Biopolitica. Il nuovo paradigma
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La
manipolazione del vivente
L'obiezione
morale di matrice umanista contro la manipolazione del vivente è
ben espressa da un dialogo tratto da Jacquard ()
da una sua conversazione con un giornalista: «Domanda:
Lei pretende che non sia possibile migliorare la specie umana;
tuttavia, l'Uomo è riuscito a migliorare numerose specie
animali o vegetali; non può mettere in dubbio, per esempio, il
miglioramento delle razze equine. Risposta: Se fosse un
cavallo, penserebbe davvero che si tratti di un miglioramento?».
La
risposta ovviamente è: l'allevatore, il "secondo uomo",
ha fatto esattamente la scelta di tenere conto del suo punto
vista, e non di quello del cavallo, perché è in
rapporto a questo punto di vista che si definisce il suo
essere-nel-mondo, la sua umanità intrinseca.
Di
converso, è anzi legittimo ritenere che tale "soggettività",
e il processo di domesticazione della realtà e di se stesso
che essa implica, costituisca proprio lo specifico umano, uno
specifico forse tragico, ma che certo può venir giudicato,
specie nella prospettiva indoeuropea, ineluttabile e/o da perseguire.
Abbiamo
già visto d'altronde come la "naturalità" del
mondo del secondo uomo, quella che pure oggi è in crisi, sia
ampiamente sopravvalutata, per l'ovvia ragione che la troviamo come
un dato ricevuto, spesso immutato da secoli. Non c'è niente di
naturale ad esempio in un campo di grano, e il disboscamento
dell'Italia centrale o l'eliminazione di alcune specie di predatori
nella stessa zona non è frutto della rivoluzione industriale,
ma era già ad uno stadio avanzato in epoca pre-romana.
La
domesticazione degli animali ha seguito di poco la comparsa
dell'agricoltura organizzata; quella del cane, specie come aiutante
del cacciatore, sembra addirittura averla preceduta, perché
sarebbe avvenuta almeno dodicimila anni fa. Quella dei cavalli, degli
ovini e dei bovini pare più recente, e non andare oltre
seimila anni fa; è stata d'altronde ampiamente preceduta da
quella del maiale, primo animale da carne che ha poi finito,
circostanza interessante, per costituire l'oggetto di complessi
significati simbolici ed interdetti religiosi ().
Come
ammette Jacquard,
questa domesticazione è stata sin dall'inizio accompagnata da
un'azione mirante ad accrescere le caratteristiche che gli allevatori
giudicavano utili o piacevoli; anzi, sembra che gli sforzi per
conservare tratti eccezionali considerati piacevoli abbiano
largamente preceduto quelli tendenti a migliorare i "rendimenti"
in termini di lavoro, carne, latte o lana.
Un'azione
sistematica per migliorare certe caratteristiche utili del bestiame
tramite incroci diretti risale per i bovini almeno al diciottesimo
secolo. È certamente vero che vi sono conseguenze indirette
"sfavorevoli" della selezione mirata, in particolare in
termini di "fragilità" degli animali e/o accresciuta
incapacità di sopravvivere o riprodursi autonomamente, che
rende necessario rinnovare indefinitamente tale processo ().
A partire dagli anni trenta, grazie ai progressi della genetica delle
popolazioni, i metodi messi a punto in modo empirico nel corso dei
secoli hanno potuto ricevere una solida base teorica. Dalle iniziali
analisi di Fisher [alias]
(),
è tutto un fiorire di modelli che permettono di guidare in
modo più ragionato le scelte del selezionatore, e la cui
diffusione non è estranea all'interesse per l'eugenetica umana
venuto in luce proprio nello stesso periodo.
Come
ammette Jacquard,
i risultati raggiunti già in epoca pre-biotecnologica non
possono essere messi in discussione: «Il rendimento in latte
delle mucche, il ritmo di crescita dei maiali, la produzione di uova
dei polli, tutte le caratteristiche degli animali da cui dipende la
nostra alimentazione sono state migliorate in modo talvolta
spettacolare: se in una nazione "tradizionale" [e la cui
popolazione bovina è già e dappertutto frutto di una domesticazione e selezione secolare, N.d.A.] una vacca
fornisce 400 litri di latte all'anno, negli Stati Uniti il rendimento
medio raggiungeva nel 1955 i 4725 litri, e nel 1967 aveva superato i
5500». Risultati altrettanto indiscutibili sono del resto
raggiunti nella selezione di caratteristiche quali le prestazioni dei
cavalli da corsa, o la specializzazione ed addestrabilità dei
cani.
