monastra, "Maschera e volto" degli OGM, op. cit.
(271) Erik P. Eckholm, Disappearing Species: The Social Challenge, Worldwatch Institute, Washington D.C. 1978, pag. 6; vedi anche Edward O. Wilson, The Diversity of Life, Harvard University Press, Cambridge 1992, pag. 280.
(272) In realtà, come vedremo nel seguito, è molto probabile che arriveremo alla capacità di creare nuove specie prima di capire veramente in che modo la nascita di nuove specie avvenga (o almeno sia avvenuta) in natura. Il problema naturalmente non si pone per i fondamentalisti americani, versione "letteralista", per cui se l'idea di creare nuove specie è una pura bestemmia, quelle esistenti oggi sono tutte apparse più o meno contemporaneamente dalla bacchetta magica di Jahvé nei sei giorni descritti dalla Genesi... D'altronde, ciò che sappiamo con certezza è invece proprio il fatto che le specie viventi non sono apparse né in sei giorni, né in seicento anni, ma praticamente in tutto il corso della vita sulla Terra; ed inoltre sappiamo, a partire dal famoso esperimento di Pasteur [alias], che tutti gli esseri viventi, e tanto più gli esseri viventi superiori, discendono da altri esseri viventi, senza alcuna "generazione spontanea" da materia inerte (nullum vivum nisi e vivo). Ciò implica in tutta ovvietà che le "nuove" specie debbano essere derivate in qualche maniera da specie preesistenti; cosa del resto confermata dalla compresenza in specie diverse, in gradi differenziati, di caratteri simili e ricorrenti, che pure sono privi di particolare valore adattativo rispetto alle possibili alternative, ma sono coerenti con la descrizione del mondo vivente e della storia naturale in termine di ceppi, rami e stirpi. Altra questione è poi il fatto che la "nuova sintesi" neodarwiniana, basata unicamente su selezione e micromutazioni casuali, sia oggettivamente insoddisfacente nella sua capacità esplicativa, in particolare sotto il profilo matematico. Recenti, rivoluzionarie scoperte di tipo prettamente teorico sulla capacità di meccanismi elementari di generare gradi arbitrari di complessità sono d'altronde state applicate in modo molto interessante alla evoluzione del vivente. ad esempio da Stephen Wolfram, A New Kind of Science, Wolfram Inc., 2002 [versione Web], in particolare nella sezione "Fundamental Issues in Biology". Ciò pare rendere del tutto superato il problema che ha affannato per tanto tempo darwinisti ed antidarwinisti, ovvero la complessità, varietà ed adattamento delle specie viventi (con rispettivo ricorso "al caso e alla necessità" di Jacques Monod [alias], o al deus ex machina dell'intelligent design dei fondamentalisti): che la complessità debba essere frutto di un meccanismo o di una volontà altrettanto complessi è solo frutto di un pregiudizio.
(273) Le varietà di vitigno che danno vita all'amplissima gamma di vini oggi prodotti al mondo come noto non sono specie diverse (con pochissime eccezioni, come quella utilizzata per il Lambrusco, si tratta sempre e invariabilmente di Vitis vinifera) e neppure razze, ma... cloni di singoli individui, originariamente prodotti tramite incroci artificiali e poi costantemente replicati. Ogni singola bottiglia di Müller-Thurgau proviene da talee della pianta originaria creata da Müller e da Thurgau, e le differenze dipendono unicamente dal suolo in cui è stata piantata, dal clima, dall'annata, e dalle tecniche di coltivazione e vinificazione del relativo produttore.
(274) Non è un caso che lo spettro di Frankenstein (l'omonimo racconto di Mary Shelley [versione originale, versione originale Web], ricordiamo, era sottotitolato Il moderno Prometeo), venga regolarmente agitato, insieme con quello "nazista", come mito incapacitante relativamente a qualsiasi tipo di applicazione del genere; siano le possibili applicazioni poste in atto a fini eugenetici o meno, rientrano comunque nell'ambito di un ampliamento di quel "dominio dell'uomo su se stesso" che la tendenza dominante vuole teoricamente abolire, o almeno costantemente denunciare e colpevolizzare. Cfr. l'epiteto di "frankenfood" per gli OGM a scopo alimentare.
(275) Hervé Kempf, La revolution biolithique. Humains artificiels et machines animées, op. cit., pag. 8.
(276) Hervé Kempf, La revolution biolithique. Humains artificiels et machines animées, op. cit., pag. 211.
(277) Hervé Kempf, La revolution biolithique. Humains artificiels et machines animées, pag. 212.
(278) Secondo Jeremy Rifkin, come dalla sponda opposta secondo Guillaume Faye, sussiste una convergenza culturale più profonda, che vede l'ambiente ecologico e lo stesso essere vivente considerati come sistemi cibernetici, e nel caso dell'essere vivente il DNA come il suo software, con conseguente sforzo di sviluppare tecniche appunto a partire da questo approccio. Esistono d'altronde livelli ulteriormente avanzati, che disegnano a lungo termine una possibile convergenza dell'ingegneria genetica e più in generale del biologico con l'ingegneria informatica, molto al di là dei primi rozzi esperimenti grazie a cui ad esempio Il Sole-24Ore ha dato il 26/02/2004 notizia di un collegamento effettuato con successo di terminali elettronici al cervello di una lampreda. Che si tratti della possibilità di effettuare il backup della personalità di un essere umano in un dispositivo artificiale, di sviluppare calcolatori basati su neuroni e/o molecole di DNA, o di interfacciare direttamente tessuti nervosi con dispositivi e sensori di natura arbitraria, tale tendenza va sicuramente nel senso di attenuare i confini tra l'organismo e il contesto in cui si trova ad operare, così come quelli tra i sistemi biologici e sistemi di altro genere, ad esempio digitali.
(279) Jeremy Rifkin, Il secolo biotech, op. cit., pag. 35.
(280) «Wo aber Gefahr ist, wächst das Rettende auch» (da Patmos [versione Web], poesia contenuta ad esempio, con traduzione a fronte, , a pag. 314 di Friedrich Hölderlin, Tutte le liriche, Mondadori, Milano 2001). Per la verità, il richiamo a questi due versi del poeta tedesco è almeno in un certi circoli ormai un po' inflazionato, essendo divenuti una della citazioni preferite di Heidegger, e tramite questo, di Alain de Benoist.