I
risultati nella manipolazione delle specie vegetali, ad esempio nella
coltivazione dei cereali, sono ancora più spettacolari ().
Esistono
per la verità ragionevoli teorie per cui gli esseri umani non
sono realmente adattati ad una dieta basata sugli amidi – che
presuppone semina, coltivazione, lavorazione e soprattutto cottura
(un uomo nudo in un campo di grano muore di fame), così che
l'assunzione di tali alimenti è entrata nelle abitudini della
nostra specie, attestata da almeno trecentomila anni (),
solo da una manciata di millenni. Anzi, i portati della paleopatologia tendono a dimostrare che una serie di malattie (dalla carie al
diabete, alle disfunzioni cardiovascolari, a certi tipi di cancro,
alla tendenza all'obesità), che si tende facilmente ad
attribuire alla "vita moderna", sono molto più
antiche e risalgono in effetti al mutamento di dieta seguito
all'avvento dell'agricoltura, mentre lasciano pressoché
indenni le popolazioni che nello stesso periodo o anche
successivamente continuano a vivere in società di caccia e
raccolta ().
Anche qui, è del resto interessante notare come le
aristocrazie della società del "secondo uomo"
tendono regolarmente a perpetuare modi di vita arcaici, tramite una
dieta in media molto più ricca di proteine e verdure fresche
che di cereali ().
Sia
quel che sia, una società basata in via generale su
un'economia di caccia e raccolta necessita di un territorio immenso
per sostentare una popolazione minima, e costringe di fatto
quest'ultima al nomadismo, così che è appunto il
passaggio ad una dieta basata per la gran parte della popolazione sui
carboidrati che ha consentito la prima grande esplosione demografica,
ed il cambiamento di abitudini culturali insito nella nascita di
agglomerati urbani e nella vita stanziale. Ed è sempre
l'agricoltura che ha accompagnato lo sviluppo esplosivo della
popolazione mondiale negli ultimi due secoli, dalla rotazione delle
colture sino a giungere alla "rivoluzione verde" del
secondo dopoguerra.
Un
esempio notevole è quello del grano e dei risultati ottenuti
dal Centro Internazionale di Miglioramento del Grano dell'Università
di Chapingo, in Messico .
In tale paese la coltivazione del grano non aveva da secoli compiuto
alcun progresso, sino all'istituzione di tale centro alla fine degli
anni quaranta. All'epoca il rendimento raggiungeva appena i 9
quintali per ettaro; la raccolta annuale di 3 milioni di quintali non
copriva neppure metà del fabbisogno nazionale. Norman Burla,
responsabile del centro, cercò, tra le circa cinquemila
varietà coltivate nella regione, quelle che offrivano la
migliore resistenza alla ruggine dei cereali; le incrociò con
una varietà giapponese a culmo corto, effettuò decine
di migliaia di tentativi di ibridazione e ottenne nuove varietà
che avevano tutte le caratteristiche desiderate dai coltivatori: una
pianta sufficientemente corta per non allettare, in grado di
resistere alla siccità, capace di tollerare una forte
concimazione azotata e di sfruttarne l'apporto per produrre chicchi
più grossi e più numerosi. In condizioni ideali, fu
possibile ottenere 75 quintali per ettaro. Dal 1965 la quasi totalità
dei coltivatori messicani utilizza le sementi messe a punto
dall'Istituto, e già in tale anno la locale "battaglia
del grano" portò ad un raccolto superiore ai 22 milioni
di quintali.
Gli
sforzi di ricerca mirati di altri paesi hanno presto raggiunto
analoghi successi, consentendo ad esempio di raggiungere rendimenti
vicini ai 20 quintali per ettaro in condizioni semidesertiche. I
risultati raggiunti non sono stati del resto solo quantitativi. Ad
esempio, ricercatori indiani sono riusciti già negli anni
sessanta, grazie a mutazioni indotte con raggi X, a ottenere nuove
varietà di grano più ricche di proteine, e in
particolare di proteine contenenti lisina, in modo da limitare i
danni di un'alimentazione largamente basata sul cereale in questione,
ad esempio sotto forma di pane.
Altre
piante hanno beneficiato di simili ricerche. Le diverse varietà
di riso coltivate nella stazione di ricerca dell'Università
agricola del Pendjab indiano avevano, sempre nel 1965, un
rendimento medio di una tonnellata per ettaro; la creazione e
diffusione di varietà semi-nane ha fatto passare tale
rendimento a 1,8 tonnellate nel 1970 e 2,6 nel 1975. Tutti conoscono
lo straordinario sviluppo della coltivazione del mais; prima ancora
delle varietà OGM, le stazioni sperimentali dell'Iowa e del
Wisconsin non solo avevano già rendimenti che in altre epoche
sarebbero stati ritenuti miracolosi, e superiori a 50 quintali
all'ettaro, ma un'uniformità tale da renderne possibile la
raccolta meccanizzata.
La
manipolazione di tali specie comporta inevitabilmente rischi e
problemi sia dal punto di vista strettamente biologico ed umano, che
da quello politico-economico e culturale, come vedremo in particolare
con riguardo ai cosiddetti "organismi geneticamente modificati"
();
ma giova notare sin d'ora come rispetto ad essa siano difficilmente
sostenibili risposte neo-primitiviste, o ingenuamente "di
destra".
Dal
punto di vista egualitario, sussiste un ovvio conflitto tra la
"peccaminosità" intrinseca di tali, pure
tradizionali, manipolazioni e la preoccupazione umanitaria legata
alla "fame nel mondo". Da altri punti di vista, non è
possibile ignorare il significato che l'adozione o meno di tali
tecniche assume in chiave di autosufficienza alimentare, e perciò
in ultima analisi di indipendenza politica, ed in termini di capacità delle società che ne fanno uso di sostenere
una demografia radicalmente diversa a parità di territorio,
esattamente come è successo all'epoca della rivoluzione
neolitica e dell'avvento dell'agricoltura, e di nuovo con conseguenze
ovvie in termini di sopravvivenza a medio-lungo termine della
comunità di riferimento e della sua base biologica, rispetto
alle altre con cui si trova in concorrenza riproduttiva.
Abbiamo
visto come sia d'altronde ugualmente inadeguato l'approccio
progressista ingenuo, da Ballo
Excelsior [alias],
che considera gli effetti della manipolazione del vivente ed il
progresso delle tecniche al riguardo in chiave indiscriminatamente
"ottimista" ed universalista, come stadi in un percorso di
graduale miglioramento, inteso in termini essenzialisti ed assoluti,
destinato a portarci dritti dritti nel paradiso terrestre
dell'abbondanza, e della fine dei conflitti e dell'alienazione ().
Anzi, proprio l'acquisita consapevolezza dell'insostenibilità
di tali visioni si trasforma oggi, specie da sinistra, in argomento
di condanna e "dubbio" sistematico rispetto alla
manipolazione del vivente, alla luce anche di una aumentata presa di
coscienza della sua portata prometeica, nel momento in cui tale
manipolazione viene a sfociare in una determinazione globale
dell'uomo e del suo ambiente da parte dell'uomo stesso.
Scrive Jacquard:
«Ad ogni tappa dei loro sforzi i selezionatori hanno migliorato
per esempio le razze di fagioli; non si tratta di mettere in dubbio
l'interesse di ciascuno dei progressi realizzati, ma il risultato
finale è davvero un miglioramento? Le varietà ottenute
hanno rendimenti meravigliosi nelle condizioni molto particolari in
cui le coltiviamo; sono incapaci di sopravvivere nelle dure
condizioni che il più delle volte offre l'ambiente naturale.
[...] Non abbiamo migliorato né il grano né i cavalli:
abbiamo migliorato la capacità del grano di utilizzare certi
concimi, la capacità delle mucche di produrre latte, la
capacità dei cavalli di correre rapidamente. [...] Il
patrimonio genetico di queste qualità è migliore del
patrimonio ancestrale? O, al contrario, gli è inferiore? A
questa domanda non può essere fornita alcuna risposta. Il
risultato dipende dalle condizioni in cui effettuiamo il confronto»
().
Ciò
è assolutamente vero, ed anche ovvio.
Ciò che è invece del tutto immaginaria è
l'esistenza di un patrimonio ancestrale, di un ambiente naturale, cui
sia oggi possibile fare riferimento. Il granoturco,
o mais, è stato selezionato ed incrociato per migliaia di
anni, prima che dagli agronomi e dai genetisti, dagli indiani
Maya; ancora prima della scoperta dell'America, le varietà
coltivate erano già così lontane dall'avere le
caratteristiche naturalmente necessarie alla riproduzione da non
potersi affatto perpetuare senza un intervento umano. Oggi, se un
cataclisma provocasse l'estinzione della specie umana,
contemporaneamente scomparirebbe dalla faccia della terra anche il
mais; ne rimarrebbe probabilmente una sola specie, la teosinta,
inadatta alla coltivazione ed oggi considerata un'erbaccia, ma che a
quanto è stato ipotizzato sarebbe la lontana antenata del
mais, o almeno una discendente selvatica di un antenato del mais.
Cos'ha di "naturale" il mais con cui da secoli viene
preparata la
polenta nelle valli alpine e nella bergamasca, e da millenni le
pappe o le pannocchie abbrustolite delle popolazioni andine?
La
verità è che qualunque giudizio sulla validità
di un corredo genetico non può che essere relativo; ma la
relatività del giudizio in questione non lo rende meno "vero",
a partire naturalmente dal contesto e dalle scelte di valore cui lo
stesso fa riferimento.
Ugualmente,
se la varietà e ricchezza della biosfera sono oggi minacciate,
la loro conservazione futura non può che essere frutto di una
scelta deliberata, politica, e del tutto artificiale, così
come la conservazione nel patrimonio genetico delle specie vegetali
ed animali, uomo compreso, di caratteristiche "ancestrali"
e/o prive di un significato adattativo nelle concrete condizioni
ambientali in essere, ma che è possibile scegliere di
mantenere, per lungimiranza – in vista della sopravvivenza nel caso
di un mutamento profondo di tali condizioni ambientali –, oppure
per ragioni estetico-affettive e culturali. La raccolta,
classificazione e protezione del selvatico e delle razze locali, per
il relativo patrimonio genetico, è anzi una prospettiva
moderna, o meglio post-moderna, che ben può porsi in
contrasto con pratiche millenarie volte invece alla riduzione e specializzazione, specie delle varietà vegetali, a
favore di quelle utili, e tra queste a quelle qualitativamente e
quantitativamente preferibili per il contadino e i suoi padroni o
clienti. In questo senso sembra problematico rappresentare
l'agricoltura tradizionale, decantata in questo senso ad esempio da Giovanni Monastra (),
come "custode" di una varietà biologica che essa
storicamente non ha mai fatto altro che ridimensionare e combattere.
Naturalmente,
la prima manipolazione della biosfera avviene, prima ancora che
tramite la selezione o lo sterminio (o... la conservazione deliberata
ed artificiale) di specie e razze vegetali ed animali,
indirettamente, attraverso l'alterazione dell'ambiente, alterazione
che costituisce il marchio del "secondo uomo" rispetto al
primo.
Tale
alterazione oggi non fa altro che giungere a compimento: prima
dell'industria, dell'inquinamento industriale, delle grandi
monoculture, dell'effetto serra, il panorama del pianeta è
stato radicalmente trasformato dal disboscamento, dal pascolo, dalla
seminatura, dall'insediamento artificiale di specie al di fuori al di
fuori del loro habitat originario. Se tutto ciò nell'Europa
centrale e meridionale e nel bacino del Mediterraneo è in atto
da migliaia di anni, la radicale trasformazione di zone periferiche
come Islanda o Australia si è compiuta integralmente nella
nostra era. E tutto ciò va certamente nel senso di una
diminuzione della ricchezza biologica della Terra. Le specie e le
razze si sono sempre estinte, e conservare specie destinate
all'estinzione è altrettanto "manipolatorio" che
accelerare quest'ultima; ma se è vero come sostengono alcuni
autori che all'epoca dei dinosauri si estingueva circa una specie
ogni mille anni, all'inizio dell'era industriale una ogni dieci, ed
oggi saremmo al ritmo di tre
specie estinte all'ora (),
è lecito porsi il problema, in particolare quando non sono
affatto chiarite le condizioni e modalità della (possibile)
apparizione di nuove specie, ed è addirittura rimesso in
dubbio, e non solo da parte dei fondamentalisti biblici, il fatto
che processi di speciazione siano oggi tuttora in corso ().
La
varietà e ricchezza della vita sulla Terra riguarda del resto
tanto il grado di varianza all'interno delle popolazioni,
quanto il grado di varianza delle popolazioni l'una
rispetto all'altra; e per quanto riguarda le popolazioni umane,
parrebbe naturale che la sua difesa debba riguardare innanzitutto la
difesa appunto della differenza della popolazione interessata,
e la lotta all'entropia etnoculturale da cui tale differenza è
inevitabilmente minacciata. Entropia che abbiamo visto agire
attraverso una crescente eliminazione dei fattori di segregazione
(immigrazione, monoglottismo, sradicamento, panmissia, etc.) e di
selezione orientata (uniformizzazione dell'ambiente e dei modelli
culturali a livello planetario).
La
manipolazione del vivente verificatasi dalla rivoluzione neolitica
non si è fermata comunque all'alterazione dell'ambiente, alla
domesticazione ed alla selezione orientata. Clonazione, innesti,
ibridazione, monocultura, fecondazione artificiale, fanno ugualmente
parte di un repertorio di strumenti tradizionale, anche se a lungo
principalmente vertente sul mondo vegetale. Nel diciannovesimo secolo
l'oidio,
la pebrina e la filossera hanno messo in ginocchio in pochi anni l'allevamento dei bachi e la
coltivazione della vite nel continente europeo a seguito appunto
dell'utilizzo esclusivo, da secoli, di ceppi poi rivelatisi
vulnerabili ().
Come sanno anche i bambini, il mulo che accompagnava e talora accompagna ancora oggi l'alpino è un ibrido sterile prodotto deliberatamente ad ogni
generazione tramite l'incrocio "contronatura" di due specie
diverse, per gli scopi del medesimo alpino.
Ciononostante,
la frattura epocale cui siamo oggi confrontati non può essere
sottovalutata, e le sue conseguenze sono politiche ed
esistenziali ad ogni livello. Siamo di fronte non solo a scelte di
civiltà, ma a scelte che decideranno dell'egemonia futura sul
pianeta e della nostra capacità di cambiare, o secondo i casi
conservare, i modi di vita che abbiamo conosciuto sino ad ora.
Nota
Kempf, a proposito che quella che definisce da parte sua la rivoluzione biolitica: «L'umanità
ha compiuto l'impresa di affermare la sua signoria sulla natura
aperta con la rivoluzione neolitica; essa si impegna ora in
un'impresa di affermazione della sua signoria sugli organismi
biologici al livello individuale e di trasferimento di proprietà
biologiche alla materia inerte ().
L'effetto delle potenti tecniche che cominciamo ad impiegare per
manipolare il vivente e per animare l'artificiale rende cruciale per
la nostra generazione riattualizzare le questioni di ciò che
sono e l'uomo e la vita. Non cambiamo di mondo, cambiamo di essere»
().
E
ancora: «La mia
ipotesi è che le ricerche contemporanee manifestino, al di là
delle loro preoccupazioni immediate e dei loro metodi, una coerenza
globale. Il loro avvento non ha luogo come un'insorgenza disordinata,
ma come il prodotto di una volontà comune di agire
dall'interno sul vivente, trasformando l'organismo biologico,
animando costruzioni minerali o logiche, o avvicinando i due tipi di
tecnica. Tale volontà pare abbastanza antica perché se
ne possano cogliere le traccie in diverse mitologie. Ma mai aveva
preso una espressione così manifesta come oggi. Offrendogli i
mezzi della sua realizzazione, le nuove tecniche forgiano un
cambiamento del rapporto dell'umano con il mondo così profondo
da apparentarsi ad una rottura, una rottura di cui si trovano pochi
esempi equivalenti nella storia umana»
().
L'esempio
paradigmatico è quello che abbiamo già discusso:
«Qualche migliaio di
anni fa, le società umane hanno cominciato a passare da un
modo di sussistenza basato su caccia e raccolta a un'economia fondata
sull'agricoltura e l'allevamento – in breve, dal saccheggio allo
sfruttamento. La costituzione di riserve alimentari ha permesso di
affrancarsi dalle costrizioni ecologiche immediate. Questa mutazione,
che ha definitivamente trasformato l'organizzazione delle società
umane, fu battezzata rivoluzione neolitica dall'archeologo
australiano Gordon
Childe negli anni trenta. Se l'archeologia ha
precisato la descrizione del fenomeno – un processo disteso su vari
secoli e millenni, ed affermatosi in circa sette focolai geografici
principali – ne ha conservato l'idea generale. L'entrata nell'era
neolitica ha marcato un cambiamento radicale del rapporto tra l'uomo
e la natura. Prima, bisognava sottomettersi ad una potenza
incommensurabile che dispensava arbitrariamente gli alimenti della
sopravvivenza; presto, divenne possibile mettere sotto controllo
queste forze minacciose o misteriose per asservirle alla
soddisfazione dei bisogni umani. [...] Oggi, fortificata dai nuovi
poteri usciti dalla conoscenza scientifica, la civiltà
neolitica ha compiuto la sua impresa: non esiste più una
natura "selvaggia". Come ha constatato la rivista Science,
"non vi sono più posti sulla terra che non siano
nell'ombra dell'umanità". L'umanità influenza oggi
totalmente la biosfera, per trasformazione diretta o tramite modifica
dei suoi equilibri biochimici. Non che essa ne padroneggi i processi,
ma non ne esiste più alcuna parte che sia immune dalla sua
influenza. [...] Ebbene, come i nostri antenati sono entrati in
un'era nuova quando hanno cominciato la conquista della natura
selvaggia, nello stesso modo, trasformando il vivente e tentando di
proiettarne le caratteristiche nella materia inerte, noi entriamo in
una nuova era, dominata dalle tecniche che sposano il vivente (βίος, bios) al
minerale (λύθος, lithos)
e che è appropriato chiamare biolitica»
().
Pur
se declinato nell'ambito di limiti mentali americani ed economicisti,
è interessante quello che scrive al riguardo di questa
rivoluzione il più volte citato Jeremy
Rifkin: «I grandi cambiamenti nella storia avvengono quando
forze culturali, economiche e tecnologiche si uniscono per creare una
nuova "matrice operativa". Ci sono sette elementi che
compongono la matrice operativa del secolo delle biotecnologie».
Questi
i sette elementi individuabili secondo l'autore: «Innanzitutto,
la possibilità di isolare, identificare e ricombinare i geni
fa del pool genetico una nuova materia prima. Le tecniche del DNA
ricombinante e altre biotecnologie consentono agli scienziati di
individuare, manipolare e sfruttare le risorse genetiche per fini
specifici. In secondo luogo, la concessione di brevetti sui geni,
sulle linee cellulari, sui tessuti, sugli organi e sugli organismi
manipolati geneticamente, nonché sui processi usati per
alterarli, crea i presupposti per lo sviluppo e lo sfruttamento
economico delle relative risorse. In terzo luogo, la globalizzazione
rende possibile una ricostruzione complessiva della biosfera mediante
una seconda genesi concepita in laboratorio, la creazione di una
natura bioindustriale prodotta artificialmente e costruita per
rimpiazzare gli schemi propri dell'evoluzione. Un'industria mondiale
delle scienze della vita sta per acquisire un potere senza precedenti
sulle vaste risorse biologiche del pianeta. In quarto luogo, la
mappatura dei circa centomila geni che fanno parte del genoma umano,
le nuove scoperte nel campo dello screening genetico, i bio-chip, la
terapia genica a livello di cellule somatiche e di manipolazione
genetica degli ovuli, degli spermatozooi e delle cellule embrionali
umane, stanno aprendo la strada all'alterazione della specie umana e
alla nascita di una civiltà eugenetica pilotata dal commercio.
In quinto luogo, una serie di nuovi studi scientifici sulle basi
genetiche del comportamento umano e la sociobiologia, che privilegia
la natura rispetto all'educazione, forniscono un contesto culturale
per l'estesa accettazione delle nuove idee e tecnologie. In sesto
luogo, il computer fornisce il mezzo di comunicazione e di
organizzazione per gestire le informazioni genetiche che
costituiscono la materia delle biotecnologie. In tutto il mondo, i
ricercatori usano comunemente i computer per decifrare, scaricare,
catalogare e organizzare le informazioni genetiche, e ciò
permette loro di creare un nuovo magazzino di capitale genetico da
usare nell'era bioindustriale. Le tecnologie del calcolo e quelle
genetiche si stanno fondendo in una potente nuova realtà
tecnologica ().
In settimo luogo, un nuovo atteggiamento culturale nei confronti
dell'evoluzione sta cominciando a rimpiazzare l'impostazione
neo-darwiniana con una visione della natura che sia compatibile con
gli assunti delle nuove tecnologie e della nuova economia globale»
().
Parte
di ciò che Rifkin descrive, e denuncia, è un "incubo"
solo per chi sia legato ai pregiudizi ideologici egualitari e
umanisti dell'autore, e per altri potrebbe anzi contenere gli
elementi di un sogno di scala fino ad oggi impensabile. Per il resto,
ovvero per la parte più genericamente pessimista, lo scenario
ipotizzato è certo perfettamente possibile, ma non è
che una delle alternative che si aprono al "secolo
biotech"; e ciò che unicamente può evitarlo non
saranno certo atteggiamenti di luddismo primario, proibizionismi
improbabili, o "denuncie" di questo tipo, ma solo una volontà tragica, di natura politica e culturale, che
raccogliendo la sfida della postmodernità trasformi la crisi
che si annuncia nell'opportunità di una rifondazione ed
una rinascita dei destini storici dell'uomo. Come insegna Hölderlin,
«dove il pericolo è più grande, là
nasce ciò che salva» ().
- Vai al capitolo precedente: La "tentazione eugenetica" (VIII)
- Vai al prossimo capitolo: Il secolo biotech (X)
Albert
Jacquard, Elogio della differenza, op. cit., pag. 98 [edizione parziale Web].
Sembra suggestivo immaginare che
l'interdizione rituale riguardante il maiale, simbolo dell'allevamento
a scopi alimentari, possa apparentarsi con la più generale condanna o
diffidenza d'ordine morale nei confronti dei portati della rivoluzione
neolitica.
Ad esempio, nel caso dei cammelli,
dove tale selezione umana è molto più antica, la stessa capacità di
accoppiarsi e partorire senza un "aiuto" umano è a quanto pare oggi del
tutto eccezionale. Cfr. John Reader, Africa, Mondadori, Milano 1997.
Cfr. Ronald
A. Fisher [alias], The Genetical Theory of Natural Selection,
Clarendon Press, Oxford 1930 (ult. ed. Oxford University Press, Oxford
2000).
In realtà, spettacolari quanto
risalenti. Il "tipico frutto africano", la banana, innanzitutto è
frutto di un'importazione umana (in particolare dal sud-est
asiatico) nell'ambiente ecologico e climatico parzialmente differente
del Continente Nero, e in secondo luogo in tutte le sue varietà
commestibili è... priva di semi e partenocarpica (ovvero, i frutti sono
prodotti da fiori femminili non impollinati), cosa che impedisce
completamente la sua riproduzione se non per talea, processo che
non può ovviamente avvenire in natura. Cfr. John Reader, L'Africa, op. cit., pag. 250. Niente
banani, perciò, senza un contadino che li abbia piantati.
Gli scavi di Atapuerca
suggeriscono per altro la presenza (in Europa!) di individui
morfologicamente molto simili all'Homo
sapiens, e probabilmente appartenenti alla nostra specie, sin da
settecento o ottocento milioni di anni fa. Cfr. Maurizio
Blondet, L'uccellosauro ed altri animali,Edizioni
Effedieffe, Milano 2002.
Per le ovvie conclusioni
dietologiche, nutrizionistiche e persino mediche che pare lecito
trarne, cfr. Loren Cordain, The Paleo Diet: Lose Weight and Get Healthy by
Eating the Food You Were Designed to Eat, Willey, New York
2001; Michael Eades, The Protein Power, Bantham, New York 1997; Robert C. Atkins [alias], The Age-Defying Diet, St. Martin Press,
Baltimora 2003. Vedi anche Jerry Brainum, "La dieta
paleolitica", in Olympian
News.
Ciò è tanto più significativo
stante la possibilità dei loro membri di scegliere cosa mangiare, e i
fenomeni di assuefazione e tolleranza (legati al metabolismo
dell'insulina) che il consumo di amidi e zuccheri tende a provocare
negli esseri umani, e che tendono perciò a mantenerlo ed incrementarlo
ove non si controllino deliberatamente. Cfr. Robert C. Atkins [alias], Dr. Atkins' New Diet Revolution, ult. ed. Evans 2003 (versione italiana: La dieta Atkins. Gli insospettabili vantaggi di
un'alimentazione proteica,
Mondadori, Milano 2004).
Vedi Genevois, "Les nouveaux blés
et la révolution verte", in Journal d'agriculture et botanique
appliquée, 1, 2, 3, 1975, tomo XXII, pagg. 47-55.
Affronta ad esempio l'argomento da
questo punto di vista Enzo
Caprioli, in "Cibo
geneticamente modificato o scontro tra civiltà?", l'Uomo
libero n. 55.